I bisogni del capitale dietro le ipotesi dei nuovi consumi ecologici

I tentativi di spacciare come una conquista del moderno pensiero economico-politico la possibile separazione tra valore d’uso e valore di scambio dei beni prodotti all’interno del sistema capitalistico si perdono nella notte della conservazione del capitale e delle sue leggi di movimento. In particolare, il ricordo va ai tempi della berlingueriana solidarietà nazionale, sorretta dalle esibizioni teoriche di professori e intellettuali organici al seguito del compromesso storico, e riguardanti i caratteri e le funzioni dello strumento del valore di scambio. Fra tuffi, l’allora “grande economista” C. Napoleoni (scomparso nel 1988) e le sue divagazioni universitarie alla fine degli anni settanta. Divagazioni astrattamente sospese tra le consuete deformazioni della teoria marxista e i conflitti interni al neoliberismo e all’epigonismo keynesiano.

La constatazione, a denti stretti, di una evidente impossibilità del sistema economico ad alimentare e sostenere operazioni riformistiche in piena crisi generale spingeva allora le mistificazioni social-opportunistiche della sinistra borghese verso alternative di trasformazione sociale di questo tipo:

Bisogna costruire un assetto sociale che abbia come principio informatore non più il fondamento del capitalismo, il valore di scambio o denaro che si voglia dire, ma altri fondamenti. [...] Bisogna includere in una programmazione diretta al valore d’uso la stessa produzione di ricchezza materiale da parte dell’impresa capitalistica.

l’Unità, 26-5-1979

L’esplorazione di Napoleoni, senatore indipendente del Pci, partiva da un campo base costruito attorno a quel “residuo valido del capitalismo italiano costituito dalla impresa efficiente”, e che comunque doveva sempre essere sostenuto e garantito come principio. L’equipaggiamento necessario, liberato dal peso superfluo e a teoria del valore di Marx (un Marx filosofo che avrebbe preteso illogicamente - di imporre il lavoro quale determinazione del valore), comprendeva alcuni presupposti discriminanti. Innanzitutto, annunciava C. Napoleoni, “i valori di scambio non sono nel mercato reale che prezzi di produzione”. L’attacco era chiaramente e ancora una volta indirizzato alla teoria del valore-lavoro, vera e propria bestia nera della economia politica e dei suoi professori, che la eliminano dal “discorso economico” dichiarandola un puro “concetto astratto e filosofico”. La soluzione permette loro di cancellare anche l’altro concetto, quello di sfruttamento della forza-lavoro, e di ridurre tutta la loro economia a una teoria dei prezzi o tutt’al più dei costi, e facendo del mercato (cioè della differenza che si realizza nello scambio tra costi e prezzi) il campo centrale della analisi. Tuffi in buona compagnia col padre del revisionismo, Bernstein, che ai suoi tempi si chiedeva a cosa mai servisse il valore, il labirinto dell’oggetto metafisico chiamato valore; o del nostrano prof. Graziadei, che ai tempi di Lenin e di Bordiga pretendeva di eliminare dal sistema marxista “la parte ingannevole della cosiddetta teoria del valore”.

Una teoria invisa alla classe borghese

La legge del valore stabilisce che la proprietà di generare valore spetta solo al valore vivente, Il lavoro accumulato, morto, non crea valore. La teoria del valore è il cardine della critica economica marxista e il fondamento della teoria del plusvalore, laddove Marx può spiegare scientificamente il profitto introducendo nella analisi economica, condotta con metodo di scienza sperimentale, una nuova quantità o grandezza matematica - il valore misurabile attraverso il tempo di lavoro medio sociale necessario alla produzione di una data merce. Il prezzo altro non è che l’espressione in denaro del valore.

I tentativi degli economisti borghesi di costruire i modelli di una economia senza teoria del valore, di conciliare l’inconciliabile per neutralizzare l’unica critica rivoluzionaria al capitalismo, non possono che approdare ad una giustificazione e consacrazione del carattere di classe dell’attuale dominante modo di produzione. La teoria della utilità marginale (Bohm-Bawerk), ad esempio, porterebbe a un unico risultato: “Nella essenza dell’interesse (cioè del profitto aggiungiamo noi) non c’è nulla che lo possa fare apparire iniquo o ingiusto”. Mentre, abbracciando le idee di Napoleoni, e in piena crisi economica, l’attuale presidente della Camera, Napolitano, traeva le debite conclusioni politiche: “La classe operaia non può disinteressarsi dell’andamento dei costi e dei ricavi dell’impresa e dell’andamento della produttività”...

A dimostrazione della esattezza dei giudizi espressi da Marx:

La scienza borghese dell’economia è arrivata al suo limite insormontabile con lo sviluppo della lotta fra le classi. Ora si tratta più di vedere se questo o quel teorema è vero o no, ma se è utile o dannoso, comodo o scomodo al capitale, se è accetto o meno alla polizia.

Entriamo ora nel merito particolare, e nella sostanza astratta, di certe proposte fondate su una produzione di valori d’uso con l’accantonamento, o per lo meno con una sua subordinazione, della molla dominante del valore di scambio in vista del profitto. Questa idealistica variante applicata al capitalismo potrebbe, sempre secondo i suoi suggeritori, interessare settori di produzione finalizzati al soddisfacimento di bisogni sociali, interventi ecologici-ambientali, eccetera.

Valori d’uso e valori di scambio per la produzione di plusvalore

Escludendo gli eremi dorati nei quali sembrano condurre la loro esistenza le varie categorie di apologeti del sistema o di riformatori di certi suoi eccessi, tutti noi ci troviamo, nostro malgrado, all’interno di un processo di produzione storicamente ben definito, Il prodotto di questo processo, per farla breve...

non è né semplice prodotto (valore d’uso) né semplice merce, cioè prodotto di un valore di scambio; il suo prodotto specifico è il plusvalore: merci che possiedono più valore di scambio, cioè rappresentano più valore di quello anticipato per la loro produzione in forma di merci o di denaro. In esso, il processo lavorativo appare soltanto come mezzo, il processo di valorizzazione o la produzione di plusvalore come fine.

Così Carlo Marx. Ne risulta che la merce, questa forma specificatamente sociale del prodotto, è il fine e il presupposto della produzione capitalistica. Ma è anche il prodotto, il risultato di questa produzione.

E solo sulla base della produzione capitalistica, infatti, che l’essere merce diventa la forma generale del prodotto, e più la produzione capitalistica si sviluppa, più tutti gli ingredienti della produzione entrano sotto forma di merci nel suo processo.

Tutti i prodotti del lavoro sono quindi merci, nella economia capitalista, e ogni merce esiste innanzitutto come valore d’uso. Il valore d’uso è presupposto necessario per la merce, ma esso è sempre Marx che parla esula, quale valore d’uso, dal campo d’osservazione dell’economia politica:

Nella produzione capitalistica il valore d’uso è universalmente mediato dal valore di scambio. Il valore d’uso è la base materiale in cui si presenta un determinato rapporto economico, il valore di scambio.

Quest’ultimo è “un rapporto tra persone, celato sotto il velo delle cose”; un velo che qualcuno agito inutilmente davanti ai nostri occhi, tentando di considerare alcune merci unilateralmente dal punto di vista del solo valore d’uso, senza abbattere il valore di scambio.

La merce - ripete Marx - è immediatamente Unità di valore d’uso e di valore di scambio; allo stesso tempo merce soltanto in relazione alle altre merci.

Nella produzione capitalistica, che si fonda sulla produzione del valore di scambio e sulla accumulazione del capitale (e non sulle opere di pia misericordia) tutti i prodotti sono unità di valore d’uso e di valore di scambio, cioè merci. Il valore d’uso non è che un mezzo per realizzare il valore li scambio.

Il valore di scambio è quindi la misura del valore d’uso. Unicamente su di esso si baso tutta la produzione (pena il crollo dell’intero sistema) e il consumo dei singoli prodotti, compreso il lavoro che appare come valore dei prodotti. Tutto questo a causa della funzione di merce che anche la forza-lavoro occupa nel modo di produzione capitalistico.

Il lavoro e i suoi prodotti trasformati in merci

Ogni prodotto del lavoro umano è un valore d’uso, ma nella produzione delle merci ovvero là dove domina il modo di produzione capitalistico il valore d’uso non è la cosa “che si ama per se stessa”: i valori d’uso vengono prodotti soltanto perché e in quanto essi sono depositari del valore di scambio; perché sono destinati alla vendita. Sono merci, quindi, il cui valore risulta più alto della somma dei valori necessari alla loro produzione, vale a dire i mezzi di produzione e le materie prime più la forza lavoro. E per gli uni e per l’altra sono state anticipate sul mercato somme di “buon denaro”, come dice Marx, dalle quali il capitalista si aspetta qualcosa in più di un attestato di benemerenza.

Il capitalista non vuole produrre soltanto un valore d’uso ma una merce, non soltanto valore d’uso ma valore, e non soltanto valore ma anche plusvalore.

Il capitalismo è un sistema di produzione e di distribuzione di prodotti sotto forma di merci. I prodotti del lavoro hanno un carattere di merci quando accanto al loro valore d’uso si unisce e in definitiva si antepone un valore di scambio. Questo valore, e qui sta il punto fondamentale, nasconde non un rapporto fra cose ma fra uomini, così come tutto il processo economico non è un rapporto tra gli uomini e il mondo dei beni prodotti ed esistenti, ma un rapporto sociale degli uomini fra di loro. Nel caso della categoria merce (cioè dio un valore d’uso prodotto per terzi) è compresa la presenza e il rapporto reciproco di due figure sociali, il venditore e il compratore.

Nel modo di produzione capitalistico il valore d’uso di ogni prodotto viene calcolato attraverso la legge del valore di scambio. Questo valore è una grandezza matematica riconducibile al fatto che le merci sono tutte il prodotto del lavoro umano; su questo dato fondamentale il valore di scambio si trasforma nel prezzo, cioè nella espressione in denaro del valore. A questo punto il mercato è il solo strumento attraverso il quale avviene la distribuzione dei prodotti del lavoro, che circolano sotto forma di merci scambiandosi con il loro intermediario ufficiale, il denaro. Scrive Engels:

Lo scambio di prodotti di uguale valore espresso da lavoro sociale, l’uno con l’altro, quindi la legge del valore è appunto la legge fondamentale della produzione delle merci, quindi anche della forma più elevata di essa, della produzione capitalistica.

Torniamo sul mercato e indaghiamo sulla presenza di una certa merce la quale viene acquistata con una somma e poi venduta a una somma maggiore. Formula del Capitale di Marx: D - M - D’, dove D’ è uguale alla somma di denaro originariamente anticipata più un “incremento” (plusvalore). Il contenuto oggettivo di questa circolazione (nonché il suo fine soggettivo) è la valorizzazione del valore. Ma se non è dalla circolazione vera e propria che scaturisce il plusvalore (lo scambio avviene sempre fra equivalenti), è altrettanto impossibile che esso non scaturisca dalla circolazione. Il possessore di denaro, infatti, compero le merci al loro valore e le deve vendere al loro valore poiché il prezzo delle merci è uguale al loro valore.

É il lavoro la fonte del valore

Se nell’atto dello scambio mercantile escludiamo la truffa, l’imbroglio da parte del venditore o dell’acquirente, è evidente che il valore di un prodotto non si determina nello scambio, che fa di questo prodotto (dotato di un suo valore d’uso, altrimenti non si scambierebbe!) una merce, ma nel processo di produzione dove agiscono i tre elementi cardini della economia capitalistica: il capitale costante (macchine e materie), il capitale variabile (salario) e il plusvalore o profitto. La trasformazione del denaro in capitale, la sua autovalorizzazione, avviene in un processo basato appunto sullo strumento della legge del valore equivalente o valore di scambio.

Il mistero viene risolto dal fatto che sul mercato esiste una merce il cui valore d’uso possiede la particolare qualità di essere fonte di valore; il cui consumo reale è creazione di valore. Questa merce è la forza-lavoro. Il lavoro viene pagato, attraverso il salario, al di sotto del suo valore, cioè al di sotto del valore che il lavoro trasferisce ai prodotti, alle merci. Se ne deduce che è nella produzione e non sul mercato che si crea valore; nello scambio le merci realizzano quel loro valore che hanno ricevuto nel processo di produzione.

Dietro l’illusione di una ipotetica “determinazione del valore d’uso secondo nuovi principi” si scopre il tentativo di nascondere a se stessi e agli altri la vera origine della crisi che si abbatte sul mercato, provocata dalle dimensioni necessariamente limitate del consumo su basi capitalistiche. Viene avanti la mistificazione dei reali rapporti di distribuzione e di consumo legati al modo di produzione capitalistico.

Ogni distribuzione dei mezzi di consumo - insegna Marx - è solo la conseguenza della distribuzione dei mezzi di produzione o o quando i mezzi di produzione saranno proprietà dei lavoratori stessi, ne conseguirà una distribuzione dei mezzi di consumo differente da quella attuale.

Solo allora avremo una effettiva produzione di valori d’uso; ma finché domina l’economia capitalistica, l’intero processo di produzione rimane fondato sulla produzione del valore di scambio, del plusvalore, e sulle leggi della accumulazione di capitale. Il valore d’uso è misurato dal valore di scambio, e i bisogni della società sono condizionati - vale a dire negati oppure creati artificialmente - dagli interessi della accumulazione.

Infine, sono proprio...

le specifiche condizioni di produzione, in cui si muove e può solo muoversi il capitale, a condizionare l’estensione o la riduzione della produzione che non viene decisa in base al rapporto fra la produzione e i bisogni sociali, i bisogni di una umanità socialmente sviluppata, ma in base alla appropriazione del lavoro non pagato e al rapporto fra questo lavoro non pagato e il lavoro oggettivato in generale o, per usare una espressione capitalistica, in base al profitto e al rapporto fra questo profitto e il capitale impiegato, vale a dire in base al livello del saggio del profitto.

Marx

Produzione e distribuzione; bisogni e mercato

Veniamo ora al “soddisfacimento dei bisogni sociali”. pio desiderio in una produzione dove i bisogni dei produttori devono coincidere e devono rispondere alle necessità dell’accumulazione. In nessun caso la debbono disturbare (e soltanto allora possono essere presi in considerazione).

Ripetiamo: li mercato, là dove si affaccerebbe la domanda di bisogni sociali, regola solo in apparenza la distribuzione poiché il mercato stesso è determinato dalla produzione e riproduzione del capitale, dalla produzione di plusvalore basata sullo sfruttamento della forza-lavoro e sui rapporti del valore di scambio. Il mercato è lo strumento di misura, sì, ma dei bisogni del capitalismo, mentre i bisogni del proletariato sono regolati dal salario, vale a dire dal prezzo di mercato della merce forza-lavoro. Un valore variabile che non consente ai lavoratori stessi di godere e consumare il prodotto sociale; essi possono soltanto consumare ciò che è loro concesso di acquistare attraverso il salario, la retribuzione di una minima parte dei loro sforzi e delle loro capacità di lavoro complessivamente impiegate, organizzate e dirette dal capitale. il resto diventa plusvalore: profitto industriale, rendita e interesse finanziario. E evidente allora che per regolare la distribuzione secondo la produzione e controllarne sia la quantità che la qualità:

Il carattere della distribuzione muterà insieme al carattere specifico dell’organizzazione della produzione sociale, e al corrispondente livello di sviluppo storico dei produttori.

Marx

Si produrrà infine per i bisogni concreti della società umana (e non più della società borghese) attraverso la “associazione dei produttori liberi ed eguali” - il comunismo - mentre oggi metà della produzione è inutile o dannosa, volta non solo allo spreco delle risorse ma alla stessa distruzione della specie, e due terzi dell’umanità soffrono miseria e fame.

Non possiamo fare a meno di citare uno stupendo brano dalle “Teorie del plusvalore” di Marx:

La maggior parte degli operai occupati nella produzione dei generi di consumo, che si scambiano col reddito in generale, produce generi per il consumo verso i quali va la spesa del reddito dei capitalisti, dei proprietari fondiari e dei loro relativi dipendenti (Stato, Chiesa, ecc.), e una parte minore produce i generi destinati al reddito dei lavoratori. Ma questo è a sua volta effetto e non causa. Se mutassero i rapporti sociali fra operai e capitalisti, se ci fosse un rivoluzionamento dei rapporti che dominano la produzione capitalistica, tutto ciò cambierebbe subito. Il reddito verrebbe “realizzato in merci differenti” per usare una espressione di Ricardo. Nelle cosiddette condizioni fisiche della produzione non c’è niente che renda questo fatto necessario. Gli operai, se dominassero loro, se fosse concesso loro di produrre per se stessi, subito e senza grandi sforzi, porterebbero il capitale (per usare un’espressione degli economisti volgari) al livello dei loro bisogni.

Ma il saggio del profitto continua a scendere

Abbiamo cercato di rimettere coi piedi per terra una questione che la classe borghese e i suoi corifei tentano ripetutamente di presentarci capovolta, I più recenti ritorni di quei pensieri economici, e relative mistificazioni, girano attorno a una proposta centrata in prevalenza sul “bisogno ambiente”, sulla riconversione ecologica della economia, individuando possibilità inedite per rivitalizzare il mercato dei valori d’uso e della forza-lavoro. La novità, anche nei confronti di aspetti e contenuti delle teorie keynesiane dalle quali tutti prendono le distanze, è solo a p parente dietro la richiesta di una innovazione del prodotto per un rilancio del mercato e dell’occupazione.

E si ritorna al punto di partenza, ovvero al saggio del profitto (il plusvalore riferito all’intero capitale, costante e variabile impiegato nella produzione) come forza motrice della produzione capitalistica. La condizione essenziale del processo di accumulazione del capitale è che:

il capitale sia riuscito a vendere le merci prodotte e a ritrasformare in capitale la maggior parte del denaro intascato.

Marx

Questa condizione è continuamente frenata da un “eccesso” di capacità produttiva a disposizione del sistema, la quale entra in contrasto con la possibilità concreta di un consumo mantenuto a livelli di sottoconsumo per le logiche di autovalorizzazione del capitale. Logiche imposte dalle leggi che regolano il suo movimento generale.

Se dai tentativi di una sollecitazione della domanda privata, messi in campo dalla fervida fantasia della classe borghese, passiamo a quelli per un ampliamento della domanda pubblica di beni di consumo sociali, i risultati fallimentari sono sotto gli occhi di tutti. Ed è scontato, per la teoria marxista, che nella economia capitalistica la produzione che viene destinata a servizi pubblici è in massima parte una produzione improduttiva in termini di valore. Essa si fonda su una parte del plusvalore proveniente dai processi veri e propri, grazie al rastrello-mento effettuato dallo Stato attraverso le imposte e il debito pubblico.

Le ripercussioni sul saggio della accumulazione generale del capitale sono alla lunga anch’esse negative. Tutte le imposte dirette o indirette, i carichi fiscali, gli oneri sociali, così come tutte le attività destinate alla realizzazione del plusvalore (costi di pubblicità, distribuzione e vendita delle merci) e alla circolazione finanziaria assorbono una parte progressivamente in crescendo della massa totale del plusvalore. Sottraendo dal plusvalore complessivo lordo l’insieme delle spese improduttive, private e pubbliche, si ottiene la somma di plusvalore netto su cui calcolare il saggio di profitto: avremo la conferma storica della costante diminuzione del saggio del profitto, e proprio nelle economie più avanzate a scala internazionale.

Consumatori privati o pubblici ma solvibili

Quali sono chiedevamo ieri al Pci e oggi al club degli ambientalisti le intenzioni di lor signori? Si vuole forse abbattere la società basata sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e sulla divisione del lavoro? Si intende distruggere le leggi del capitalismo, i suoi rapporti di produzione e quindi di distribuzione, e con essi la causa unica e fondamentale dell’ingigantirsi delle sue contraddizioni e crisi? Niente di tutto questo. L’azienda capitali-sta efficiente che produce ricchezza è la ragione attorno alla quale ruotano, e dipendono, tutte le preoccupazioni del pensiero economico-politico borghese.

Dopo i molti clamori e gli scarsi risultati ottenuti con la denuncia dei gravi danni ecologici, provocati dalle produzioni inquinanti che accompagnano lo sviluppo del capitalismo, è apparso a tutti evidente che ogni intervento sia pure per una relativa salvaguardia dell’ambiente ha un costo.

Condizionato dagli obblighi della competizione mercantile e della più alta produttività del lavoro, il capitalismo non può sopportare costi aggiuntivi senza corrispondenti ricavi o coperture statali. Il postulato del disinquinamento, quando è stato fatto proprio dallo stesso sistema economico-industriale che porta la responsabilità diretta dell’inquinamento e del degrado ambientale, si è così trasformato in una occasione di buoni affari (ma non sempre puliti). Disco verde, ci questo punto, per l’eco-business delle attività di smaltimento dei rifiuti, selezione e riciclo di alcune materie prime, biotecnologie, eccetera. Grandi investimenti industriali per inceneritori e depuratori, vincolati all’unico stimolo capace di dar vita e spirito al capitale: la ricerca del massimo profitto. è questa la condizione primaria che, entro il modo di produzione capitalistico, costituisce il limite invalicabile per operazioni di questo genere, e suggerisce l’ultimo tentativo di collegare ambiente e mercato, di trasformare bisogni in consumi di merci.

Dopo l’auto per tutti, la lavatrice e il televisore in ogni famiglia, occorrerebbe dunque escogitare altri “bisogni”.

Con una pregiudiziale di fondo: bisogni capaci di mercato; in grado di trovare consumatori paganti.

Consumatori necessariamente solvibili; siano essi collettivi (lo Stato, a spesa pubblica attraverso il prelievo fiscale) o privati la borghesia con i suoi profitti e rendite varie, e il proletariato con i salari a disposizione). Esempio: l’aria e l’acqua sono beni naturali di consumo e nello stesso tempo si presentano, grazie alle frenesie produttivistiche condizionate dalle esigenze di autovalorizzazione del capitale, ogni giorno di più inquinate. Non si potrebbero disinquinare e rivendere a chi intenda ancora sopravvivere? parte questo già avviene (acque minerali, depuratori, marmitte catalitiche, ecc.); si potrebbero estendere gli interventi a livelli più ampi, industriali e tecnologici: investimenti di capitale e impiego di forza-lavoro (c + v), commercializzazione e vendita del prodotto finito a prezzi remunerativi.

Quando, dietro l’alibi della ricerca di nuovi posti di lavo-e, in questo caso, di un intervento di riassetto ecologico si propone di trasformare in “merci vendibili” (in terni cioè di valori d’uso che diventano valori di scambio) stessi bisogni ambientali e sociali, non si sposta di un millimetro la questione sul tappeto.

La produzione per la produzione, e quindi anche l’innovazione incessante dei prodotti offerti a un consumismo drogato e folle, giunge inevitabilmente a una saturazione di solvibilità, della domanda, e di un blocco delle vendite.

Conclusioni

Nel contesto specifico della economia capitalistica, mercantile e monetaria, finché la produzione sarà asservita alla valorizzazione del capitale, qualunque valore d’uso diviene contemporaneamente il depositaria materiale del valore di scambio. L’uno e l’altro si presentano come i fattori distintivi di ogni merce, della trasformazione di ogni prodotto in merce e di ogni merce in denaro.

Il meccanismo della produzione e della accumulazione capitalista, con le sue leggi, adeguo i consumi del proletariato e della massa della popolazione ai bisogni di valorizzazione del capitale.

Nel capitalismo non è l’operaio che impiega i mezzi di lavoro, bensì sono i mezzi di lavoro che impiegano l’operaio in questo modo: quanto più alta è la forza produttiva del lavoro, tanto più grande è la pressione degli operai sui mezzi della loro occupazione, e quindi tanto più precaria la loro condizione di esistenza: vendita della propria forza-lavoro per l’aumento della ricchezza altrui, ossia per la autovalorizzazione del capitale.

Marx

Quelle “specifiche condizioni di produzione, entro le quali il capitale si muove e può solo muoversi”, devono essere spezzate e abbattute: è la funzione storica alla quale è chiamato il proletariato, ed è l’unica condizione perché diventi “possibile una produzione sociale conforme a un piano prestabilito” (Engels). Una produzione per i bisogni dell’umanità e non più per i profitti del capitale. Una possibilità irrealizzabile là dove il prodotto è merce e viene scambiato col denaro, compresa la forza-lavoro venduta e acquistata sotto la forma del salario.

Davide Casartelli

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.