America Latina, frontiera avanzata della decadenza capitalistica

La crisi finanziaria che ha colpito il Messico lo scorso dicembre, manifestatasi con una repentina svalutazione della moneta messicana nei confronti del dollaro ed il crollo della borsa di Città del Messico, si è immediatamente estesa all’intero continente latino-americano. In pochissimo tempo i mercati finanziari dei paesi dell’America Latina sono stati investiti dall’onda lunga della crisi messicana, il cosiddetto effetto Tequila, determinando dei guasti irreparabili nelle strutture economiche di tutti i paesi dell’area. Sul piano sociale le conseguenze della crisi economica sono state come sempre scaricate sulle spalle della classe lavoratrice. I già bassi salari dei lavoratori latino-americani sono stati ulteriormente decurtati dai rispettivi governi, pronti nell’applicare le indicazioni provenienti dalle istituzioni economiche internazionali.

Ma l’esplosione della crisi messicana ha costituito un segnale inquietante per tutto il capitalismo mondiale. È emerso che nell’era della globalizzazione dell’economia lo scoppio di una crisi sia pure in un paese periferico come il Messico rischia di travolgere l’intero sistema finanziario mondiale. La creazione di un unico e grande mercato mondiale, se da un lato permette al capitale finanziario internazionale di circolare liberamente con la massima facilità e realizzare così altissime rendite parassitarie, dall’altro lato a causa dell’interdipendenza dei mercati si determina una maggiore vulnerabilità del sistema finanziario stesso nel momento in cui si verificano situazioni di crisi come quella messicana. Il capitalismo globalizzato, per aver esasperato le intrinseche contraddizioni del modo di produrre capitalistico, dimostra ogni giorno di più di non avere gli strumenti necessari per poter isolare eventuali crisi finanziarie; le situazioni di crisi regionali si trasformano immediatamente in crisi sistemiche. Sono state queste le preoccupazioni e i pericoli che hanno spinto gli Stati uniti e il Fondo Monetario Internazionale a soccorrere in aiuto dell’economia messicana, concedendo un mega prestito di 50 miliardi di dollari per evitare che il governo di Città del Messico dichiarasse la propria insolvibilità.

Sotto l’incalzare della crisi sono miseramente crollati come castelli di sabbia le illusioni della politica economica liberista, che negli anni ottanta aveva trionfalmente annunciato di voler lanciare i paesi dell’America Latina nel ristretto cerchio delle grandi potenze economiche mondiali. L’eredità che ci lasciano dieci anni di dissennata politica liberista è quella di un continente letteralmente in ginocchio, privo di una prospettiva di rilancio economico che possa contenere il dilagare di fenomeni come il degrado sociale e la miseria generalizzata. Tutto il continente latino-americano è attraversato da un diffuso stato di malessere sociale; la rivolta degli indios del Chiapas non costituisce un fatto isolato, ma rappresenta la punta di un iceberg di una società ridotta alla fame e pronta ad esplodere in qualsiasi momento.

Ma la crisi economica dell’America Latina per gli strettissimi rapporti economici esistenti tra le due aree coinvolge direttamente anche gli Stati uniti che da sempre hanno fatto del Sudamerica un proprio ed esclusivo terreno di conquista dove imporre il proprio dominio imperialista.

Un po' di storia

Gli Stati uniti già agli inizi del secolo scorso cominciarono ad interessarsi del vasto territorio che si estende a sud dei propri confini. I primi contatti diplomatici tra il governo di Washington e i paesi dell’America Latina si possono far risalire al 1822. In seguito alla vittoriosa guerra d’indipendenza della Grande Colombia (corrispondente all’incirca agli attuali stati della Colombia, Ecuador, Panama e Venezuela) ottenuta nel 1819 nei confronti della Spagna, l’allora presidente degli Stati uniti Monroe prima riconosce le colonie ribelli e poi spedisce agenti diplomatici in tutta l’America Latina in vista della successiva penetrazione economica e del saccheggio di materie prime. I rapporti economici tra gli Stati uniti e i paesi dell’America Latina assumono immediatamente delle dimensioni importanti anche grazie ai numerosi trattati preferenziali di commercio e di navigazione.

Se consideriamo 100 l’indice delle esportazione statunitensi verso i paesi dell’America Latina del 1825, osserviamo che tale indice passa a 70 nel 1850 (flessione dovuta alla guerra con il Messico), per salire a 220 nel 1875 e addirittura a 4434 nel 1917. Sul fronte delle importazioni si registrano tassi di sviluppo ancor più eclatanti; considerando sempre 100 l’indice delle importazioni statunitensi dall’America Latina nel 1825, l’indice sale a 289 nel 1850 non risentendo minimamente della guerra con il Messico, per arrivare a 1358 nel 1875 ed a 8872 nel 1917. (1)

Il surplus commerciale realizzato dai paesi dell’America Latina si spiega con il fatto che gli Stati uniti, in una fase di enorme sviluppo del proprio apparato produttivo ed avviati a diventare la prima potenza mondiale, avevano l’urgente bisogno di importare materie prime che solo i paesi del Sudamerica potevano fornire. Intorno al 1850 le importazioni di materie grezze da impiegare nella produzione industriale costituiva solo il 6,8% delle importazioni statunitensi, mentre quelle costituite da manufatti il 55%. Con lo sviluppo proprio dell’apparato industriale, gli Stati uniti invertono i rapporti tra le due voci della bilancia commerciale; nel 1910 le importazione di materie prime costituiscono il 36,4% del totale, mentre la quota delle importazioni di manufatti scende al 26%.

Nel secolo scorso le forme del dominio statunitense ed europeo sulle aree meno sviluppate si concretizzavano in una aggressiva politica colonialista. Per il capitalismo ottocentesco era di vitale importanza conquistare aree dalle quali attingere materie prime a buon mercato; per gli Stati uniti lo spazio naturale per perpetrare il ruolo di potenza coloniale non poteva che essere l’America Latina.

Le principali attività produttive che si svolgevano in America Latina nel secolo scorso avvenivano soprattutto tramite gli investimenti del capitalismo statunitense insieme a significative presenze di investimenti tedeschi ed inglesi. Per facilitare il trasporto delle materie prime a basso costo dai paesi dell’America Latina verso gli Stati Uniti, il capitalismo americano si adopera nella realizzazione delle più importanti opere di comunicazioni marittime e ferroviarie. In pochissimi anni i maggiori centri economici dell’America Latina sono collegati tra di loro tramite le linee ferroviarie. Lo sfruttamento della forza-lavoro latino-americana perpetrato dal capitale statunitense, con la fattiva collaborazione della borghesia locale, conosce in questi anni le forme più violente, alimentando tra le popolazioni dell’America Latina quel sentimento antistatunitense che è rimasto una costante nella vita politica latino-americana. Nel 1870 la sola costruzione dei 150 Km di ferrovia che collegavano Arequipa-Mejia, in Perù, da parte dell’americano Herny Meiggs, costa oltre 2000 morti tra i lavoratori impegnati nella realizzazione dell’opera.

Anche i collegamenti telegrafici sono opera del capitale statunitense, che li gestisce in regime di perfetto monopolio. Con il taglio dell’istmo di Panama, avvenuto nel 1914, il controllo statunitense sulle vie di comunicazione diventa completo. Gli Stati Uniti nel 1912, utilizzando un espediente formale, avevano sottratto la sovranità territoriale del canale alle autorità panamensi, consolidando definitivamente la propria supremazia sull’America centromeridionale.

Il capitalismo statunitense quando agli inizi del secolo comincia ad accumulare una massa sempre più grande di capitale finanziario, capitale che incontra delle difficoltà d’impiego nella madrepatria, la esporta prevalentemente nei paesi dell’America Latina. Nel 1924 gli Stati uniti esportano in Europa capitali per un totale di 1900 milioni di dollari, mentre in America Latina i capitali esportati sono ben 4040 milioni di dollari.

Il dominio economico statunitense nel continente latino-americano si è ulteriormente consolidato grazie alle continue ingerenze nella vita politica interna del Sudamerica. La storia dell’America Latina è piena di casi d’interventi diretti del governo statunitense, interventi che sono serviti per salvaguardare gli interessi imperialistici del capitalismo americano. Come non ricordare le numerose spedizioni militari dell’esercito statunitensi che all’inizio del secolo hanno invaso paesi come Cuba, Haiti ed il Nicaragua. Le occupazioni militari statunitensi, malgrado gli affinamenti nelle forme del dominio imperialistico, sono proseguite anche negli ultimi anni con le spedizioni a Panama, Grenada e nella stessa Haiti.

La borghesia latino-americana, diversamente da quanto sostiene una certa visione terzomondista, non ha subito passivamente lo strapotere della borghesia statunitense, ma con essa si è sviluppata in perfetta simbiosi. Se è vero che l’imperialismo statunitense ha esercitato il proprio dominio imperialistico nelle forme più violente, imponendo al proletariato Sudamericano condizioni di vita e di lavoro disumane, sulla borghesia latino-americana ricadono le stesse criminali responsabilità partecipando alla spartizione delle quote di plusvalore estorto alla classe operaia.

Il mantenimento della pace sociale, in una realtà come quella latino-americana dominata da condizioni d’intenso sfruttamento della classe operaia, si è quasi sempre realizzato attraverso forme di governo dittatoriali. Gli Stati uniti per tutta una fase storica, protrattasi fino agli anni ottanta, per difendere i propri interessi strategici, hanno sempre sostenuto le giunte militari che si sono susseguite nel corso degli anni. Questa particolare condizione, insieme ad altri fattori sociali, economici e culturali, ha determinato che in America Latina la lotta politica assumesse quasi sempre la caratteristica di essere lotta politica armata. Il continente Sudamericano ha sempre espresso movimenti politici d’opposizione che hanno utilizzato la lotta armata come unico strumento di battaglia politica, contribuendo ad alimentare quel mito tuttora in voga di guerriglieri eroici che combattono fino alla morte contro l’aggressione dell’imperialismo statunitense. Per l’insieme di questi movimenti armati l’unico obiettivo da realizzare è stato la lotta contro l’imperialismo statunitense, abbracciando di fatto le istanze politiche di alcuni settori della propria borghesia che volevano liberarsi dal giogo del dominio degli Stati uniti. La storia di questi movimenti è tutta interna a quella del variegato mondo del nazionalismo; sempre una politica antiamericana, in chiave nazionalistica, mai una posizione politica incentrata sull’anticapitalismo.

L’industrializzazione mancata

Con il secondo conflitto mondiale s’afferma definitivamente il dominio statunitense sull’intero subcontinente americano. Fino agli anni 1930-40, soprattutto l’Argentina, il paese dell’area più evoluto dal punto di vista economico, intrattiene rapporti privilegiati con Italia e Germania. Numerosi sono in quegli anni gli accordi commerciali che il governo argentino stipula con la Germania di Hitler che, prevedendo l’utilizzazione del marco come unità di conto, contribuiscono alla diffusione della moneta tedesca in molti paesi dell’America Latina. Godendo di una struttura economica di tutto rispetto, l’Argentina è il paese latino-americano che più di ogni altro cerca di imporsi come potenza regionale ostacolando la politica imperialistica degli Stati uniti. Il legame economico tra Argentina e Germania viene suggellato con il sostegno politico del governo di Buenos Aires, sia pure da un punto di vista formale in quanto l’Argentina non interviene nel secondo conflitto, alla Germania nazista. La sconfitta del nazifascismo determina l’isolamento internazionale del governo argentino, il quale, in una prima fase, viene escluso dalle organizzazioni latino-americane sorte nel dopoguerra. Ma l’acceso antiamericanismo del peronismo, che ha governato l’Argentina dal 1945 al 1955, si trasforma velocemente in un incondizionato sostegno agli Stati uniti nel momento in cui il paese viene ricondotto nella sfera d’influenza statunitense.

Dopo la fine della seconda guerra mondiale, che ha visto la schiacciante vittoria su tutti i fronti dell’imperialismo statunitense, l’America Latina conosce una periodo di relativo sviluppo. La furia distruttrice della guerra imperialista ha risparmiato il continente latino-americano, consentendo ai vari paesi di poter sfruttare le particolari contingente per sviluppare il proprio apparato produttivo. Le maggiori potenze economiche mondiali, per sostenere lo sforzo bellico, avevano determinato un aumento della domanda di materie prime, con la conseguenza di aumento considerevolmente le esportazioni dei paesi latino-americani.

Gli anni della guerra segnano una tappa importante per lo sviluppo economico dell’intera America Latina. Grazie all’aumento delle esportazioni di materie prime e di prodotti agricoli, che garantiscono un forte attivo nella bilancia commerciale, gli stati latino-americani si fanno promotori di un tentativo di processo di industrializzazione su vasta scala. Durante il decennio 1945-55 la produzione industriale dei paesi latino-americani si raddoppia. Tale dato assume però un contorno meno eclatante se consideriamo che l’incidenza del settore industriale nella composizione del prodotto interno lordo è relativamente modesto. Nello stesso periodo la percentuale del prodotto industriale sul prodotto nazionale lordo aumenta di appena un punto in Cile e Messico, dal 18 al 19% in Cile e dal 20 al 21% in Messico, di 2 punti in Argentina, dal 28 al 30%, e di 6 punti in Brasile passando dal 16 al 22%. Nel decennio 1955-65 l’evoluzione del prodotto industriale è meno rilevante. Soltanto in due economie si registra un aumenta del peso del settore industriale, quella brasiliana, dal 22 al 29%, e quella messicana dal 21 al 23%. Tutti gli altri paesi registrano una stasi o, come nel caso del Cile, un calo del peso del settore industriale. Alla fine degli anni sessanta soltanto tre paesi dell’America Latina, Argentina, Messico e Brasile, potevano contare su un settore industriale che incideva per oltre il 20% sulla produzione complessiva. Nelle altre economie l’incidenza del settore industriale non è determinante per la formazione del prodotto nazionale lordo.

La stagnazione dello sviluppo industriale dell’America Latina, verificatasi nel corso degli anni sessanta, si spiega con il precoce esaurimento della spinta propulsiva che maggiormente aveva contribuito all’industrializzazione dei paesi latino-americani: la sostituzione delle importazioni dei beni di consumo con una produzione nazionale. La borghesia latino-americana nell’immediato dopoguerra, utilizzando parte degli introiti derivanti dalle esportazioni di materie prime e prodotti agricoli, ha avviato un processo d’industrializzazione che doveva servire per sostituire l’enorme massa di beni di consumo importati con beni prodotti in loco. Negli anni sessanta tutti i beni di consumo intermedi, che in precedenza venivano importati, sono stati sostituiti. La sostituzioni di questi beni, anche in quei paesi con una sviluppata struttura industriale come l’Argentina il Brasile e il Messico, non ha determina la crescita dell’industria dei beni strumentali né una produzione industriale capace di reggere la concorrenza internazionale. Nel 1960 il prodotto industriale dei paesi latino-americani era di 47 miliardi di dollari, ma soltanto il 6,5%, circa 3 miliardi di dollari, era costituito da beni di capitale, mentre il 55%, circa 24 miliardi di dollari, era rappresentato da beni di consumo non durevoli. Sempre nel 1960 soltanto il 7% della produzione industriale complessiva trovava una collocazione sui mercati internazionali, mentre il 93% veniva consumato all’interno dei singoli paesi. La scarsa capacità dell’industria latino-americana di reggere la concorrenza internazionale è confermata dal fatto che la quota dei prodotti latino-americani presenti sul mercato mondiale tende costantemente a ridursi. Nel 1948 le esportazioni dell’America Latina rappresentano il 12% delle esportazioni totali, nel 1958 il 7,6% e nel 1970 la percentuale scende al 4,9%.

Nella prima fase dell’industrializzazione dell’America Latina ha giocato un ruolo determinante lo stato. Soltanto grazie al suo diretto intervento nei diversi settori dell’economia è stato possibile avviare l’industrializzazione dell’America Latina. Nel corso degli anni 60, sebbene l’industria statale in Argentina e in Brasile rappresentasse appena l’1 e il 6%, rispettivamente, della produzione complessiva, in Argentina controllava il 60% della produzione di acciaio, mentre in Brasile controllava l’85% dell’industria chimica di base e il 45% della produzione d’acciaio.

Un altro fattore determinante nel limitare l’industrializzazione dell’America Latina è stata la scarsa propensione al risparmio e la necessità di ricorrere a finanziamenti esteri per sostenere lo sviluppo industriale. Il ricorso al credito estero è stato assai limitato prima del 1950 (negli anni 40 il finanziamento estero fu appena di 6,5 milioni di dollari), mentre si espanderà in modo esponenziale nei decenni 1960 e 1970, dove si registrerà un flusso annuo di 200 milioni di dollari. Questa dipendenza dai finanziamenti esteri deve essere interpretata anche come un indicatore della necessità di ottenere dall’estero quella tecnologia avanzata che l’industria nazionale non era in grado di fornire. Infatti la concessione dei crediti esteri è vincolata all’acquisto di beni strumentali tecnologicamente avanzati provenienti da quegli stessi paesi che concedono i prestiti. Il continuo ricorso ai finanziamenti esteri determina una totale subordinazione dell’economia latino-americana dai capitali stranieri ed in maniera particolare da quelli statunitensi. Nel 1940 i capitali americani presenti nella struttura industriale dell’America Latina ammontano a 221 milioni di dollari, diventano 1,5 miliardi nel 1955 e ben 3,8 miliardi di dollari nel 1970. Nell’arco di un trentennio si accentua la penetrazione economica del capitalismo americano nell’apparato industriale dell’America Latina; alla fine degli anni 1960 il capitalismo statunitense controlla circa il 30% della produzione industriale latino-americano. Gli Stati uniti sono in questi anni anche il partner commerciale più importante per i paesi dell’America Latina; circa il 50% delle importazioni latino-americane provengono dagli Stati uniti.

L’insieme di questi dati (2) dimostra sufficientemente come il settore industriale latino-americano sia rimasto sempre un settore scarsamente qualificato, che utilizzava una tecnologia obsoleta e che si è potuto sviluppare grazie ad una politica protezionistica e agli incentivi concessi dallo stato. Dopo un primo periodo di sviluppo industriale, che nel decennio 1950-60 aveva illuso la borghesia latino-americana di poter raggiungere economicamente i paesi più avanzati, già dagli anni sessanta il peso economico dell’America Latina nel contesto dell’economia mondiale tende continuamente a ridursi. Agli inizi degli anni 70 la produzione dell’America Latina rappresentava soltanto il 4,8% dell’intera produzione internazionale. S’affaccia per la prima volta su vasta scala il fenomeno dell’indebitamento estero che tanti problemi determinerà in futuro ai paesi dell’America Latina. Durante il periodo 1950-67 affluiscono nei paesi dell’area, per prestiti a breve, medio e lungo termine ben 31,7 miliardi di dollari. Ma per ciascun dollaro ottenuto in prestito, ne venivano restituiti 80 centesimi per coprire i prestiti precedenti, e soltanto 20 centesimi venivano utilizzati nelle economie latino-americane.

La crisi economica che colpisce il capitalismo su scala internazionale nei primi anni settanta rallenta ulteriormente il processo d’industrializzazione dei paesi dell’America Latina. Inizia in questi anni un veloce processo di decadenza della società latino-americana, dove riaffiorano fenomeni di povertà che il capitalismo latino-americano sembrava non dovesse più riproporre. Le trasformazioni subite dal capitalismo negli ultimi due decenni, con la globalizzazione e la completa liberalizzazione dei mercati internazionali, contribuiscono in maniera determinante alla decadenza dell’America Latina. Si esasperano i fenomeni più parassitari di dominio imperialistico strangolando le deboli strutture produttive latino-americane. La conseguenza più evidente dell’andamento negativo degli anni 80 è che tutti i paesi dell’America Latina non sono più in grado di destinare ulteriori risorse ai nuovi investimenti. Risultato inevitabile di tale paralisi è il decremento che registra il prodotto interno lordo pro capite dell’America Latina, che per la prima volta in questo secondo dopoguerra diminuisce del 5,5% tra il 1980 e il 1987.

America Latina e globalizzazione del capitalismo

Tutti i paesi dell’America Latina agli esordi degli anni ottanta si trovano ad affrontare un altissimo tasso d’inflazione. L’inflazione galoppante determina in pochissimo tempo l’impoverimento generalizzato del proletariato latino-americano. Si dichiara chiusa l’esperienza della politica economica che per decenni era stata alla base dello sviluppo latino-americano, in quanto la sostituzione delle importazioni con merci prodotta all’interno dei propri confini non era più praticabile per l’immenso indebitamento con l’estero. Con l’elezione del presidente statunitense Reagan il capitalismo americano, per reperire i capitali necessari a finanziare e rilanciare la propria economia, inizia una politica-economica incentrata sugli alti tassi di interesse. L’innalzamento dei tassi statunitensi si riflette immediatamente su tutti i mercati finanziari mondiali, danneggiando le economie più esposte ai finanziamenti esteri. Il Messico è la prima vittima della svolta reaganiana, in quanto nell’agosto del 1982 non potendo più rispettare gli impegni assunti sospende unilateralmente il pagamento del debito estero.

La crisi economica della prima parte degli anni ottanta viene affrontata dalla borghesia latino-americana applicando una politica economica di stampo liberista. L’economia dell’America Latina, attraverso la scelta liberista, si lega in tutte le sue dinamiche alle sorti del capitalismo mondiale. Cadono, in conseguenza di tale radicale cambiamento, tutti i regimi militari che avevano governato per decenni molti paesi dell’America Latina. Nell’epoca della completa liberalizzazione e globalizzazione del capitale, non era più funzionale quella gestione autarchica dell’economia che era stata la base ideologica dei vecchi regimi militari. I dittatori sudamericani sono destituiti non per le lotte delle forze "democratiche" come sostiene una certa sinistra radicale, ma sono le mutate esigenze del capitalismo mondiale a determinare la propria fine.

Rilancio dell’economia, stabilità monetaria e integrazione dell’economia latino-americana nei mercati mondiali sono gli obiettivi dichiarati dei governi sostenitori della svolta liberista. Ma le illusioni generate dal raggiungimento di alcuni obiettivi parziali ben presto dovevano cedere il posto alla dura realtà della crisi finanziaria scoppiata nello scorso dicembre.

Il caso Messico

Fra i paesi dell’America Latina, il Messico costituisce sicuramente la realtà dove la politica economica liberista è stata applicata rispettando tutte le indicazioni provenienti dalle istituzioni finanziarie internazionali. Fino a pochi mesi prima della scoppio della crisi finanziaria gli Stati uniti e il Fondo Monetario Internazionale invitavano tutti gli altri paesi dell’America Latina a prendere il Messico come modello delle proprie scelte di politica economica.

L’economia messicana negli ultimi anni aveva compiuti notevoli progressi riuscendo anche a far parte dell’OCSE, l’organizzazione internazionale che raggruppa i paesi più industrializzati al mondo. Un altro vanto del governo messicano è stato quello di aver costituito insieme a Canada e Stati uniti il Nafta, ossia la più grande area economica del mondo per volume d’affare. Con la costituzione del mercato comune sono state abbattute le barriere doganali e i vincoli alla libera circolazione dei capitali tra i tre paesi. La costituzione del Nafta segna sicuramente il punto più alto del processo di liberalizzazione dell’economia messicana iniziato nel decennio scorso.

L’innalzamento dei tassi d’interesse, compiuto dal governo messicano nella seconda metà degli anni ottanta, è stato determinato da una serie di esigenze vitali per l’economia del paese. Bisognava assolutamente frenare l’elevatissima inflazione che nel 1987 aveva raggiunto il suo massimo storico con tasso annuo del 160%. La manovra sui tassi serviva per ridurre la massa monetaria in circolazione attenuando così le spinte inflazionistiche. Una secondo obiettivo da raggiungere con l’innalzamento dei tassi d’interesse era quello di bloccare la massiccia fuga di capitali verso l’estero; tra il 1983 e il 1988, in seguito allo scoppio della crisi debitoria, si effettuarono trasferimenti di capitali all’estero per un ammontare annuale equivalente in media al 5,8% del PIL messicano. L’emorragia di capitale finanziario aveva fortemente danneggiato l’economia reale, la quale nello stesso periodo era cresciuta solo di un modesto 0,56%. Nello stesso tempo l’obiettivo del governo era quello di attrarre capitali esteri e rilanciare l’economia. Invaso da una massa enorme di capitali, attratti dall’elevata remuneratività dei titoli messicani, il Messico negli anni successivi registra una crescita economica del 3,3%. La globalizzazione dell’economia ha permesso al capitalismo di poter facilmente trasferire la produzione nelle aree dove il costo della manodopera è più basso, determinando la fine del modello fordista e dell’aristocrazia operaia e nello stesso tempo accentuare la tendenza alla riduzione generalizzata del costo della forza-lavoro. Nello specifico, il trasferimento della produzione statunitense in Messico si è verificata soprattutto nelle zone franche industriali di frontiera (Maquiladoras) dove esistono delle fabbriche specializzate nell’assemblaggio di componenti prodotti altrove. In queste industrie di frontiera i salari dei lavoratori sono decisamente più bassi anche rispetto agli altri lavoratori messicani. La costituzione del Nafta ha determinato una forte crescita nel numero degli operai impiegati nelle Maquilas contribuendo ad abbassare ulteriormente il livello dei salari messicani. Il Messico per le sue particolari caratteristiche economiche, bassi salari e buona tradizione industriale, all’interno del Nafta si è trasformato nel fornitore di manodopera abbondante e sottopagata.

Nonostante il sostegno dei capitali esteri, l’economia messicana non è riuscita a diventare competitiva sui mercati internazionali, accumulando annualmente enormi deficit commerciali. Le importazioni manifatturiere, senza contare le Maquilas, sono cresciute ad un ritmo del 41,3%, mentre le esportazioni hanno fatto registrare una crescita del 22,2%. Il deficit commerciale manifatturiero accumulato dal 1988 al 1994 è stato di ben 121 miliardi di dollari, una cifra esorbitante per un’economia come quella messicana che dall’esportazione del petrolio ha incassato nello stesso periodo 44 miliardi di dollari.

La dinamica degli investimenti esteri è determinate per capire l’evoluzione del capitalismo nell’era della globalizzazione. Fino agli anni settanta gli investimenti esteri diretti (IED), ossia quelli che trovano un impiego nel mondo della produzione, costituivano la quota più importante dei capitali in arrivo in Messico, mentre gli investimenti esteri in titoli (IET), quelli impiegati nella pura speculazione finanziaria, costituivano un fatto quasi marginale. Nei sei anni di presidenza Salinas, i rapporti si modificano radicalmente. Gli investimenti esteri impiegati nel mondo della produzione raddoppiano, toccando i 5 miliardi di dollari, mentre i capitali utilizzati nella speculazione finanziaria passano da 1 a 28 miliardi di dollari. Per ogni dollaro investito nella produzione ben 5,5 sono stati investiti in attività parassitarie. Nella realtà messicana emerge in tutta la sua evidenza il fatto che la liberalizzazione e globalizzazione del capitale tra le altre cose ha accentuato quei fenomeni di parassitismo finanziario tipici di una società in piena decadenza.

Se un lato la politica degli alti tassi d’interesse ha favorito l’afflusso costante di capitali esteri, dall’altro ha determinato l’accumulo di un deficit dei conti corrente di dimensioni allarmanti. Dal 1988 al 1994 tale deficit è passato da 2,44 a 28 miliardi di dollari, crescendo undici volte in soli sette anni. Il meccanismo del finanziamento estero dell’economia permette al governo messicano di accumulare riserve monetarie per oltre 23 miliardi di dollari. Questa massa costituiva la garanzia della solvibilità messicana e una base sicura per mantenere la stabilità monetaria. Nei sei anni precedenti la crisi il tasso d’inflazione è decisamente contenuto e il rapporto del peso con il dollaro si mantiene stabile.

Questo intenso processo di liberalizzazione dell’economia messicana ha delle conseguenze sociali drammatiche. Il liberismo sfrenato del governo messicano ha favorito la concentrazione della ricchezza in poche mani, allargando le differenze economiche tra le varie classi sociali. Nel 1988 su cento pesos di ricchezza nazionale, il 20% dei messicani più ricchi ne intascava 48. Adesso tale quota è salita a 54. Agli inizi degli anni novanta un solo uomo, Carlos Slim, l'uomo delle privatizzazioni dei telefoni, ha guadagnato quanto 17 milioni di messicani poveri messi insieme. L’insieme dei salari costituiva nel 1980 il 36% del PIL, la concentrazione della ricchezza ha determinato che tale quota scendesse nel 1991 ad appena il 22%. L’attacco subito dal proletariato è stato devastante; il potere d’acquisto del salario minimo percepito dai lavoratori messicani nel 1993 bastava appena ad acquistare il 20,5% dei beni e dei servizi che si potevano comprare nei primi anni ottanta.

Nel gennaio del 1994 esplode la rivolta degli indios e dei contadini del Chiapas. Guidati dall’Ezln, l’esercito zapatista di liberazione nazionale, gli indios e i contadini si ribellano al potere centrale, facendo conoscere al mondo intero le condizioni di estrema povertà in cui sono costretti a vivere. Il Chiapas nonostante le notevoli risorse naturali, ricordiamo che fornisce il 70% del petrolio messicano, è la regione più arretrata dell’intero Messico. L’economia, prevalentemente agricola, è dominata dalla presenza dei latifondisti, Finqueros, che impongono ai contadini condizioni di lavoro subumane. La scintilla che ha dato origine allo scoppio della rivolta contadina è stata determinata dall’emanazione della nuova legge agraria. La nuova normativa abolendo l'articolo 27 della costituzione messicana, che garantiva la distribuzione delle terre "sociali" ai contadini, ha scatenato lo scoppio della rivolta zapatista. Raccogliendo il malcontento dei contadini e degli indios, che si sono visti privati dalla possibilità di coltivare le terre sociali, in quanto queste dovevano essere privatizzate, l'esercito zapatista si è posto alla guida della protesta armata.

La soppressione dell'articolo 27 della costituzione non è stato il frutto di un progetto politico del governo messicano che, sottovalutando il problema della terra ha esasperato le condizioni di disagio degli indios e dei contadini poveri, ma era un atto dovuto per rispettare le condizioni imposte dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale per ottenere la concessione di prestiti finanziari. I due istituti internazionali avevano chiesto al Messico la privatizzazione di questi territori per poter ottenere in cambio un prestito di diversi miliardi di dollari necessario a finanziare il pauroso debito estero accumulato negli anni di sfrenato liberismo.

Con lo scoppio della rivolta zapatista gli investitori stranieri cominciano a ritirare i propri capitali dal mercato finanziario messicano. Nel primo trimestre del 1994 gli investimenti esteri in titoli ammontavano a 7,68 miliardi dollari, mentre gli investimenti esteri diretti ammontavano a 2,05 miliardi di dollari; nell’arco di un trimestre gli I.E.D. subirono un calo del 25% e gli I.E.T. fecero registrare un calo dell’82% ammontando a soli 1,4 miliardi di dollari. Il repentino ritiro dei capitali esteri, accentuato dal rialzo dei tassi d’interesse da parte della Federal Reserve, ha causato il crollo delle riserve monetarie della banca centrale messicana. Nella seconda metà del 94 le alcune autorevoli istituzioni messicane lanciano l’allarme del pericolo di una crisi finanziaria di vaste proporzioni. Nell’ottobre del 94 le riserve internazionali erano diminuite di 7,34 miliardi di dollari, ma nonostante questo dato allarmante il governo del nuovo presidente Zedillo ha continuato nella difesa a spada tratta della moneta messicana. In dicembre la situazione precipita; la fuga degli investitori stranieri e il calo delle riserve valutarie determinano lo scoppio della crisi finanziaria. La moneta messicana in poche settimane perde il 58% del proprio valore rispetto al dollaro, mentre la borsa di Città del Messico accusa un crollo dei titoli azionari.

Il Messico dopo 12 anni si ritrova ad affrontare una nuova grave crisi finanziaria. La crisi del 1994 avviene in un contesto economico totalmente diverso rispetto a quello in cui si è verificata la crisi d’insolvibilità del decennio scorso. La stabilità dei cambi e monetaria che s’infranse con la crisi del 1982 era stata mantenuta con fonti di finanziamento interni basati su alcuni settori portanti dell’economia messicana come il petrolio, l’agricoltura, maquiladoras e turismo, e solo in misura ridotta con il finanziamento estero. La crisi dell’inverno scorso ha interrotto una stabilità monetaria sostenuta esclusivamente con i finanziamenti esteri sotto forma di I.E.T. e di I.E.D.. Finché tale afflusso è stato elevato il governo messicano ha potuto finanziare senza problemi sia il debito pubblico che il deficit dei conti correnti, garantendo nello stesso tempo, con le riserve valutarie accumulate, la stabilità monetaria e dei cambi. Le diversità dell’ultima crisi finanziaria rispetto a quella del 1982 s’accentuano se consideriamo le differenti ripercussioni avute dalle due crisi sull’intera economia mondiale. Mentre la precedente crisi rimane quasi un fatto isolato, non coinvolgendo che in minima parte gli investimenti esteri, la crisi finanziaria dello scorso inverno si ripercuote violentemente non solo sugli altri paesi dell’America Latina ma sull’intero sistema capitalistico. La globalizzazione del capitale unificando i mercati finanziari di tutto il pianeta, grazie anche alle moderne tecnologie informatiche, ha determinato che il crollo della borsa di Città del Messico coinvolgesse soprattutto i grandi fondi pensione statunitensi che negli anni passati avevano investito ingenti capitali nella borsa messicana. La mondializzazione ha prodotto le condizioni per realizzare l’effettiva unificazione del mercato mondiale, ma nello stesso tempo pone il capitalismo di fronte alla difficoltà di non poter isolare gli effetti di una crisi come quella messicana. In questo processo di globalizzazione la stessa capacità gestionale dei governi nazionali viene fortemente ridimensionata. (3)

In passato il governo dell’economia mondiale era in mano alle grandi banche centrali, ora gli strumenti finanziari a loro disposizione sono decisamente insufficienti per contrapporsi alla massa di capitale concentrato nelle mani dei grandi gruppi finanziari privati. Se alcuni investitori privati decidono di speculare su una determinata moneta, puntando sulla sua svalutazione, ben poco può fare la banca centrale per difendere il corso della propria moneta.

Gli Stati uniti per evitare che la crisi travolgesse l’intero sistema finanziario internazionale, coinvolgendo la Banca dei Regolamenti Internazionali e il Fondo Monetario Internazionale, ha soccorso l’economia messicana erogando il già citato mega prestito di 50 miliardi di dollari che è servito a rifinanziare tutti i titoli del debito pubblico che erano in scadenza nei primi mesi del 1995. Il rischio era quello di vedere il governo messicano incapace di rispettare gli impegni assunti con gli investitori esteri, dichiarando il proprio fallimento. Ma tale "aiuto" non è arrivato senza che il Messico offrisse in cambio una contropartita, infatti è stato necessario che il governo offrisse le dovute garanzie con le entrate derivanti dalla vendita del petrolio. Per attenuare gli effetti devastanti della propria crisi il capitalismo è obbligato ad ipotecare l’economia di un stato come il Messico.

Gli altri paesi dell’America Latina

I problemi economici che hanno portato alla crisi messicana non costituiscono un fatto isolato di quel paese ma con tempi e modalità diversi hanno interessato tutti gli altri paesi dell’America Latina. La politica di liberalizzazione dell’economia ha interessato tutti i paesi dell’America Latina. Dopo decenni di protezionismo, imposto dalle varie dittature, i paesi dell’area, Brasile, Argentina, Uruguay, Paraguay e Cile hanno aperto le loro frontiere ai capitali stranieri e al commercio internazionale. S’inserisce all’interno di questo processo la conclusione e la firma del trattato di Assuncion che nel 1991 ha dato vita al Mercosur, un mercato comune di ben 200 milioni di consumatori costituito da Brasile, Argentina, Paraguay ed Uruguay. La realizzazione di quest’area di libero scambio doveva rappresentare, negli intenti della borghesia latino-americana, un passo obbligato per fornire alle imprese un mercato di dimensioni continentali. Gli stessi Stati uniti hanno visto di buon occhio la costituzione del Mercosur in quanto tale mercato in un secondo momento poteva facilitare l’allargamento a sud del Nafta.

L’esplosione della crisi messicana, come dicevamo all’inizio di questo nostro lavoro, ha avuto delle conseguenze disastrose per l’intera economia latino-americana. Le piazze borsistiche di tutto il continente sono crollate, trascinate dall’onda lunga della crisi del peso e della borsa di Città del Messico.

L’Argentina è stato il paese che più degli altri ha pagato le conseguenze dell’effetto "tequila". Nel corso degli anni ottanta, l’Argentina, seguendo le indicazioni del FMI e degli Stati Uniti, inizia a praticare una politica-economica di stampo liberista, incentrata sulle privatizzazioni delle imprese pubbliche.

Per combattere l’iperinflazione che minava lo sviluppo economico del paese, nel 1992 il governo argentino ha deciso la convertibilità totale della moneta col cambio fisso di un peso un dollaro. Legarsi alla moneta statunitense è stata la scelta dell’Argentina per garantirsi la stabilità monetaria, indispensabile per reperire i capitali stranieri necessari a finanziare la ristrutturazione del proprio apparato produttivo e nello stesso tempo assicurarsi elevati tassi di sviluppo. Gli effetti di questa drastica decisione non si sono fatti attendere e nel giro di pochi anni il tasso d’inflazione è sceso dal duemila allo zero % nello scorso mese di marzo.

Le conseguenze della scelta argentina di stabilire una parità fissa con il dollaro alla lunga si sono dimostrate disastrose per l’economia del paese. L’afflusso di capitali stranieri, attratti dagli elevati tassi d’interesse dei titoli del debito pubblico, se da un lato ha garantito il finanziamento dell’economia argentina dall’altro ha determinato un indebitamento estero per oltre ottanta miliardi di dollari. Sui mercati internazionali, proprio per gli enormi debiti esteri accumulati da paesi come il Messico, l’Argentina, il Brasile ecc., lo scorso anno si trasferite massicce quote di capitali in paesi a minor rischio di insolvibilità.

La parità della moneta argentina con il dollaro è stata mantenuta grazie al continuo afflusso di capitali stranieri che nel 1993 raggiungevano i 17,6 miliardi di dollari. Come in Messico, anche in Argentina lo scorso anno l’afflusso di capitali esteri si è fortemente ridimensionato mettendo in grosse difficoltà la banca centrale argentina. Questa per fronteggiare l’emorragia di capitali ha dovuto innalzare più volte il tasso di sconto.

Il governo argentino per aver voluto mantenere a tutti i costi la parità con il dollaro ha determinato un repentino deflusso dei depositi bancari, calati di cinque miliardi di dollari in pochi mesi, e un vero e proprio crollo nelle riserve di valute estere, calate dell’11% nel solo marzo scorso. Il governo argentino per bloccare la fuga di capitali ed evitare la svalutazione del peso è riuscito ad ottenere dal Fondo Monetario Internazionale e da altri istituti finanziari internazionali un prestito di sette miliardi di dollari e la dilazione dei debiti in scadenza. Il Fondo Monetario Internazionale per concedere il prestito ha inoltre chiesto al governo argentino di attuare una manovra economica che per i lavoratori rappresenta una vera e propria mazzata. Il ministro dell’economia Cavallo, in ottemperanza alle richieste del Fondo Monetario Internazionale , ha varato una serie di provvedimenti con i quali si aumentano le tasse, i dazi doganali e si riducono drasticamente i salari dei lavoratori. Con questi provvedimenti la disoccupazione, che già supera il 20% della popolazione, è destinata ulteriormente a salire alimentando quel malessere sociale che pervade tutta la società argentina.

La forzata parità con il dollaro ha determinato inoltre un forte squilibrio nella bilancia commerciale. La supervalutazione del peso argentino ha prodotto nel 1994 la triplicazione del deficit commerciale, passato da tre a nove miliardi di dollari. L’elevato deficit commerciale sommato all’astronomico debito pubblico costituisce una miscela esplosiva che rischia di far esplodere l’intera economia argentina. Se per ridurre il buco nella bilancia commerciale sarebbe necessario una riduzione dei tassi d’interessi, d’altra parte una loro riduzione aumenterebbe la fuga dei capitali stranieri e la repentina svalutazione della moneta argentina.

Le conseguenze sociali della politica liberista sono state disastrose per il proletariato argentino. In un rapporto sullo stato della povertà in Argentina redatto dalla Banca Mondiale si evidenzia come i salari reali dei più poveri si siano dimezzati rispetto al decennio scorso, mentre i poveri rappresentano ormai il 37% della popolazione argentina.

Conclusioni

La crisi messicana come abbiamo visto ha messo in luce una realtà latino-americana in piena decadenza sociale. Dieci anni di liberismo hanno prodotto delle conseguenze drammatiche per le classi povere dell’America Latina. La rivolta degli Indios e dei contadini del Chiapas non costituisce un fatto isolato, altri episodi di rivolta hanno caratterizzato la vita politica latino-americana negli ultimi anni. Significative rivolte si sono verificate in Guatemala, Ecuador e Brasile. In quest’ultimo paese la rivolta dei contadini rischia di dilagare a macchia d’olio; la disoccupazione di massa che ha colpito città come San Paolo sta ricacciando verso il nord-est e il Mato Grosso migliaia di famiglie diseredate. Queste si sono coordinate nel "Movimento Sem Terra" e hanno cominciato ad occupare grandi Fazendas e latifondi. Accanto a queste rivolte contadine vanno segnalate le manifestazioni di protesta degli operai e lavoratori pubblici in Argentina. Nei mesi scorsi a Cordoba e nella regione della Patagonia i dipendenti pubblici sono scesa in piazza per protestare violentemente contro il dimezzamento degli stipendi e per il ritardo con il quale vengono pagati gli stessi. Sono episodi di lotta che testimoniano sufficientemente dello stato di crisi economica in cui versano i paesi dell’America Latina.

Nell’esperienza del Chiapas, così come negli altri episodi di lotta degli Indios e dei contadini, troviamo tutti i limiti politici di una lotta che è rimasta sempre sul terreno delle compatibilità del modo di produrre capitalistico. Le richieste dell’Ezln, l’esercito zapatista che si è posto alla guida della lotta armata dei contadini e degli Indios, non vanno oltre una sterile riforma elettorale, alla riforma agraria e a generici aiuti alle popolazioni meno abbienti. Confermando la sua tradizionale linea politica, da sempre legata alle istanze contadine, al movimento zapatista manca una prospettiva di superamento della società capitalistica. Per gli zapatisti è possibile soddisfare gli interessi dei contadini, degli indios e dei braccianti fermi restando i rapporti di produzione capitalistici, non capendo che è la stessa dinamica imperialistica a negare questa possibilità. È stato il grande capitale finanziario internazionale ad imporre la privatizzazione di quelle terre sociali che in precedenza garantivano la sopravvivenza a milioni di indios e contadini, dimostrando che il capitalismo in crisi può attenuare gli effetti dirompenti della sua crisi soltanto attaccando le condizioni di vita degli strati sociali più poveri.

La rivolta del Chiapas, per i toni in cui si è espressa, ha rilanciato anche nella nostra realtà politica il vecchio mito della guerriglia latino-americana. Ampi settori di proletariato giovanile rimangono affascinati da questi uomini incappucciati che intraprendono la lotta armata per realizzare la mitica "riforma agraria". Per questi strati del proletariato giovanile, anch’essi scaraventati in un’obiettiva condizione di precarietà sociale, la rivolta zapatista incarna il senso della ribellione. Purtroppo impugnare un mitra non significa automaticamente compiere un gesto rivoluzionario, anzi da sempre in America Latina esistono delle guerriglie che utilizzando una fraseologia pseudorivoluzionaria combattono per realizzare gli interessi della borghesia nazionale. Nell’era dell’imperialismo, combattere come fanno gli zapatisti per conquistare l’equa distribuzione della terra costituisce una piattaforma politica aberrante che non tiene conto della realtà dell’imperialismo. Ma l’aberrazione si trasforma in farsa politica quando le rivendicazioni zapatiste trovano il consenso in molti gruppi anche nelle aree più avanzate. L’insieme di questi movimenti che, spesso folcloristicamente, simpatizzano con gli zapatisti, non considerano che appoggiare quella piattaforma rivendicativa in una realtà come quella messicana totalmente integrata nel circuito dell’imperialismo, ha lo stesso significato di una lotta che propone la riforma agraria per eliminare il sottosviluppo e la disoccupazione in una regione come la Calabria. È evidente che sono altre le basi ideologiche che possono dare una risposta ai problemi che pone il capitalismo in America Latina come nel resto del mondo. Capire le dinamiche dell’imperialismo significa capire che sono definitivamente chiusi gli spazi politici per "battaglie" parziali; queste hanno la funzione di disperdere preziose energie utilizzabili nell’unica lotta che merita di essere combattuta, quella contro il sistema capitalistico. Lo stato di dissesto economico in cui versano i paesi dell’America Latina è il frutto delle contraddizioni capitalistiche. I milioni di contadini, di indios e più in generale di proletari che vivono nella miseria più nera in America Latina sono il prodotto dell’imperialismo.

Più democrazia, libertà e giustizia sono i valori borghesi che rivendicano gli zapatisti ed i suoi accoliti per dare all’America Latina un futuro migliore. Non di questo ha bisogno il proletariato latino-americano ed internazionale, ma del rilancio della lotta di classe e della ricostruzione dello suo indispensabile strumento politico, il partito di classe, per farla finita con la società capitalistica che nella sua fase di decadenza può offrire solo guerre, fame e miseria.

Procopio Lorenzo

(1) I dati citati in questo capitolo sono stati tratti dal libro di Nearing-Freeman, Diplomazia del dollaro, ed. Dedalo.

(2) I dati citati in questo capitolo sono tratti dal libro di Carmagnati-Casetta, America Latina: la grande trasformazione, ed. Einaudi.

(3) Vedere in proposito l'articolo che tratta le conseguenze della globalizzazione sul ruolo economico dello stato, che appare su questo numero della rivista.

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