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I fenomeni della crisi
Gli anni novanta si sono aperti in Italia e nel resto del mondo all'insegna di una crisi economica progressiva e devastante, dagli stessi esperti borghesi definita come la più grave dalla fine del secondo conflitto mondiale.
Ovunque gli indici del Pil (Prodotto interno lordo), venerati come sacri idoli, sono vicini allo zero mentre il sistema capitalista ammette di reggere soltanto con aumenti annui fra il 3 e il 4%. Nelle grandi, medie e piccole aziende, nel pubblico e nel privato, calano produzioni, fatturati e investimenti. E crolla letteralmente l'occupazione, con travolgenti ondate di centinaia di migliaia di esuberi. Le cifre, le percentuali e le previsioni sono sotto gli occhi di tutti nonostante gli inevitabili tentativi di manipolazione. Ed evidenziano uno degli aspetti più drammatici della fase attuale: il carattere di irreversibilità del fenomeno disoccupazione e il suo progressivo dilatarsi nel tempo e nello spazio.
La cosiddetta disoccupazione fisiologica, la quale entro un tasso del 2-3% era fino a pochi anni fa considerata utile dagli economisti borghesi anche nelle fasi di una congiuntura favorevole, ha assunto oggi forme concrete e quantità patologiche. Tant'è che una parte degli stessi apologeti del capitale si vede costretta ad ammettere: la diminuzione della forza-lavoro produttiva manifatturiera è inarrestabile.
Analoga la situazione nei servizi, cioè in quel terziario fino a ieri sbandierato come la soluzione dei malanni dell'economia capitalistica. Nell'agricoltura, invece, l'esodo di forza-lavoro è stato sempre considerato come l'indice positivo di uno sviluppo industriale irrefrenabile, fonte di progresso, ricchezza e benessere sociale. Ma l'unico vero risultato sociale è stato quello di una occupazione agricola che ha raggiunto il suo minimo storico di un milione 500 mila unità, pari al 7,2% del totale della forza lavoro occupata in Italia. Nel 1985 i lavoratori agricoli erano 2 milioni 300 mila unità, e ancora nel 1989 quasi 2 milioni. I dati complessivi registrati nell'area Cee segnalano il passaggio da 16 milioni 133 mila lavoratori agricoli dipendenti e autonomi nel 1970, a 11 milioni 900 mila nel 1980 e, infine, 8 milioni 350 mila nel '91. Questi risultati sono conseguenti all'ampia diffusione di imprese ad alta densità di capitali e bassa incidenza di manodopera. In Italia, ad esempio, le sole aziende agro-meccaniche lavorano (aratura, semina, sarchiatura, disinfestazione, concimazione e trebbiatura) oltre 10 milioni di ettari di terreno con soli 80 mila addetti.
Una relazione perversa si è di fatto stabilita in tutti i settori della economia fra produzione di merci e lavoro vivo. Se cala la produzione scende l'occupazione; ma anche se la produzione riprende, la disoccupazione non viene riassorbita. Anzi: la produzione può riprendere soltanto a condizione che vengano aumentati i ritmi e i carichi di lavoro su di un numero inferiore di operai. È questo il risultato delle ristrutturazioni tecnologiche, della razionalizzazione delle linee produttive, della riconversione-chiusura delle fabbriche non competitive, private e statali. La breve ripresa degli anni ottanta non è più che un vago ricordo per gli stessi esaltatori delle virtù e delle glorie del capitalismo. I vantaggi goduti dal capitale con la politica dei sacrifici e della solidarietà nazionale sono stati inghiottiti nel vortice della globalizzazione di un mercato internazionale in crisi, percorso da tempeste monetarie e guerre commerciali. Il tumore maligno del capitalismo esplode in superficie travolgendo i meccanismi di gestione del sistema in ogni suo specifico settore. Sotto il peso soffocante di un debito pubblico astronomico, che ha alimentato le imprese legali e illegali del capitale e della borghesia industriale e finanziaria, anche l'accumulazione statale dei mezzi di produzione (spacciata per il socialismo reale italiano) si ridimensiona nel tentativo di una massima centralizzazione delle manovre finanziarie e delle direttive legislative a sostegno di una realizzazione drogata del profitto.
Mentre gli ultimi intellettuali disorganici della sinistra borghese annaspano fra i presunti nodi strutturali di debolezza della economia italiana, oltre che di arretratezza nella innovazione tecnologica, i più classici e prestigiosi economisti alla Sylos Labini invocano invano "sistematiche analisi teoriche ed empiriche". Dimenticandosi che la classe dominante borghese e i suoi professori non possono che respingere a priori ogni analisi che metta in luce i limiti storici del modo di produzione capitalistico.
Nessun economista borghese potrà mai inquadrare teoricamente in modo esatto la crisi in cui si dibatte il capitalismo. I suoi metodi di analisi devono per forza di cose adattarsi alle giustificazioni ideologiche e politiche costruite a sostegno e difesa dell'interesse di classe. E l'unico metodo per comprendere lucidamente quanto sta accadendo nello scenario della economia nazionale e internazionale, e le prospettive che ci si pongono davanti, rimane tuttora quello marxista basato sulla critica della economia politica. Cercheremo di puntualizzare ancora una volta i risultati di una analisi che, convalidata dai fatti, ha consentito al socialismo scientifico di elaborare l'unico programma risolutivo di tutte le miserie, sofferenze e oppressioni che affliggono la classe operaia e la umanità intera.
Aumenta la potenza del capitale e cresce la disoccupazione
La disoccupazione è diventata il prodotto più diffuso della economia capitalista; un vero e proprio flagello che sta sconvolgendo la società del benessere borghese, trasformando i progetti del "pieno impiego" in una tragica beffa. Il fenomeno è mondiale, come unico e internazionale è oggi il capitalismo; è un problema irrisolvibile nelle condizioni strutturali del capitalismo, così come si dimostra insuperabile l'opposizione tra il cumulo di ricchezza e di privilegi della classe borghese - da un lato - e la massa di miseria e sofferenze del proletariato e sottoproletariato mondiale - dall'altro lato.
Nella attuale e progressiva crisi del ciclo di accumulazione del capitale, la esistenza di un esercito industriale di riserva, di un serbatoio di forza-lavoro, ha cessato di essere uno dei presupposti iniziali del sistema capitalista e del suo sviluppo. Contrariamente a quanto accadeva nell'età giovanile del capitale, la massa crescente dei disoccupati non risponde più alla necessità di coprire imprevedibili bisogni di forza-lavoro durante nuovi periodi di espansione della scala della produzione. Anche in presenza di momentanei aumenti in percentuale degli indici di produzione, il rapporto fra questi e il numero degli operai occupati tende a farsi inversamente proporzionale. La produzione capitalistica - giusto Marx - produce sempre una sovrappopolazione relativa di operai in confronto alla accumulazione di capitali. Ciò contribuisce a mantenere il livello dei salari (visto che la domanda di lavoro dei proletari supera l'offerta fatta dai capitalisti) nei limiti più favorevoli allo sfruttamento capitalistico. Questa situazione garantisce la dipendenza sociale del lavoratore salariato dal capitalista. Vale a dire che tutti i lavoratori, la popolazione operaia complessiva, sono legati al processo produttivo capitalistico in un rapporto assoluto di asservimento, al di là cioè del "colpo di fortuna" di trovarsi registrati tra le file degli occupati o disgraziatamente fra quelle dei disoccupati. L'operaio è incatenato al capitale; la sua condizione non può che peggiorare, come sta avvenendo.
La accumulazione di ricchezze e di capitali determina una accumulazione proporzionale di miseria nel proletariato: "tormento di lavoro, schiavitù, ignoranza, brutalizzazione e degradazione morale" (Marx).
Il progresso tecnologico (in certi casi addirittura frenato dallo stesso capitale!) e l'aumento costante della produttività del lavoro fanno si che una massa maggiore di mezzi di produzione venga messa in moto da un numero minore di operai. La accumulazione capitalista non avviene attraverso semplici ampliamenti quantitativi, ma "con un continuo cambiamento quantitativo della sua composizione organica" (Marx). Aumenta cioè enormemente la parte di capitale costante (macchinari, impianti, ecc.) nei confronti della parte di capitale variabile (salari); il lavoro morto si pone così in aperta contrapposizione al lavoro vivo.
Qualunque progetto di un ampliamento, o di scelte alternative, della base produttiva deve fare i conti con un modello strutturale di produzione e di conseguente distribuzione sempre più complesso, dominato dai settori cosiddetti hi-tech o comunque ad intensa applicazione tecnologica. Senza innovazione, ogni attività produttiva viene oggi emarginata dai mercati internazionali, e mette in pericolo la competitività e quindi la sopravvivenza dell'intero sistema economico. La stessa ipotesi di sviluppo della ricerca di base, scientifica, applicata all'industria, se determina gli effetti sinergici che sono propri del rapporto tecnologia-scienza, non ha ne si pone problemi di occupazione tali da invertire l'attuale trend negativo, ma ne accelera addirittura il corso.
L'accumulazione capitalistica costantemente aumenta di volume ed energia; e proprio in diretta conseguenza di questo suo movimento produce una popolazione operaia superflua, cioè in eccedenza rispetto a quelli che sono i bisogni di valorizzazione (il profitto) del capitale. La crescente espulsione di proletari dai luoghi e dal mercato del lavoro diventa un fenomeno concreto di espropriazione e di estraniazione, questa volta all'interno dei processi di produzione. Milioni di uomini , donne e giovani, potenzialmente produttivi ma inutilizzabili ai tini della produzione di plusvalore e della sua circolazione, sono condannati alla inattività forzata; nel migliore dei casi: cassa integrazione, mobilità, prepensionamenti, oppure qualche lavoro precario e saltuario.
L'esplosiva contraddizione è dunque presente nel movimento stesso che dà vita e continuità alla economia capitalista. L'accumulazione del capitale, che è la ragione di esistenza del sistema, procede di pari passo con un bisogno proporzionalmente inferiore di forza-lavoro, di operai impiegati nel processo produttivo vero e proprio.
Più cresce la produzione industriale e più cresce la disoccupazione, fissa e fluttuante. Più aumenta la forza d'espansione del capitale in tutto il mondo, e più cresce l'esercito dei disoccupati. Questa è la legge generale assoluta della accumulazione capitalista.
Quanto maggiori sono la ricchezza sociale, il capitale in funzione, il volume e l'energia del suo aumento, quindi anche la grandezza assoluta del proletariato e la forza produttiva del suo lavoro, tanto maggiore è l'esercito industriale di riserva.
Marx
Gli effetti della ricerca sfrenata di valorizzazione del capitale - vale a dire la presenza di masse proletarie improduttive, senza lavoro e senza salario - diventano un ostacolo ad ogni ulteriore valorizzazione, e paradossalmente (ma non tanto!) una soluzione per il capitale sarebbe quella di una distruzione dell'attuale e inutilizzabile surplus di mano d'opera...
Nuove forze produttive e vecchi rapporti di produzione
Quella che costituisce invece la semplice soluzione del problema disoccupazione (cioè una diminuzione radicale e generale del tormento del lavoro e una sua ripartizione fra tutti gli uomini e le donne in grado di svolgere una attività produttiva e sociale) è impossibile finché dura il capitalismo con i suoi vincoli e le sue leggi economiche. Infatti, dove dominano i rapporti di produzione capitalistici, sono i mezzi di lavoro che impiegano l'operaio invece di essere l'operaio, la comunità umana, ad impiegare i mezzi di lavoro per soddisfare i propri bisogni. Volgendo quindi a proprio ed esclusivo beneficio il gigantesco potenziale raggiunto dalle forze produttive della società. Ma oggi noi siamo costretti a subire il dominio totale del capitale morto, fisso; l'apporto di plusvalore o plusprodotto lo rafforza e lo estende, sottraendo al proletariato parti sempre maggiori di beni e mezzi destinabili al consumo inteso come soddisfacimento dei bisogni della specie umana.
Nella società capitalistica gli operai si trovano di fronte il prodotto del loro lavoro come capitale come merce, come valore di scambio. Per questo le loro condizioni di esistenza diventano ogni giorno più precarie: essi sono costretti alla vendita della propria forza-lavoro per l'aumento della ricchezza altrui, ossia per la valorizzazione del capitale. La loro forza-lavoro è considerata come una merce; si tratta però di una merce dotata di una particolare proprietà d'uso: produce molto più di quanto riceve in cambio sotto forma di salario. E questo plusvalore, questo plusprodotto da essa ricavabile finisce nelle mani e nelle tasche degli industriali, dei proprietari e dei finanzieri che gestiscono e amministrano il capitale, sotto forma di profitti, rendite e interessi.
In questa realtà il pieno impiego è una favola inventata dai sostenitori e dai servi del capitalismo. La disoccupazione non è l'effetto di un sottosviluppo industriale, di una arretratezza economica, ma è la conseguenza dello sviluppo moderno del capitalismo. Le macchine e le tecnologie sono i mezzi straordinari che gli uomini hanno a disposizione per diminuire il tempo di lavoro in media socialmente necessario per la produzione di ogni oggetto e bene di consumo. Nel sistema capitalistico, con i suoi specifici rapporti di produzione e distribuzione, il progresso tecnico e scientifico diventa invece il mezzo per trasformare la vita degli operai in tempo di lavoro a disposizione per la valorizzazione del capitale. E quando il capitale non riesce più a ottenere, attraverso lo sfruttamento della forza-lavoro, un sufficiente profitto, e la concorrenza industriale si inasprisce, ecco allora che:
il sopralavoro degli uni diventa il presupposto della disoccupazione degli altri.
Engels
I più potenti mezzi di produzione, impianti e tecnologie, servono esclusivamente per soddisfare le esigenze del profitto: se questo diminuisce o viene a mancare, il meccanismo economico entra in crisi e tutti gli ingranaggi si bloccano. In ogni caso, la quantità di capitale impiegato nel processo di produzione sotto forma di salari, deve diminuire in rapporto alla maggiore quantità di capitale investito nel ciclo produttivo e al volume delle merci prodotte.
Nelle battaglie commerciali tra i singoli industriali, tra i gruppi monopolistici nazionali e internazionali, e tra gli opposti Stati, la classe operaia è chiamata al sacrificio economico e sociale, in prospettiva di quello fisico e finale, a suon di cannonate e missili per stabilire le ragioni del più forte e dettar legge sul mercato. Fino a quando, cioè, una nuova ripartizione dei mercati e delle zone di influenza commerciale e politica seguirà alla distruzione del surplus di merci e di mezzi di produzione, avviando un'altra ricostruzione post-bellica e rilanciando un altro ciclo di accumulazione capitalista. Soltanto questa può essere - come già è accaduto con la prima e la seconda guerra mondiale - la soluzione borghese della crisi.
Dopo i periodi di uno slancio quasi travolgente, successivi alle colossali distruzioni provocate dai conflitti imperialistici, la produzione capitalistica ha attraversato fasi di rallentamento, fino ad un vero e proprio arresto. Siamo all'assurda affermazione che si produce troppo, ovvero che non si garantisce più una certa percentuale di profitto, tale da giustificare la... produzione! Non ci è consentito di soddisfare i nostri bisogni. dunque, perché le condizioni di produzione e di distribuzione che caratterizzano la società capitalista innalzano una barriera tra i prodotti del lavoro umano e il loro consumo e godimento.
A periodi di relativa prosperità economica e commerciale, seguono periodi di sovrapproduzione e di congestione dei mercati, e quindi di ristagno, recessione e crisi generale. L'insicurezza e l'instabilità si diffondono nella società, le condizioni delle classi lavoratrici si fanno precarie. Gli industriali si contendono spazi sul mercato con l'impiego di nuove tecnologie e diversi metodi di lavorazione, tendenti a ridurre l'impiego di mano d'opera e i costi salariali per vincere la concorrenza. L'unico risultato è un ulteriore aggravamento della condizione operaia che vede falciato il proprio potere d'acquisto; aumenta la disoccupazione e si espandono le aree di una vera e propria ia miseria.
Scompare il lavoro produttivo di valore?
Il capitale è di per sé la contraddizione in processo, per il fatto che spinge a ridurre il tempo di lavoro ad un minimo, mentre contemporaneamente pone il tempo di lavoro come unica misura e fonte della ricchezza. Esso diminuisce, dunque, il tempo di lavoro nella forma di quello necessario ma lo accresce nella forma di quello superfluo; pone perciò il lavoro superfluo in misura crescente come condizione per quello necessario.
Grundrisse
Il capitale - forma generale della ricchezza - è denaro autoproducentesi; una esasperata autovalorizzazione di se stesso. In caso contrario, "esso stesso sarebbe degradato da valore di scambio a valore d'uso".
Il capitale crea un determinato plusvalore; non ne può porre uno infinito, ma il suo movimento è teso a crearne sempre di più. a oltrepassare costantemente ogni limite. Ebbene, più aumenta la produttività (la riduzione del tempo necessario) e più difficile diventa la valorizzazione del capitale attraverso l'aumento del plusvalore relativo, cioè lo sfruttamento esasperato della forza-lavoro. Nei prodotti si ritrova sempre meno lavoro vivo; la diminuzione del tempo di lavoro necessario comporta infatti una diminuzione della massa degli operai attivi.
Con la riduzione progressiva del lavoro realmente produttivo, il processo di valorizzazione del capitale all'interno della produzione concreta di valori d'uso e di scambio (cioè di merci) viene rallentato e ostacolato. Grandi masse di capitale fisso vengono impiegate in una produzione di merci dove il lavoro vivo è presente in misura sempre più ridotta, fino a dare l'impressione di non creare incrementi di valore.
Gli economisti borghesi individuano quindi nella utilizzazione e nel consumo del lavoro entro il processo produttivo, un semplice riporto del suo costo sul prezzo delle merci. Si limitano poi ad evidenziare come in tale prezzo di produzione o di vendita aumenti maggiormente "la remunerazione di altri più pregiati fattori produttivi, quali il costo del denaro impiegato, della pubblicità", eccetera (così G. Tramonti sul Corriere della Sera).
Abbiamo ampiamente trattato e demistificato la tesi borghese sulla vittoria storica del capitalismo e del postindustriale quale base della scomparsa del lavoro produttivo di valore (vedi in particolare Prometeo n. 8, 1984: "Capitale senza Lavoro").
In breve: le macchine, i robot, le materie prime e ogni altro "più pregiato fattore produttivo" non generano plusvalore, ma si limitano a trasferire il proprio valore alle merci prodotte. Essendo tali mezzi a loro volta un prodotto del lavoro umano, consumano il proprio valore d'uso durante il periodo della produzione e trapassano il proprio valore di scambio nelle merci che vengono prodotte. Il lavoro vivo rimane l'unico creatore di plusvalore; se il suo impiego diminuisce rispetto all'aumento di tutti gli altri fattori, si riduce anche la possibilità di mantenere stabile l'estorsione di profitto nel suo rapporto percentuale con il capitale fisso investito.
Inoltre, le alte tecnologie, l'automazione, le ristrutturazioni, e quindi la maggiore produttività, hanno fatto scendere, sì, la curva dei costi, ma hanno espulso forza-lavoro dalle industrie e quindi contratto la domanda stessa di merci. La massimizzazione dei profitti e delle rendite monopolistiche compensative è d'altra parte possibile solo attraverso la vendita di quantità di merci sempre maggiori; la sottoutilizzazione delle capacità produttive degli impianti industriali irrigidisce invece la curva generale dei costi. Il capitale è quindi costretto ad aumentare gli sforzi per l'appropriazione di ulteriori quote di plusvalore: diminuisce l'impiego di lavoro vivo, ma aumenta lo sfruttamento della forza-lavoro ancora necessaria, e il rastrellamento e la rapina delle ricchezze su scala internazionale.
Capitale e lavoro salariato sono legati dialetticamente fra loro: perché sopravviva uno è necessario che viva anche l'altro e viceversa. Non sono termini opposti che possono scindersi indipendentemente l'uno dall'altro,ma contraddittori nel senso che non può esserci accumulazione capitalistica senza sfruttamento del lavoro vivo e la soppressione dell'uno implica quella dell'altro. Il fatto che l'appropriazione parassitaria, tipica del capitalismo monopolistico, consenta ai paesi più avanzati di ridurre fino ad annullare l'impiego di forza-lavoro nei processi produttivi delle cittadelle industrializzate, non significa che tale annullamento possa generalizzarsi, ma, al contrario, che ad esso deve corrispondere un incremento della produzione di plusvalore e dello sfruttamento su scala planetaria.
Da Prometeo citato
Quella che oggi si sta manifestando chiaramente è la contraddizione tra l'aumento continuo della produttività del lavoro (aumento che tende quindi a negare il valore) e l'imperante legge del valore di scambio, della valorizzazione, che caratterizza il capitale.
Nel lavoro salariato, il capitale ricerca unicamente un valore di scambio. e non certo il godimento immediato o la creazione di puri valori d'uso. Ed è proprio il valore di scambio che porta alla limitazione del valore d'uso. Lo scopo del capitale è la produzione e la realizzazione di plusvalore, ed è soltanto sfruttando il proletariato che il capitalismo può esistere e svilupparsi.
Il capitale produce essenzialmente capitale, e fa ciò in quanto produce soltanto plusvalore. [... E] aggiungendo un nuovo valore all'antico, il lavoro conserva ed eternizza il capitale.
Marx
La generalizzazione del lavoro salariato; la sottomissione degli uomini al lavoro astratto, necessario al capitale; la proletarizzazione della immensa maggioranza dell'umanità, vale a dire la formazione e condizione di masse senza alcuna riserva e indipendenza: tutto questo è un fatto storicamente compiuto. Il trionfo del lavoro salariato (il lavoro produttivo di plusvalore) corrisponde al trionfo del capitalismo, al suo dominio reale e totale,alla sua compiuta universalizzazione.
Le esigenze del modo di produzione capitalistico pienamente sviluppato sono riconosciute come leggi naturali ovvie...
dalla stessa classe operaia (per educazione, tradizione, abitudine, eccetera).
L'organizzazione del processo di produzione capitalistico pienamente sviluppato spezza ogni resistenza; la costante produzione di una sovrappopolazione mantiene la legge della domanda e dell'offerta di lavoro, e quindi il salario lavorativo, entro un binario che corrisponde ai bisogni di valorizzazione del capitale: la silenziosa coazione dei rapporti economici appone il suggello al dominio del capitalista sull'operaio.
Il Capitale, Libro I
È il profitto che regola produzione e consumo
La crisi attuale, iniziatasi negli anni settanta, è la crisi del ciclo di accumulazione del capitale, comprendente le fasi storiche di avvio, sviluppo e decadenza del processo complessivo di valorizzazione del capitale a scala internazionale (processi di produzione e di circolazione, rispettivamente per la formazione e la realizzazione del plusvalore).
Il capitalismo e la classe borghese si agitano in un vero e proprio letto di spine, alle prese con una sovrapproduzione generale e cronica, che ha da tempo mandato in evidente fallimento la tanto vantata libertà di concorrenza (concentrazioni industriali, monopoli, misure protezionistiche, ecc.).
Ciò che la produzione fornisce in termini di mesi, il mercato può appena assorbire in termini di anni.
Engels
E non potrebbe essere altrimenti: il capitale regola la massa dei prodotti con dei metodi che agiscono sulla scala della produzione (e non inversamente), per soddisfare la formazione del profitto. Questo...
crea necessariamente un continuo conflitto fra le dimensioni limitate del consumo su basi capitalistiche e una produzione che tende continuamente a superare questo limite che le è assegnato.
Marx
Il capitalismo produce troppi mezzi di lavoro e di sussistenza perché possano essere impiegati come mezzi di sfruttamento degli operai a un determinato saggio di profitto. Produce troppe merci,
perché il valore e il plusvalore che esse contengono possano essere realizzati e riconvertiti in un nuovo capitale.
Marx
Il consumo deve essere consumo produttivo (acquisto di merci per la produzione di merci: mediante le merci consumate, cioè vendute, deve essere creato plusvalore). Si tratta cioè di una sostituzione di merce con merce, condizionata da produzione di plusvalore, e non un semplice scambio di prodotti mediato dal denaro.
Nella società capitalista il consumo segue la produzione. Questa risulta divisa in due settori principali: produzione dei mezzi di produzione, e produzione dei mezzi di consumo. In entrambi i settori si riflette la divisione in due classi - borghesi e proletari - della società. Il plusvalore si trova incorporato sia nei mezzi di produzione che in quelli di consumo, poiché gli uni e gli altri sono il risultato dell'impiego e sfruttamento della forza-lavoro. I mezzi di produzione, nella loro forma di capitale costante (macchinari e materie prime) dominano sui mezzi di consumo; affinché si possa produrre una maggiore quantità di prodotti occorrono sempre più mezzi di produzione. La produzione per la produzione: è questa la riproduzione allargata, l'incessante accumulazione capitalista; un continuo reinvestimento del capitale per ottenere profitti ancor più elevati. La sua condizione fondamentale è che una parte maggiore dei valori prodotti nella società diventino valori d'uso per il capitale, cioè per l'espansione della produzione.
La realizzazione del plusvalore (differenza tra il valore di ciò che è stato prodotto e il valore, pagato in salario, della forza-lavoro impiegata) è quindi una questione che riguarda il momento della produzione stessa prima ancora che il mercato nel quale avviene la vendita dei prodotti. E questo spiega la urgente necessità delle ristrutturazioni industriali, degli aumenti di produttività e delle riduzioni di mano d'opera in esubero. Il loro fine è quello di recuperare quantità maggiori di profitto; un profitto che, nel rapporto fra la composizione organica del capitale complessivo investito (mezzi materiali + salari) e il plusvalore ottenuto, tende storicamente a diminuire (caduta tendenziale del saggio del profitto).
Il sistema capitalista ha sviluppato in modo quasi prodigioso le forze produttive della società, ma il risultato del processo che viene messo in moto all'interno di ogni azienda si presenta come un prodotto dalle caratteristiche particolari - la merce - e che a un certo punto mette in crisi, paralizzandolo, tutto il meccanismo. Abbiamo visto che alla base di ciò vi è la precisa e inconfondibile natura del capitale: esso è un valore che deve valorizzarsi. Produce beni in forma di merci; valori di scambio che venduti nel mercato consentono di realizzare un plusvalore. Il profitto si trasforma quindi in nuovo capitale da reinvestire in un'altra fase della riproduzione allargata e dell'accumulazione.
Questa necessità di valorizzazione del capitale fa si che - mentre i bisogni reali di masse enormi di popolazione restano insoddisfatte - il mercato si presenta saturo di merci.
Il mercato non assorbe quello che è stato prodotto perché non è in grado di pagare per ogni singola merce il suo prezzo remunerativo, comprensivo cioè del "giusto profitto". Milioni di esseri umani vivono in miseria e sotto la minaccia della fame di fronte ad una colossale sovrapproduzione che non trova acquirenti sul mercato per consentire la valorizzazione del capitale. Esiste perciò una causa concreta di questa situazione assurda: è la sovrapproduzione di capitale, frutto di una accumulazione sfrenata. Una sovrapproduzione che entra in contraddizione con la struttura dei rapporti economici oggi dominanti, i quali ostacolano e a un certo punto bloccano le possibilità di una messa a profitto del capitale.
La crisi industriale marcia allora di pari passo con uno sfrenato giro di speculazioni finanziarie, una massa incontrollabile di falsi valori sorretti dalla illusione che il denaro abbia in sé il potere di autovalorizzarsi; che la sua circolazione crei ricchezza senza passare attraverso lo sfruttamento della classe operaia e l'estorsione di plusvalore dalla forza-lavoro. Le forze produttive, la cui potenzialità è costantemente in espansione, si rivoltano contro quei rapporti di produzione e quelle relazioni sociali borghesi (il mercato, il salario, il profitto, la divisione in classi, ecc.) che le soffocano.
A una produzione che viene concretizzata dagli uomini in modo sociale, si contrappone una appropriazione dei prodotti, del risultato di un lavoro collettivo, che è invece privata. Infatti, sono il capitale e la classe borghese che lo gestisce ad appropriarsi della parte maggiore del prodotto netto complessivo. Questo fatto accade durante il processo medesimo della produzione. e non durante la successiva circolazione delle merci. Accade cioè là dove avviene la ripartizione del capitale impiegato per la produzione e diviso nelle sue due parti organiche: capitale costante e capitale variabile. Il primo aumenta continuamente la propria massa; il secondo subisce una relativa diminuzione. Una sempre maggiore quantità di mezzi di produzione ed una minore quantità di salari nel loro rapporto diretto con l'insieme di tutto il capitale investito e da valorizzare. E in definitiva è questa valorizzazione, questa produzione di plusvalore, che condiziona lo sviluppo e determina la crisi produttiva generale.
Sul mercato, al momento della circolazione e dello scambio delle merci attraverso la mediazione del denaro, i prodotti sono già stati in realtà suddivisi; i consumi del proletariato sono già stati stabiliti con l'assegnazione di una certa quantità di capitale variabile, di salari messi a disposizione dei lavoratori e delle loro famiglie. Tutto il rimanente prodotto è destinato al consumo, e allo sperpero, della borghesia e delle stratificazioni di parassiti, sostenitori e servi che la circondano e al capitale per proseguire la propria riproduzione ed espansione.
Con il plusvalore estorto alla classe operaia attraverso lo sfruttamento della forza-lavoro nei processi produttivi industriali (tutte le altre attività, il terziario, ecc., non producono alcun valore) vive l'intera società borghese. Il plusvalore viene infatti ripartito in: profitto aziendale, profitto commerciale, interessi alle banche e al capitale finanziario, rendita fondiaria per i possessori di terreni, e infine imposte rastrellate dallo stato e dalla sua burocrazia amministrativa, dai suoi apparati politici e militari.
Il consumo, lo scambio denaro-merci-denaro serve al capitale per realizzare il profitto; il soddisfare o meno i bisogni presenti nella società dipende soltanto - per il modo capitalistico di produzione - dall'espandersi o dal restringersi delle possibilità di ottenere un profitto. È l'unico e concreto bisogno che il capitale riconosca. E un'altra condizione si impone per la continuazione e l'ampliamento della accumulazione: parti maggiori di prodotto vengono trasformate in capitale, ottenendo una ancor più pesante sottomissione del lavoro salariato al capitale.
E il saggio di profitto cala
Lo scopo fondamentale del capitalismo è la produzione di plusvalore (profitto, rendita, interesse). Per incrementarla sempre più, l'impiego del capitale costante aumenta progressivamente nel suo rapporto con il capitale variabile. Conseguentemente, e tendenzialmente, cade il saggio del profitto, e questa caduta è all'origine della crisi economica del capitalismo, in quanto diventa causa e condizione, di volta in volta, della riduzione o della estensione della produzione di merci. Quindi:
il saggio del profitto costituisce la forza motrice della produzione capitalistica; viene prodotto solo quello che può essere prodotto con profitto, e nella misura in cui tale profitto può essere ottenuto.
Marx
La contraddizione fondamentale si trova cioè all'interno dei meccanismi produttivi e del processo di accumulazione del capitale, e dà il via a tutta una serie di fenomeni economici, monetari e finanziari solo apparentemente indipendenti.
Seguiamo, come al solito, l'analisi di Marx. Il guadagno di plusvalore avviene esclusivamente nel processo di produzione immediato delle merci:
Il plusvalore è prodotto non appena il plusvalore che è possibile estorcere (dall'impiego di forza-lavoro) si trova oggettivato nelle merci.
È questo il primo atto della produzione capitalistica, là dove il capitale ha assimilato una quantità di lavoro non pagato. La massa di plusvalore così prodotta si gonfia all'infinito contemporaneamente allo sviluppo del processo che si esprime nella diminuzione del saggio del profitto, in conseguenza dell'aumento del capitale fisso e della diminuzione del lavoro vivo.
Si passa quindi al secondo atto del processo, quando la massa complessiva delle merci prodotte deve essere venduta. Lo sfruttamento dell'operaio esiste in ogni caso - conclude Marx - ma si tramuta o non in un profitto per il capitalista a seconda che la vendita sia totale, parziale o addirittura nulla.
A questo punto avviene lo scontro con i limiti del mercato per la realizzazione del plusvalore. Uno scontro che si manifesta quando i capitalisti sono stati spinti ad incrementare la produttività del lavoro e la quantità delle merci prodotte per ottenere una massa maggiore di profitto.
Oltretutto, è il valore delle merci (il loro prezzo) che contribuisce a stringere o ad allargare le possibilità di un loro assorbimento nel mercato.
I fenomeni che si manifestano nella circolazione e sul mercato sono dunque in realtà la conseguenza di un processo a monte del mercato stesso, all'inizio del ciclo
economico, dove la esigenza della valorizzazione del capitale tramite la produzione di merci, pone in essere le prime contraddizioni.
Lo sviluppo delle forze produttive condanna il sistema al collasso nel momento stesso in cui la valorizzazione del capitale entra in crisi, generando la rottura di tutti gli altri rapporti ed equilibri. La diminuzione del saggio di valorizzazione del capitale complessivo porta alla sovrapproduzione dei mezzi di produzione (mezzi di lavoro e di sussistenza) i quali non possono più essere impiegati allo sfruttamento degli operai secondo un grado determinato. Avremo, quindi, un accrescimento della forza produttiva del lavoro (oggi già a livelli altissimi); un aumento della massa dei prodotti (potenzialmente sufficienti a soddisfare i principali bisogni dell'umanità): la saturazione dei mercati e la sovrabbondanza dei capitali. Di nuovo una diminuzione del saggio del profitto presente, in definitiva, ai due estremi di questo circolo vizioso dell'accumulazione capitalistica; presente, anche, nella concorrenza fra i capitali, e non inversamente.
Prima di proseguire, ricordiamoci che l'accumulazione non va considerata in termini esclusivamente monetari, ma anche in merci, beni strumentali, impianti. Ed è evidente che se tutte le merci (mezzi di produzione e beni di consumo) fossero vendute - questa è l'accumulazione semplice - come sarebbe possibile l'accumulazione allargata, in grado cioè di aumentare la base produttiva? Spostando l'intera questione all'esterno, vale a dire nella circolazione delle merci invece che all'interno del loro processo produttivo, gli sviluppi della nostra analisi sarebbero obiettivamente costretti a subire dei limiti invalicabili. Ciò che invece mette in evidenza l'esattezza della nostra critica è il fatto stesso per cui il capitale si vede costretto, ad un certo punto, a restringere la domanda di merci. La borghesia sferra i suoi attacchi contro il proletariato, prima con forme di supersfruttamento, poi abbassando il potere di acquisto di quella classe che si presenta come il principale destinatario del consumo di merci.
Tutto ciò non si spiegherebbe se sottovalutassimo il problema che il capitale deve affrontare nel suo sviluppo progressivo: la realizzazione sul mercato del costo di produzione delle merci e del relativo profitto.
Fra la produzione e la circolazione (la distribuzione delle merci), nel capitalismo non esiste possibilità alcuna di equilibrio, poiché è innanzitutto nel rapporto stabilitosi fra capitale e forza-lavoro che va ricercata ed evidenziata la contraddizione principale. È lì, infatti, dove il processo di valorizzazione del capitale si incrina; è da lì che partono tutte le successive ripercussioni esterne, sempre più gravi via via che il rapporto capitale-lavoro si riproduce su scala allargata assieme al processo di accumulazione.
Per una analisi e una critica rivoluzionaria
Abbiamo brevemente evidenziato le cause, le leggi economiche (indipendenti dalla buona o cattiva volontà. coscienza o morale degli uomini) che fanno della crisi in generale e della disoccupazione in particolare gli effetti inarrestabili del modo di produzione capitalistico. I mass-media, gli esperti, i partiti della cosiddetta sinistra e le organizzazioni sindacali, ufficiali o aspiranti tali, si guardano bene dall'entrare nel vivo della questione. Non solo: tutti confondono la realtà dei fatti, e respingono ogni impostazione ed analisi critica, se questa non tiene conto obbligatoriamente degli interessi del capitale e quindi della economia nazionale. Il presente e il futuro, per tutte le forze impegnate nella conservazione del capitalismo, si identificano in un unico programma: sacrifici e rinunce per rilanciare e garantire un giusto profitto al capitale.
I lavoratori, occupati o disoccupati, sono imprigionati in un sistema economico e sociale che li sfrutta, li deruba o li getta sul lastrico secondo le proprie necessità; nello stesso tempo, sono sopraffatti da un dominio ideologico che democraticamente, liberamente e pluralisticamente, impone loro di accettare come verità assoluta (benedetta dalla stessa Chiesa) i principi diffusi dalla classe borghese. Quella classe che dal capitalismo ottiene ricchezze, poteri e privilegi d'ogni genere.
La condizione della sopravvivenza di questo tragico stato di cose è che l'altra classe, il proletariato, sia tenuta divisa, debole e indifesa per essere meglio soggiogata; succube dei pensieri e delle idee della borghesia, e addomesticata dai suoi intellettuali, professori, politologi e riformatori. E sono soprattutto questi ultimi a portare avanti il tentativo di soffocare ogni antagonismo di classe attraverso il vuoto appello a una "superiore razionalità collettiva e solidaristica". Il contenuto di questa operazione di pacifismo sociale si esaurisce di volta in volta nella disfattista proposta dell'abbraccio conciliatore - in una "dimensione realmente cooperativa" - fra relazioni industriali e conflitti sindacali.
Il potere dominante tiene con tutti i mezzi a disposizione la classe operaia lontana dalla possibilità di conoscere, approfondire e sviluppare una analisi e una critica rivoluzionaria della economia capitalistica. Una analisi ed una critica che hanno il loro metodo e il loro strumento più validi nel socialismo scientifico, nella teoria marxista, nell'esame e nell'esposizione delle leggi di movimento e delle contraddizioni presenti ed operanti nel capitalismo e nella società borghese.
Solo su queste basi si concretizza la definizione del programma per una trasformazione rivoluzionaria del mondo in cui viviamo, e la scelta di una linea politica di classe. E solo così si contribuisce alla costruzione della organizzazione pratica - il partito della classe operaia - nella quale si deve riunire il proletariato per conquistare la propria definitiva emancipazione economica e sociale.
Davide CasartelliPrometeo
Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.
Prometeo #7
V Serie - Giugno 1994
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