Il capitale verso la guerra. E la classe?

Editoriale

Questo numero è sostanzialmente monografico: gli articoli si occupano tutti dei diversi aspetti della situazione mondiale del capitalismo. Per ragioni di spazio non trattiamo qui in particolare - se non in accenni nei diversi articoli - i riflessi della condizione oggettiva sul terreno sovrastrutturale, della diplomazia, della politica e del rapporto politico fra le classi.

È ciò di cui ci occuperemo sul prossimo numero di Prometeo e che qui possiamo solo anticipare per accapi.

Per quanto riguarda gli aspetti dei rapporti politico diplomatici fra gli stati va rilevato il dato che traspare dalle trattazioni su globalizzazione e rapporti fra le monete e che così possiamo formulare. Le multinazionali produttive e/o finanziarie superano per potenza e per interessi economici in gioco le varie formazioni statali che attraversano.

Il fatto che le banche centrali dei diversi stati non siano in grado di reggere e contrastare le ondate speculative che un pugno di mostruosi gruppi finanziari scatenano giornalmente, dice molto del mutato rapporto fra gli stati stessi.

L’IBM è tanto americana quanto europea - lascia perdere l’origine - così come la Shell è tanto olandese quanto americana; i borghesi giapponesi rifiutano di parlare inglese, per tanto detestano gli anglo-americani, ma il 40 per cento del loro mercato è rappresentato dagli Stati Uniti d’America; e questi, se hanno gravemente colpito l’industria giapponese nel secondo conflitto mondiale, dipendono oggi dalla tecnologia e dall’industria giapponese anche per i sistemi di puntamento dei famosi missili Patriot.

Fra i motivi che hanno fatto sì che la fase di crisi (attualizzazione della tendenza alla caduta del saggio di profitto) si trascini ormai da un quarto di secolo senza la soluzione classica della guerra c’è anche questo: chi fa la guerra a chi?

La guerra è una forma e la continuazione della politica estera, quando viene affidata allo scontro militare la soluzione di conflitti di interessi; quando il conflitto di interessi giunge alla necessità per uno stato di annichilire la potenza economica dell’altro (portargli via mercati e farne a sua volta un proprio mercato). In queste condizioni - giova sottolinearlo - maturano le ragioni, poi tutte ideologiche e politiche, della mobilitazione bellicista.

Sarebbe stupido, prima ancora che meccanicista, pensare alla guerra come decisione pianificata della borghesia per riaprire il ciclo di accumulazione del capitale globale, distruggendo mezzi di produzione e forza lavoro. Una cosa è il modo di produzione che determina le formazioni sociali, altra cosa, quantunque determinata, sono le formazioni sociali stesse. Una cosa allora sono i problemi e le contraddizioni del modo di produzione, altra cosa è il riflesso che questi problemi e contraddizioni assumono nella ideologia e nella politica degli uomini.

Perché maturino le ragioni della guerra, occorre che gli interessi dei soggetti che la possono scatenare (gli stati) siano di portata maggiore degli interessi economici dominanti, ovvero che “la fanno da padroni” nei singoli stati e nel loro insieme.

Quando si verifica (v. I capitali contro il capitale) che i centri economici e finanziari multinazionali che scorrazzano a scala globale sono in condizione di abbassare o elevare la ragione di scambio di una moneta nazionale, foss’anche del paese in cui essi hanno il quartier generale, se ne deve conclude che lo stesso potere statuale nazionale è oggi limitato.

Di qui discende non la fine delle ragioni contingenti della guerra, ma una loro diversa, più tortuosa maturazione.

Parliamo della guerra mondiale, naturalmente, dello scontro titanico e disastroso delle grandi potenze. In fondo è questo che non c’è ancora stato, giacché di guerre in genere il capitale globale ne ha conosciute e conosce molte: da quella Iran/Iraq a quelle Jugoslava Sudamericane e a quelle africane. È ani sotto gli occhi di tutti il loro moltiplicarsi e la loro minaccia di estendersi.

Qui abbiamo con regolarità lo scontro di borghesie nazionali o fazioni di borghesia nazionali in lotta per interessi, grandi per loro, ma pressoché irrilevanti a scala mondiale. Che peso potrà mai avere l’affondamento della Federazione Iugoslava e del suo bilancio complessivo - sul quale hanno iniziato a litigare Slovenia e Croazia col potere centrale di Belgrado - quando tale bilancio è una frazione minima di quello, metti, della stessa Italia? Più o meno lo stesso peso che avevano i fatti successivi all’attentato di Sarajevo del 1914, con però una differenza sostanziale.

Mentre nel ‘14 lo scontro dei grandi interessi era già in atto e attendeva solo l’occasione per scatenarsi sul terreno della guerra fra stati, oggi i grandi interessi stranieri che si celano dietro l’alimentazione criminale del conflitto nella ex Iugoslavia sono espressi da potenze straniere mutevoli strette fra loro da alleanze ancor più mutevoli e fragili.

In questi conflitti, ciascuna potenza imperialista che si mette in gioco (e oggi sono quasi tutte in gioco dappertutto) impiega a suo favore la dottrina americana dei “conflitti a bassa intensità”, caratterizzata dall’obiettivo di contenere il conflitto a scala locale, pur difendendo i propri interessi lì considerati strategici.

La moltiplicazione dei conflitti dice della fase ultimale del ciclo di accumulazione e della necessità di chiuderlo; il loro ostinato contenimento a scala locale dice della difficoltà di delineare i fronti degli schieramenti mondiali.

Il punto è qui: finita la contrapposizioni fra i blocchi dell’Est e dell’Ovest per implosione di quello dell’Est, non si sono ancora delineati con chiarezza neppure i fondamenti della nuova contrapposizione strategica. Gli interessi strategici dei grandi, veri centri di potere economico non si sono ancora espressi in contrapposizioni strategiche fra stati, perché si muovo trasversalmente a questi.

Gli stati esercitano allora il loro gioco strategico, diplomatico e militare nelle frizioni su questioni grandi si, ma pur sempre inferiori e ininfluenti rispetto alle enormità del debito pubblico americano o italiano.

Se d’altra parte, le frizioni fra le potenze imperialistiche, e non mancano, dovessero tradursi nel contrapporsi di alleanze stabili di tipo economico e politico, la stessa crisi accelererebbe in modo drammatico, essendo finora stata bene o male amministrata proprio grazie alla trasversalità o trans-nazionalità dei grandi capitali che contano. E questo i grandi borghesi lo sanno.

Il grande scontro lo avremo e subito, se lo avremo, se, per esempio, Giappone e Germania decidessero di allearsi sul serio (con adeguate politiche interne e conseguenti linee di condotta dei propri capitalisti) contro il dollaro. Fino all’eventuale costituirsi di tali blocchi, le guerricciole si moltiplicheranno ai margini delle metropoli nella misura in cui la drammaticità della crisi scatenerà gli appetiti di questa o quella “borghesia nazionale”, di questa o quella fazione di borghesia contro l’altra, mettendo in gioco e in forse gli interessi delle grandi potenze. Vedremo allora con certezza moltiplicarsi i balletti osceni di queste stesse grandi potenze sui tavoli dell’Onu, della Nato, dei Gruppi di contatto e i criminali interventi in “missioni di pace” delle truppe di rapido impiego di questo e/o di quel grande stato.

Che lo sbocco sia la guerra mondiale, piuttosto che il proliferare in ogni angolo del pianeta di guerre cosiddette locali, il problema rimane in forme ammodernate quello di sempre. Questo ciclo di accumulazione al suo esaurirsi ripropone la drammatica alternativa: guerra imperialista o rivoluzione proletaria.

E siamo al proletariato, soggetto necessario e insostituibile della soluzione rivoluzionaria.

La risposta capitalista alla crisi è costata al proletariato decine di milioni di posti di lavoro persi, una svalutazione di fatto della forza lavoro con drastico abbassamento del suo prezzo, una drammatica mutazione della sua composizione globale. Tutto questo è stato subito senza alcuna risposta neppur lontanamente adeguata, principalmente in ragione del drammatico disarmo impostole dallo stalinismo prima e dal riformismo poi, quali agenti ideologico-politici della sconfitta storica subita dopo l’Ottobre russo. Ora siamo alle nuove forme del lavoro salariato delle metropoli (vedi La disoccupazione fra decadenza del capitalismo e illusioni del riformismo) e all’emarginazione di strati sempre più consistenti, mentre nella periferia ingigantiscono le masse marginalizzate in parallelo con un crescere del numero (ma anche della miseria) dei lavoratori salariati.

Siamo dunque ai primi inizi di un processo di ricomposizione, materiale prima ancora che soggettiva, della classe, ma nella fase avanzatissima della dominazione del capitale sulla collettività. Non è facile ricostruire l’identità di classe prima disarmata e poi addirittura negata dalle forze riformiste che finora l’avevano amministrata. Non è facile, in altri termini, riportare alla identità di classe le masse proletarie sul terreno delle contrapposizioni fra Bossi, Berlusconi, D’Alema e Bertinotti.

Ma è il percorso obbligato per evitare la barbarie, pena la barbarie stessa.

Su questo percorso si colloca l’intervento e l’attività militante (non politica, militante) degli internazionalisti.

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.