L'imperialismo in Medio Oriente: la questione palestinese

Per coloro che ritengono l'imperialismo una mera definizione sociologica, un concetto di letteratura politica, quanto si determina oggi sul mercato mondiale in seguito ad una crisi economica parzialmente controllata ma mai superata, in presenza di una crescente competitività economica, commerciale, politica e militare tra le massime potenze mondiali, è normale routine della vita del capitalismo senza nulla di nuovo da segnalare, se non l'elencazione statistica di nuovi e vecchi focolai di guerra e di tensione. Per chi, invece, ritiene l'imperialismo l'operare quotidiano delle contraddizioni economiche dei rapporti di produzione capitalistici - tanto più feroce ed aggressivo quanto maggiore è la crisi che lo pone in essere e lo esaspera - tra le altre, le vicende mediorientali escono dagli schemi di una "normale" routine, dalla loro specificità per inserirsi nel quadro di interessi e scontri tra le grandi potenze in una tragica sorta di preparazione al terzo conflitto mondiale.

I recenti fatti: il raid israeliano a Tunisi, il dirottamento dell'Achille Lauro, l'affare "Sigonella" con tutti gli annessi e connessi tra Italia e Stati Uniti, gli attentati di Roma e Vienna, sono sì la manifestazione evidente di problemi locali quali l'irrisolta questione del popolo palestinese, il difficile rapporto tra lo stato sionista ed il restante mondo arabo, il controverso, strumentale "legame" tra le borghesie arabe ed il proletariato palestinese, ma anche il sintomo di una crisi che si è abbattuta sull'area esasperando le tensioni interne dei mini-imperialismi, e soprattutto vedono impegnate le due maggiori centrali imperialistiche, sollecite all'intervento diplomatico o militare a seconda dei casi e delle opportunità.

Non è certamente frutto della casualità che il Medio Oriente e, per estensione, i suoi immediati confini geografico-politici sia teatro di conflitti come quello iraniano-irakeno, di guerre civili come quella libanese, dello Yemen del Sud ed afgana, di gravi tensioni tra stati (Siria ed Israele, Libia ed Egitto), di questioni nazionali irrisolte come quelle palestinesi, curda e armena.

Tutti questi episodi - comunque pagati dal proletariato arabo, sia che si tratti di combattenti palestinesi scacciati e trucidati da Israeliani, Giordani e Siriani, sia che si tratti di sottoproletari libanesi in lotta tra di loro al servizio delle sbrindellate borghesie musulmane dei vari Berri, Jumblat o Kharame, o di lavoratori iraniani ed iracheni costretti ad uccidersi in una guerra di trincea perstabilire se a dominare la zona petrolifera dello Shat-elarab debba essere la borghesia teocratica degli Imam o quella del presidente Saddam Ussein - sono in parte il retaggio della vecchia politica imperialistica americana ed in parte il frutto delle spinte sovietiche per crearsi un varco nell'area.

Né è da considerare occasionale che in progressione geometrica, in presenza della recrudescenza del disperato terrorismo di alcune frange di palestinesi, sia montata la tensione nel basso Mediterraneo coinvolgendo in prima persona i governi imperialisti di Mosca e di Washington.

Troppo affrettatamente la stampa occidentale ha gridato al lupo (Gheddafi e palestinesi anti-Arafat), ha paventato la destabilizzazione del basso Mediterraneo; troppo sospetta la violenta reazione americana a fatti e problemi non nuovi, perché non sorga il dubbio che gli ultimi avvenimenti terroristici più che un fine tattico nelle mani di alcune frange palestinesi o dello stesso Gheddafi, siano il mezzo o comunque lo strumento, còlto o provocato, a giustificazione di uno scontro ben più vasto di cui il Medio Oriente ed il basso Mediterraneo rappresentano il travagliato scenario.

Difficile imputare ad un pugno di palestinesi disperati e al capo della Yamairia libica la responsabilità di aver fatto muovere la VI flotta americana nel mediterraneo e di aver "costretto" l'amministrazione Reagan ad un protervo, arrogante, criminale atto di guerra contro la Libia.

Difficile ritenere che le componenti che determinano la "questione" mediorientale siano soltanto di natura endogena e che il loro sconfinare non finisca per coinvolgere anche altre situazioni geograficamente e politicamente limitrofe al punto da costringere chi di dovere ad intervenire per rimettere le cose a posto.

È molto più realistico constatare come, nell'attuale crisi economica e politica mondiale che tutto coinvolge e stravolge, sia sufficiente una starnuto per sentire l'eco di un boato, un colpo di arma da fuoco per sentire riecheggiare rumori di guerra.

Certamente, come mai dal secondo dopoguerra, l'area del Mediterraneo è attraversata da un processo di destabilizzazione, i cui effetti sono facilmente individuabili nella rivolta di una parte del mondo islamico nei confronti della presenza dell'imperialismo occidentale, nello scontro mini-imperialistico delle borghesie indigene per il controllo di aree strategiche e lo sfruttamento di zone economiche imperniate sullo sfruttamento del petrolio, ma la cui causa va ricondotta alle devastanti conseguenze della crisi economica mondiale ed al muoversi delle centrali dell'imperialismo sempre più direttamente coinvolto nella spirale di decadenza da lui stesso generata.

La crisi degli anni Settanta, oltre ad aver messo in moto i tipici meccanismi di compressione e scaricamento dalle aree avanzate a quelle periferiche - quali la gestione della questione petrolifera, il riciclaggio dei petrodollari, la politica dell'alto tasso di sconto negli USA fino a tutto il 1985, l'aumentata distanza economica, finanziaria e politico-sociale tra i paesi capitalisticamente avanzati e quelli del sottosviluppo - in Medio Oriente ha prodotto un repentino mutamento dei rapporti di forza imperialistici, con il risultato di porre in essere un processo di destabilizzazione tanto più vasto e profondo quanto radicale e veloce è stato questo processo.

Oggi, in una fase avanzata della crisi economica dell'intero mondo capitalistico, dove lo scontro per la salvaguardia degli interessi nazionali e delle rispettive aree di influenza sta superando i normali limiti di guardia, la questione mediorientale si propone come terreno di confronto trascinando con sé le proprie, drammatiche contraddizioni. L'area è tremendamente importante da un punto di vista strategico. La sua posizione geografica, alla confluenza di tre continenti, Europa, Africa ed Asia, la fa considerare essenziale dalle sempre più impellenti strategie militari.

Per la stessa ragione geografica il Medio Oriente è il necessario centro di transito commerciale e finanziario tra Occidente ed Oriente, tra le aree industrializzate ed il mondo del sottosviluppo. In più c'è il problema del petrolio. Questa fonte energetica, pur avendo visto sensibilmente ridursi il suo utilizzo negli ultimi anni, rimane di gran lunga una "merce" di primaria importanza.

Non è quindi una novità lo scontro di interessi "autoctoni" ed "esterni" nei confronti di quest'area. Di nuovo c'è solo la violenza e l'intensità degli scontri dei soliti protagonisti, sollecitati dalla crisi economica, costretti a sottrarsi spazi e risorse, impegnati a colpire il proprio e l'altrui proletariato, pur di sopravvivere come regime ed assetto economico. L'atavico scontro tra Iran e Iraq, ben più antico dell'attuale guerra, la voluta distruzione della struttura capitalistico-finanziaria del Libano, l'antagonismo tra Siria, Giordania ed Arabia Saudita, la recente ma non nuova tensione tra Egitto e Libia, l'ambiguo confronto, innescato dall'imperialismo occidentale tra la Lega Araba ed Israele, con la tragica coda della questione palestinese, ma soprattutto l'evolversi a volte palese a volte sotterraneo, ma mai indolore, delle interferenze russo-americane, sono la rappresentazione reale di una serie concentrica di sfere di interessi che vanno dalle convulse e confuse aspirazioni del proletariato e della massa di diseredati agli interessi delle borghesie arabe per culminare in un complesso gioco di pressioni ed interventi da parte di URSS ed USA.

Prima di giungere all'intricata situazione attuale, il muoversi del capitale americano rispetto all'area mediorientale aveva avuto due fasi distinte. La prima, dal 1948 al 1973, era centrata solo ed esclusivamente sull'appoggio allo Stato di Israele escludendo ogni possibilità di relazione con gli avversari del sionismo. La seconda, a partire dalla quarta guerra arabo-israeliana, si basava su una politica più accorta e di più largo respiro, dettata dalle necessità di chiudere possibili varchi all'ingresso dell'imperialismo sovietico, alla politica dell'aumento del prezzo del greggio, al controllo delle maggiori vie di commercializzazione del petrolio, sia nel Golfo Persico (Iran) che nel Mediterraneo (Libano, Turchia). I successi di questa seconda fase hanno portato l'imperialismo americano alla soglia degli anni 1980 a dominare nell'area o quantomeno a condizionare la politica interna ed estera di molti paesi mediorientali.

Ma gli effetti disgreganti della crisi economica internazionale peggiorati dal pesante gioco al rialzo del dollaro, e l'operazione di "pace in Galilea" hanno messo in crisi i vecchi equilibri rigenerando questioni irrisolte (guerra civile libanese, questione palestinese, guerra Iran-Iraq) rimescolando i ruoli di leadership nella zona (accanto al ridimensionamento di Egitto Iran e Iraq, hanno ripreso fiato ed arroganza Siria, Giordania e Arabia Saudita) e soprattutto hanno determinato un declino del sempre più travagliato imperialismo americano, aprendo contemporaneamente spazi di opportunità a quello sovietico.

Due esempi su tutti: il primo quello libanese. Frutto primogenito degli accordi di Camp David, l'operazione di "pace in Galilea" doveva soddisfare tre obiettivi:

  1. innanzitutto ripagare Israele della forzata restituzione della penisola del Sinai all'Egitto;
  2. sterminare i focolai di resistenza palestinese dall'alta Galilea, coprendosi i confini orientali;
  3. tentare di estendere al governo cristiano-maronita una sorta di protettorato militare, trasformando il vicino Libano da paese alleato e bisognoso di aiuto a paese indipendente, il tutto con il beneplacito dell'imperialismo americano.

Nei fatti l'operazione di "pace in Galilea" raggiunse solo il secondo degli obiettivi con il pesante risvolto di riaprire il contenzioso tra borghesia finanziaria cristiano-maronita e le frange della borghesia musulmana.

Per l'asse Washington-Tel Aviv, quella che avrebbe dovuto essere una operazione di pulizia in grado di assolvere alle necessità di sopravvivenza del mini imperialismo sionista e di ampliamento dell'influenza in Medio Oriente dell'imperialismo americano si è trasformata nel suo contrario, in una strisciante sconfitta.

Israele, travagliata da una grave crisi economica, debole nelle sue tradizionali roccaforti istituzionali quali l'esercito (diserzioni) e lo Stato (crisi di governo), eventi che per gravità ed intensità non si sono mai verificati dal 1948 ad oggi, è stata costretta al ridimensionamento delle proprie ambizioni imperialistiche prima, al ritiro delle truppe poi. Evacuando il territorio ha inoltre abbandonato il governo di Gemayel al suo destino e dato campo libero alle ambizioni siriane. Oggi i destini del Libano si giocano a Damasco. Non solo Gemayel è costretto a prendere in considerazione i "consigli" di Assad ma lo stesso devono fare gli sciiti di Berri, i drusi di Jumblat e i sunniti di Karame. In più la sconfitta israeliana ha fatto sì che i tentativi diplomatici americani di essere arbitri delle disastrate condizioni politiche di Beirut e dintorni, contassero praticamente nulla. Il progetto di "pax americana", sia nelle versioni Abib che in quella Shultz, non hanno sortito alcun effetto. In conclusione la vicenda libanese, al di là delle faide della sua borghesia, pagate ancora una volta con il sangue di migliaia di proletari, va delineando un nuovo anche se precario assetto. Fuori l'asse Washington-Tel Aviv si fa strada quello di Damasco-Mosca.

Il secondo esempio è proprio quello palestinese.

In coda agli avvenimenti del Libano, anche per il movimento di liberazione della Palestina ci sono stati dei problemi.

Innanzitutto la sconfitta militare, la più grave dopo quella di Tell al Zatar. Da quel momento la linea Arafat, già propensa a prendere in considerazione la soluzione negoziata con tutte le complicazioni del caso (rinuncia alla totale riconquista della Palestina, riconoscimento dello Stato di Israele) mostra di accettare, come minore dei mali, i punti del piano Reagan. Per Arafat, coerente esponente della borghesia palestinese, la somma delle sconfitte diplomatiche, oltre che militari, subite non solo dal nemico sionista ma anche dalla stessa borghesia araba, è tale da far sembrare giunto il momento di uscire dalla falsa tutela panarabica per assumere quella statunitense.

Tutto sommato uno stato ghetto in Cisgiordania per i finanzieri e i commercianti palestinesi, pur non essendo un gran che, potrebbe essere, se non altro, un buon punto di partenza, poi si vedrà.

L'unica riserva: l'autonomia politica effettiva e non la tutela di re Hussein. E se soluzione negoziata deve essere, meglio accordarsi con gli USA che rincorrere improbabili sostenitori nel o fuori dal Medio Oriente. Una simile prospettiva, ancora tutta da giocare, può andare bene ad Arafat, alla parte capitolarda della borghesia palestinese, non a quella più radicale né al popolo palestinese che in Cisgiordania si sentirebbe come in una riserva indiana senza nemmeno il beneficio dei finanziamenti statali. Ma soprattutto il gioco americano non sta bene né a Damasco né a Mosca. La rottura dell'OLP, consumatasi con il fuoco delle armi nella battaglia di Tripoli tra i cosiddetti lealisti e i radicali di Abu Mussa e compagni, voluta ed ottenuta dalla Siria, è sì un colpo diretto all'OLP, alle ambizioni giordane, ma anche un avvertimento alla diplomazia americana.

E se il "piccolo" Assad riesce ad esprimersi a simili livelli è perché il suo esercito è stato completamente riarmato dai sovietici, missili compresi, e perché ogni sua mossa politica è preventivamente discussa ed approvata a Mosca. Anche in questo caso l'asse Damasco-Mosca, benché non sia riuscito a soppiantare del tutto quello di Washington-Tel Aviv, ha guadagnato importanti posizioni.

Quindi la destabilizzazione nell'area mediorientale e, per estensione, nel basso Mediterraneo, è sì un dato di fatto ma le sue centrali non vanno ricercate nella disperazione di alcuni commando palestinesi, bensì nelle frizioni imperialistiche che hanno trasformato la zona in terreno di confronto, amministrando al meglio, per il momento, le gravi e contraddittorie situazioni interne.

La questione palestinese

Anche in questo caso sarebbe riduttivo inquadrare la questione palestinese all'interno del solo rapporto tra il sionismo ed il popolo palestinese, in una sorta di atipica guerra di liberazione nazionale, senza estendere l'analisi al ruolo che l'imperialismo americano ha giocato all'epoca della nascita dello Stato di Israele e che ancora oggi gioca sulla testa di Arafat e sulla pelle di milioni di proletari e sottoproletari palestinesi.

Quando il 14-5-1948, su mandato delle Nazioni Unite, si materializza il sogno sionista, premessa e condizione della diaspora palestinese e di tensioni in tutta l'area tra lo stato ebraico ed il restante mondo arabo, nasce contemporaneamente la possibilità da parte dell'imperialismo americano di aprirsi la strada nello scacchiere mediorientale, di rilevante importanza da un punto di vista strategico oltre che economico-commerciale.

Per l'imperialismo americano entrare in Medio Oriente significava innanzitutto favorire l'allontanamento del vecchio imperialismo anglo-francese, dominatore da sempre nella zona.

In seconda battuta, occorreva aggirare la diffidenza araba che nel momento del suo riscatto nazionalistico non voleva correre il rischio di uscire dalla "tutela" dei vecchi padroni per sopportarne un'altra anche se sotto una nuova e più sofisticata forma.

L'unica strada percorribile rimaneva quella di violentare la neo-nata realtà mediorientale favorendo, se non addirittura imponendo, l'inserimento di un "corpo" estraneo, completamente dipendente, tanto più bisognoso di aiuti e di appoggi quanto maggiore era l'inevitabile isolamento economico e il pericolo di aggressione militare da parte del mondo arabo.

Chi allora ha gridato al miracolo, chi ha creduto di vedere nella nascita dello Stato di Israele la logica conclusione della lotta nazionalistica di un popolo da secoli in cerca della "propria" terra, chi ha esaltato come fondamentali e determinanti le spinte volontaristiche dei discendenti di Davide, ha commesso il grossolano errore di confondere alcune componenti, anche se importanti, con la causa prima.

Al popolo ebraico non sarebbero bastati volontà, determinazione, astuzia diplomatica e la tragedia di 6 milioni di morti nei campi di concentramento nazisti, se non ci fosse stato un interesse imperialistico il cui peso, gettato sulla bilancia, facesse pendere il piatto verso le istanze sioniste. Dell'imperialismo si può dire tutto ma non che sia una associazione umanitaria dedita al sostegno delle minoranze religiose e nazionali, una specie di succursale dell'Opera Pia Bonomelli.

L'amministrazione americana di allora ben valutò l'opportunità di inserirsi in quell'area, ricca della più importante materia prima, sia per uso energetico che per processi di derivazione industriale, e militarmente fondamentale per il controllo del basso Mediterraneo e attraverso il Golfo Persico dell'Oceano Indiano. Entrare nell'area avrebbe potuto consentire, in tempi più o meno lunghi:

  1. amministrare o quantomeno condizionare l'estrazione e la commercializzazione del petrolio;
  2. trasformare i punti di rilievo strategico in basi operative militari;
  3. usufruire del nuovo mercato come sbocco delle eccedenze produttive e di capitali finanziari;
  4. e non ultima, la necessità di non consentire all'imperialismo sovietico di fare altrettanto, battendolo sul tempo.

In questo clima di ambizioni nazionalistiche e di prospettive imperialistiche nasce il "sodalizio" ebraico-americano. Così come i sionisti avevano bisogno che una grande potenza patrocinasse, finanziasse e difendesse l'idea di uno stato ebraico, così per il capitale americano la nascita dello Stato di Israele era la necessaria chiave di ingresso in Medio Oriente, il primo indispensabile passo verso un'area che lo aveva visto sempre escluso.

Già dal 1943 il governo americano, attraverso l'Agenzia Ebraica, la cui sede era a New York, aveva iniziato ad inviare in Palestina capitale finanziario e armi, in modo che i militanti sionisti potessero contemporaneamente combattere contro gli ex-alleati inglesi ed i nazionalisti arabi al fine, ormai dichiarato, di creare le condizioni più favorevoli perché alla fine della guerra la discussione sulla nascita dello stato ebraico avesse una base di una certa consistenza materiale, conquistata con la forza delle armi.

A guerra conclusa, con lo sfaldarsi delle residue presenze anglo-francesi, la diplomazia americana propose ed impose che ai sionisti venisse riconosciuta la legittimità della loro ambizione nazionalistica.

Il secondo passo fu quello di consentire ad uno Stato nato sulla carta di sopravvivere all'accerchiamento militare ed economico del mondo arabo e, contemporaneamente, di stabilire tutti quei meccanismi di condizionamento e di ricatto politico atti a trasformare il neonato Stato di Israele in un fedele quanto obbligato alleato della politica estera americana in Medio Oriente. Una specie di estensione del piano Marshall con un enorme esborso di capitale finanziario ed una proporzionale leva di pressione. Solo tra il 1950 e il 1968 Israele ha ricevuto dagli USA, a titolo di "aiuto", 15 miliardi di dollari. Sempre nello stesso periodo il governo di Washington ha favorito investimenti americani privati in Israele, concedendo ai propri operatori economici facilitazioni e sgravi fiscali per un ammontare di 25 miliardi di dollari. In più, i "buoni uffici" americani hanno consentito alle casse del governo di Tel Aviv di entrare in possesso tra il 1952 e il 1965 di 862 milioni di dollari pagati dalla Germania, sotto forma di risarcimento morale, e di usufruire di un prestito di 40 milioni di dollari all'incredibile tasso di interesse dell'1% restituibile in 20 anni. Ancora oggi Israele usufruisce di un "aiuto" americano di tre miliardi di dollari l'anno, più foraggiamenti in nero da parte della CIA a seconda delle circostanze politiche interne ed internazionali. In compenso il sionismo è stato costretto a comporre le proprie necessità di sopravvivenza con le ingerenze imperialistiche americane nella zona, ad ergersi a baluardo degli interessi occcidentali in Medio Oriente, a fungere da bastione antisovietico in ogni circostanza che lo richiedesse. Sin dal 1951, l'esercito di "Davide" ha dovuto schierare un simbolico contingente nella guerra di Corea a fianco degli americani. Per ben tre volte nelle tre guerre civili libanesi Israele, dentro o a latere delle forze dell'ONU si è scagliato contro le fazioni musulmane a difesa di un altro baluardo dell'imperialismo occidentale: il governo cristiano-maronita dei vari Shamoun, Frangie e Gemayel. In più la sua endemica lotta contro i palestinesi ha avuto come compito complementare, finché ha potuto, quello di impedire che l'organizzazione per la liberazione della Palestina, o parte di essa, potesse essere agganciata, tramite la Siria, alla sfera di interessi dell'URSS e che, comunque, il tentativo di ingresso dell'imperialismo del Cremlino trovasse nella vigile ed armata presenza dell'esercito di Davide non solo un deterrente psicologico ma anche, o soprattutto, un operante ostacolo con cui fare i conti.

Ciò rende la questione palestinese ancora più tragicamente complessa sia per quanto riguarda le istanze prettamente nazionalistico-borghesi, sia per gli eventuali e futuri tentativi di soluzione rivoluzionaria. Nella attuale fase di decadenza del capitalismo, caratterizzata dalla esasperazione dei conflitti interimperialistici, la questione palestinese non può essere ridotta alla stregua di una qualsiasi lotta di liberazione nazionale degli inizi del secolo, ma vanno tenute in massima considerazione tutte le componenti economiche e strategiche che ne compongono il quadro e che ne fanno un momento di una strategia molto più complessa.

Il comune limite delle forze politiche che si rifanno all'OLP, di quelle radical-dissidenti e dello stesso atteggiamento di alcune organizzazioni "rivoluzionarie" metropolitane, è proprio quello di considerare la questione palestinese solo nella prospettiva nazional-borghese, in quanto unica e possibile, e di praticare quelle tattiche che operativamente consentono un risultato, anche se minimo e rinunciatario, ma concreto ed immediato, lasciando a "un poi si vedrà" la considerazione di altre ipotesi, senza nemmeno sforzarsi di analizzare una prospettiva che esca da questo schema; come se la lotta dei palestinesi non possa essere che nazionale, borghese, fissa nell'angusto ambito dell'antisionismo, come un piccolo mondo a sé stante con una sola piccola soluzione fuori da condizionamenti imperialistici e da prospettive rivoluzionarie.

Il concretismo borghese delle frange di sinistra dell'OLP come di alcune forze "rivoluzionarie" e metropolitane non solo antepone con pragmatico schematismo la soluzione nazionale a quella socialista, non solo scade nel particolare borghese come unico ambito possibile, valutando come velleitario ed utopistico qualsiasi tentativo di un suo superamento, ma è costretto, conseguentemente, ad operare per la prima soluzione contro la seconda senza nemmeno passare attraverso la già compromissoria e comunque controrivoluzionaria tattica del tappismo, tanto cara al democraticismo terzomondista ed al maoismo frontista prima maniera.

Il piano Reagan, l'OLP e il FSN

Una verifica di questo atteggiamento capitolardo e controrivoluzionario la si può trovare nelle reazioni alla proposta americana di soluzione della questione palestienese, meglio conosciuta come piano Reagan. Dopo la cocente sconfitta in Iran e la irrisolta questione libanese, aggravata dal ritiro di Israele dall'alta Galilea, la proposta ha come primo grande scopo quello di consentire alla potenza americana di non perdere ulteriore terreno nell'area mediorientale, riproponendosi in chiave diplomatica come unico punto di riferimento politico sia ai paesi arabi moderati che alle stesse frange palestinesi interne alle strutture dell'OLP.

In più il piano ha l'ambizione di comprare, se non l'allineamento politico, almeno la disponibilità dei palestinesi e dei giordani verso la strategia americana, con un unico piatto di lenticchie rappresentato da quel fazzoletto di terra che è la Cisgiordania, contemporaneamente "Stato palestinese" e territorio giordano; il tutto senza nuocere più di tanto all'alleato israeliano il quale dovrebbe uscire con un pezzo di terra in meno ma con un riconoscimento ufficiale in più. In prospettiva una soluzione monca che coinvolge tutti senza risolvere nulla, un compromesso di difficile praticabilità in cui, eventualmente, a prevalere sarebbe l'interesse politico americano e non certamente le ambizioni nazionalistiche della popolazione palestinese che si vedrebbe ammassata in un territorio ghetto, priva di qualsiasi struttura economica, politicamente non sovrana e per di più sotto la vigile tutela del "poliziotto" Hussein già autore di feroci repressioni nei confronti dei palestinesi.

Ciononostante diverso è l'atteggiamento della borghesia palestinese.

Espressione di interessi prevalentemente finanziario-speculativi non immediatamente legati né al possesso della terra né all'amministrazione di attività imprenditoriali, la borghesia palestinese ha preso in considerazione la "soluzione-non soluzione" del piano Reagan come il minore dei mali e comunque come l'unico ambito possibile entro il quale ottenere un riconoscimento ed un territorio "ufficio" nel quale organizzare meglio i propri obiettivi economici.

Ad Arafat ed al clan finanziario palestinese quattro sconfitte arabe in altrettante guerre contro Israele, l'ambiguità della stessa lega araba, ma soprattutto l'empirica osservazione che in Medio Oriente come altrove o si è all'interno di un blocco politico oppure si è fuori dai giochi, hanno insegnato che è meglio un compromesso patrocinato dall'imperialismo americano che una rivendicazione nazionalistica radicale autonoma.

Certamente la strada è ancora lunga e molto articolata la sua praticabilità, ma altrettanto certamente l'OLP di Arafat non perseguirà più il vecchio programma dì Al Fatah del 1956 dove si rivendicava la nascita di uno stato palestinese sulle macerie di quello sionista, contro la risoluzione dell'ONU del 1947, contro ogni accettazione di fatto e di diritto di Israele, per uno stato libero, unificato, laico, democratico e progressista.

Oggi nei programmi dell'OLP, nel quadro della ridicola proposta americana, c'è il "programma minimo" di uno staterello incastrato tra Israele e Giordania, ghetto di disperazione per milioni di diseredati, una sorta di grande campo profughi, uno dei tanti nella storia del popolo palestinese.

Le uniche riserve sono fornite dalla rivendicazione che il futuro Stato sia politicamente sovrano e non autonomo solo da un punto di vista amministrativo e che nella fase delle trattative l'OLP sia considerata a tutti gli effetti l'unica parte rappresentativa degli interessi del popolo palestinese.

Non molto per chi ha dovuto rinunciare alla riconquista totale del proprio territorio, per chi accetta l'esistenza di diritto dello stato sionista, per chi, per un piatto di lenticchie, entra come merce di scambio nei piani dell'imperialismo americano.

In questo gioco c'è spazio per l'America, un piccolo spazio per la borghesia palestinese ma nessun concreto interesse per i proletari ed i sottoproletari palestinesi che di tutto ciò sono ancora le vittime su cui speculare e su cui scaricare le presunte responsabilità della destabilizzazione.

Per chi è abituato a marcire nei campi profughi sparsi in tutto il Medio Oriente, per chi è costretto a mendicare sopravvivenza lontano dalla propria terra, per chi è trattato come un animale, è molto facile cadere nel tranello di una borghesia che promette una patria, magari non con la P maiuscola, solo mercanteggiata, ma pur sempre una patria. Ed ancora più facile è trasformare centinaia di migliaia di diseredati in combattenti se a dare l'esempio della militanza è la stessa borghesia con i suoi quadri migliori. Ma proprio qui sta l'inganno che per il momento stordisce i proletari palestinesi e gli pseudo rivoluzionari metropolitani, sempre pronti ad inseguire l'obiettivo più vicino (concreto) perdendo di vista prima ed abbandonando poi ogni sforzo di lavoro preparatorio in senso rivoluzionario. Oggi in Palestina come in qualsiasi angolo sperduto del mercato capitalistico non esistono terreni comuni tra proletariato e borghesia, non valgono alleanze più o meno strumentali, nemmeno in presenza di una lotta nazionale che abbia come primo (unico aggiungeremmo noi) obiettivo l'instaurazione di un governo borghese anche se "laico", "democratico" e "progressista" .

Che cosa è l'OLP?

Quando si dice che l'OLP è l'espressione militante, organizzata e politica degli interessi della borghesia palestinese si definiscono i contorni reali di un fenomeno ma non la sua intensità. Affermato ciò non è che cambi qualcosa sul ruolo e le funzioni di questa organizzazione, ma troppo spesso i "critici" difensori dell'OLP sottacciono il tipo di borghesia che tiene le fila della maggiore organizzazione per la liberazione della Palestina e di quale cinico gioco sia interprete nei confronti del suo proletariato.

Il peso politico di Arafat, messo in discussione più volte, persino con le armi come nella battaglia di Tripoli, non solo non è mai crollato ma ancora oggi è direttamente proporzionale al suo ruolo di amministratore e procacciatore di capitali. Da anni l'OLP, tramite la sua persona, riceve dai paesi della Lega Araba qualcosa come trecento milioni di dollari annui. In più tra i palestinesi benestanti della diaspora e tra i lavoratori dispersi ai quattro angoli del Medio oriente, operando direttamente sui salari (mediamente il 5% della busta paga) Arafat riesce a rastrellare un altro centinaio di milioni di dollari. Questa sua indubbia capacità che lo innalza a leader politico nel momento in cui è sempre il punto di passaggio obbligato dell'afflusso di ingenti quantità di capitale è anche confortata da un atteggiamento politico conforme alle aspettative di chi tira fuori così tanti soldi. Per i borghesi palestinesi il programma politico di Arafat, sia nell'antica versione integrale che in quella capitolarda imposta da Washington, è comunque un punto di riferimento affidabile, un argine al radicalismo avventuriero e, perché no, alle sempre possibili montate rivoluzionarie.

In altri termini il programma dell' OLP nella gestione di Arafat non è soltanto l'espressione politica degli interessi della borghesia palestinese ma è contemporaneamente l'argine a qualsiasi movimento proletario che abbia come scopo immediato l'autonomia politica ed organizzativa ed in prospettiva la rivoluzione classista al posto della costruzione di uno stato borghese. Per le monarchie assolute del Medio Oriente e per gli Emirati del Golfo, Arafat e la sua linea moderata sono la garanzia che la lotta per la liberazione della Palestina non esca dagli steccati del nazionalismo borghese e non sia un momento di radicalizzazione politica per le masse proletarie medio orientali. Solo così è possibile spiegare come ancora oggi, in mezzo ad infinite contraddizioni e in un clima di devastante tensione nell'area a più alto rischio del mondo, Arafat e la sua organizzazione possano pompare tanto capitale sia all'interno che all'esterno.

Solo in questi termini si compendia adeguatamente l'aggettivo borghese che qualifica l'OLP. Questa organizzazione è borghese non solo perché per tattiche e finalità persegue un obiettivo nazionalistico ma anche perché l'agganciare su questa linea le masse sfruttate e disperse, i proletari e i sottoproletari, significa distogliere immense tensioni di rabbia e disperazione da obiettivi rivoluzionari incompatibili con qualsiasi programma borghese. Un motivo in più per concedere fiducia e mezzi finanziari.

Coerentemente con l'ideologia e le finalità, Arafat fa un uso oculato di quelle sovvenzioni. Una parte viene destinata all'organizzazione militare, all'acquisto di armi, alla sfera logistica e di rappresentanza diplomatica, un'altra parte, minima, è devoluta all'assistenza sociale delle famiglie dei guerriglieri, il grosso va agli investimenti produttivi e soprattutto alle attività speculative.

Tramite l'OLP, la borghesia finanziaria palestinese già possedeva sino al 1976 la banca INTRA, terza banca per importanza e volume di affari in Libano. Oggi possiede l'ARAB BANK con sede ad Amman e venti filiali sparse in.tutto il mondo, Europa e Stati Uniti compresi. In Giordania circa il 60% dell'economia nazionale è nelle mani dell'OLP sotto forma di gestione diretta o mediata di aziende agricole, piccole e medie imprese e soprattutto istituti di credito, assicurazioni e compagnie di trasporto. Prima della battaglia di Tripoli, anche in Libano gli interessi della borghesia palestinese erano enormi, orientati particolarmente nel settore bancario e speculativo. A parte questi due paesi gli interessi palestinesi si dilatano in tutta la zona mediorientale. Nelle mani dell'OLP e delle sue finanziarie entrano ed escono quote azionarie di alcune imprese petrolifere del Golfo.

Non c'è da meravigliarsi come questa borghesia, condizionata dagli avvenimenti, costretta a gestirsi senza un punto di riferimento fisso, amministri i propri interessi più come un grande rentier che come imprenditore e che usi la non irrilevante quota di 400 milioni di dollari l'anno ai fini di una oculata quanto parassitaria valorizzazione del capitale, relegando nelle "varie ed eventuali" le spese per l'organizzazione militare.

Ecco perché, tutto sommato, questa borghesia finanziaria, forte economicamente, ma debole politicamente, che in cima alle proprie preoccupazioni ha l'estorsione del profitto, indipendentemente da dove venga prodotto, e l'interesse bancario, comunque venga utilizzato, non si muove certamente per risolvere, anche se in senso borghese, le condizioni miserande di vita di milioni di palestinesi. Ecco perché, tutto sommato, ad un pugno di rentiers e di speculatori può star bene anche uno stato "ufficio" dove meglio tessere la trama dei propri interessi senza elemosinare ospitalità comunque precarie. Un'organizzazione che difende una simile classe con questi interessi non solo non lascia spazio ad istanze rivoluzionarie "astutamente" infiltrate ma è la tomba di qualsiasi esperienza politica di classe sia nell'immediato che nel futuro.

Ma c'è un "esterno" dell'OLP, un ambiente politico palestinese che ha preso le distanze con l'organizzazione di Arafat, una rottura consumata con il fuoco delle armi oltre che con la polemica politica. Di questo "ambiente esterno" organizzatosi nel Fronte di Salvezza Nazionale capeggiato dai vari Abu Mussa, Abu Nidal, Ahmed Ibril, Habbash e compagnia, fanno parte tutte quelle micro-organizzazioni ostili alla capitolazione di Arafat e al suo progressivo avvicinamento alle condizioni della "pax americana". L'accusa è quella di aver svenduto la causa palestinese all'imperialismo americano, di aver rinunciato all'integrità del vecchio programma e, non ultimo, di riconoscere l'esistenza di fatto e di diritto dello Stato di Israele.

Accusa certamente pesante, apportatrice di implicazioni tattiche e strategiche di grande rilievo politico, ma pur sempre all'interno di una visione nazionalistico-borghese.

La "filosofia" che sorregge la precaria struttura del FSN si ispira alle variegate espressioni dell'idealismo populista, mutuato di volta in volta da atteggiamenti politici vetero-stalinisti, vetero-maoisti, islamico-non integralisti e social-riformisti. Un ventaglio di posizioni di difficile composizione che hanno nel programma radi-cal borghese l'elemento catalizzatore ed unificante. Accanto al "socialista" Hawatmeh del FDCP c'è il nazionalista Abu Mussa, segretario di Al Fatah Comando Generale, l'islamico progressista Abdel Hamid, una serie di personaggi politici, gruppi e gruppetti allineati su tre obiettivi:

  1. lotta senza quartiere all'OLP di Arafat e suo sconfessamento come unico rappresentante del popolo palestinese;
  2. riproposizione dell'integralità del vecchio programma che prevede la liberazione della Palestina solo ed esclusivamente attraverso la lotta armata e la distruzione dello Stato di Israele (corollari: nessun compromesso con il sionismo, nessuna riconquista parziale del territorio, nessuna via negoziale per la questione palestinese);
  3. ricerca di alleanze con i paesi "socialisti" attraverso il canale Damasco-Mosca come condizione necessaria alla creazione di una cornice diplomatica e politica favorente la lotta contro il sionismo e l'imperialismo americano.

Tre condizioni che se ingigantiscono le divergenze tattiche e di campo con l'OLP di Arafat, non spostano minimamente la questione dal terreno borghese. Programma "minimo" o programma "massimo", integralità o parzialità della rivendicazione nazionalistica, lotta armata o negoziale si rimane sempre e comunque all'interno di una prospettiva nazionalistica e borghese.

Il FSN non rimprovera al "rinnegato" Arafat di essere lo strumento della borghesia finanziaria, non lo accusa di cattiva amministrazione manageriale dei capitali palestinesi, o di non perseguire una soluzione rivoluzionaria prima di quella nazionalistica, ma di aver abbassato la guardia e di aver accettato il confronto negoziale sotto il patrocinio americano.

La controparte è rappresentata dalla prosecuzione della lotta armata, con l'orientamento verso l'altro polo dell'imperialismo.

Fermo restando l'approccio nazionalistico borghese, ciò che differenzia l'OLP dal FSN è che la prima organizzazione pur di dare concretezza al proprio muoversi è disposta ad entrare più o meno direttamente nei giochi dell'imperialismo americano, magari solo come merce di scambio, per la seconda l'appoggio militare e diplomatico dell'URSS tramite la Siria è l'unica prospettiva politica concretamente praticabile.

Ancora una volta è verificata la legge secondo la quale nella fase di decadenza del capitalismo per le aspirazioni nazionalistiche borghesi la scelta di campo imperialistica è una condizione obbligata che ammette rarissime eccezioni.

In entrambi i casi, sia che si ricerchi un accordo negoziale con Israele sotto il patrocinio dell'imperialismo americano, sia che si invochi l'aiuto della Siria con la conseguente copertura sovietica, il risultato è lo stesso: condizionamento delle stesse istanze borghesi nazionalistiche e annichilimento di qualsiasi anelito rivoluzionario. Per chi si illude, nel caso dell'OLP, che la politica capitolarda di Arafat serva a strumentalizzare la più possente delle centrali imperialistiche, è sufficiente uno sguardo alla politica americana dal 1945 ad oggi in Medio Oriente come in Centro America, per capire che le cose vanno esattamente nel senso opposto. Mentre per gli idealisti di ogni risma, convinti del ruolo progressita della Siria, il richiamo va alla guerra civile libanese del 1975-76 conclusasi con la strage di migliaia di palestinesi e di proletari libanesi nella battaglia di Tel Al Zatar.

Il regime di Assad non è certamente meno reazionario e sanguinario di Hussein di Giordania, né le sue ambizioni mini-imperialistiche nella zona sono seconde a nessuno. I rapporti con l'URSS servono solo a rafforzare il proprio ruolo nell'area aprendo contemporaneamente spazi alle ambizioni imperialistiche del Cremlino.

La via rivoluzionaria

Per i proletari ed i diseredati palestinesi, trucidati e ingannati da quasi quarant'anni, esiste solo l'alternativa tra una borghesia "bianca" filo-americana ed una borghesia "rossa" filo-siriana?

La loro disperazione, la loro disponibilità a lottare devono avere come obiettivo solo la questione nazionale nella versione integrale o ridotta, oppure anche per i proletari palestinesi come per i proletari di tutto il Medio Oriente esiste la necessità di perseguire una soluzione di classe rivoluzionaria?

Premesso che, pur rimanendo nella prospettiva controrivoluzionaria di una soluzione borghese e nazionalistica, quella perseguita dall'OLP non è una soluzione e non è degna nemmeno di essere presa in considerazione, e che quella perseguita dal FSN è irrealizzabile, tenuto conto degli attuali rapporti di forza sia in Medio Oriente che su scala internazionale, perseguire oggi la liberazione della Palestina sulla base della distruzione dello Stato di Israele, significherebbe sconfiggere in zona, su tutta la linea, la presenza dell'imperialismo americano, cosa alquanto difficile e comunque da risolversi, eventualmente, nel corso di un terzo conflitto mondiale e non certamente con una lotta di rivendicazione nazionale. Gli USA non acconsentirebbero mai alla distruzione dello Stato di Israele, tanto più se dietro gli ipotetici esecutori di una simile, quanto improbabile operazione bellica, si nasconde l'ombra dell'imperialismo sovietico. Solo un conflitto generalizzato che vedesse lo scontro diretto tra le due centrali imperialiste potrebbe creare l'opportunità per il raggiungimento di un simile obiettivo. Ed è proprio qui che si manifesta l'ulteriore debolezza della tesi di quei pseudo-rivoluzionari "concretisti" che, ritenendo vano qualsiasi sforzo per una futura soluzione rivoluzionaria, si accodano, più o meno critici, al lealismo di Arafat o al ribellismo di Abu Mussa e compagni.

Verificato quantomeno che per la soluzione rivoluzionaria come per quella borghese oggi in Medio Oriente, dati gli attuali rapporti di forza, le prospettive a breve periodo sono poco confortanti e che il tutto va fatalmente proiettato in una prospettiva a più lungo termine non esclusa l'eventualità di una guerra mondiale o comunque di gravi avvenimenti bellici nella zona, quale è, a partire da subito, il ruolo dei rivoluzionari? Inseguire sempre e comunque una soluzione nazionale, anche come risposta alla guerra imperialista, oppure iniziare a muovere i primi passi, anche se lentamente e faticosamente, verso una prospettiva rivoluzionaria?

All'analisi secondo la quale nei paesi periferici, caratterizzati da un'economia di sottosviluppo, da forme istituzionali reazionarie e da un'arretrata coscienza di classe, non può essere posta all'ordine del giorno la rivoluzione proletaria, ma solo quella nazionalistica o, nel migliore dei casi, una sorta di rivoluzione ininterrotta che abbia nella conquista nazionalistica prima e nella creazione di una repubblica democratico-rivoluzionaria poi le tappe obbligate per la stessa rivoluzione proletaria, va risposto che simili posizioni giustificate da aggettivazioni quali: duttili, tattiche concrete e non avventuristiche, costituiscono nei fatti un modo di esprimersi della controrivoluzione.

Dato fondamentale sul piano dell'analisi è che con tutta la loro arretratezza e con i complessi problemi di composizione sociale, i paesi periferici sono comunque una parte integrante del mercato capitalistico mondiale e la loro situazione di sub-sviluppo è una delle condizioni del privilegio economico dell'area industrializzata. Il fatto di essere, all'interno del mercato mondiale, contemporaneamente oggetto e soggetto di sfruttamento, non conferisce alle loro borghesie (sia rivoluzionarie che progressiste), un ruolo diverso sullo specifico terreno della conservazione, né tantomeno esime i vari proletari dal perseguire una prospettiva politica di classe, autonoma ed inconciliabile con qualsiasi istanza borghese. La stessa crisi economica, partita dalla centrale economico-finanziaria del mondo capitalistico (USA), nella circolarità del suo manifestarsi ha finito con lo scaricarsi prevalentemente proprio sulle aree più deboli. Non è un caso che oggi, nel momento in cui si favoleggia una presunta ripresa economica negli USA come in Europa ed in Giappone, nel resto del mercato mondiale (dall'Asia all'Africa, in Sud America come in Medio Oriente) si verifichino le devastanti conseguenze della crisi. Come non è un caso che i maggiori focolai di tensione sociale si manifestino proprio in queste aree esaperando i già gravi problemi interni, favorendo come in Medio Oriente guerre tra stati (Iran-Iraq), guerre civili (Libano) e radicalizzando una atipica guerra di liberazione nazionale come quella palestinese. Tutto ciò in attesa che una guerra imperialistica più generalizzata possa fungere da "soluzione" borghese alla crisi del capitalismo decadente.

Così come la crisi, nel suo processo di circolarità, ha permeato di volta in volta e successivamente tutte le aree del mercato capitalistico mondiale; così come oggi l'imperialismo sembra maturo per tentare di uscire dalla crisi con la prova di forza di una guerra mondiale i cui accenni vanno progressivamente ingigantendosi, così il proletariato mondiale - in qualsiasi angolo del mercato si trovi, con qualsiasi borghesia si trovi a fare i conti o da qualsiasi situazione concreta sia costretto a partire - o si sforza di perseguire una soluzione rivoluzionaria in sintonia con le avanguardie rivoluzionarie internazionali, oppure, al seguito degli interessi nazionali della propria borghesia, con la propria borghesia al seguito dell'uno o dell'altro fronte dell'imperialismo, sarà la solita carne da cannone.

Il drammatico problema, oggi, per i rivoluzionari in generale e per quelle sparute avanguardie che si trovassero a fare i conti con quelle realtà sociali inserite a tutti gli effetti nel grande gioco della crisi mondiale, non è quello di come e quando porre la questione rivoluzionaria, o peggio ancora di soprassedere ad ogni sforzo sino a quando non sia compiuta la fase nazionalistica, ma di marciare verso una risposta di classe con l'assoluta autonomia da ogni sorta di condizionamento borghese. Questo è l'imperativo oggi in Medio Oriente, nelle aree cosiddette periferiche come nei paesi avanzati.

Se dall'osservazione empirica dei fatti e degli attuali rapporti di forza si rivela la mancanza di veri e propri partiti rivoluzionari e si constata una sconfortante arretratezza di coscienza politica (cosa peraltro tipica non soltanto del proletariato mediorientale) ciò non può far concludere che si debba rinunciare al perseguimento di una soluzione rivoluzionaria, con le conseguenti elaborazioni tattiche di tappe intermedie, ma, a maggior ragione, deve trasformarsi in uno sforzo aggiuntivo per creare oggi tutte quelle premesse possibili perché domani la risposta proletaria sia in senso rivoluzionario e non sia, ancora una volta, assorbita all'interno delle variegate istanze borghesi.

Che lo si voglia o no i tempi per un conflitto bellico generalizzato, o il dilatarsi delle zone belliche a rilevante importanza strategica per l'imperialismo decadente, maturano paurosamente. L'eventualità di una drastica, violenta ridistribuzione del mercato e delle fonti di approvvigionamento della materie prime, con il funereo corollario della distruzione dei mezzi di produzione e di vite umane non è solo un approccio metodologico di analisi della realtà capitalistica, o un caso di studio, ma una eventualità a cui il proletariato mondiale deve prepararsi. La crisi economica e la tendenza alla guerra è all'interno di tutto il mercato capitalistico e da qualsiasi suo punto può e deve partire una risposta proletaria. Chi, accecato dalla contingenza dei fenomeni, chiuso a tal punto nel particolare da perdere il quadro generale della situazione, nel guano di una crisi che di giorno in giorno propone la soluzione imperialistica della guerra, insegue idealisticamente programmi borghesi e nazionalistici come necessari trampolini di lancio di una successiva soluzione rivoluzionaria, aggrappandosi all'arretratezza e all'immaturità dei paesi periferici, si pone obiettivamente dall'altra parte della barricata. In altri termini muoversi verso questa soluzione "tattica" significa soltanto preparare il terreno alla sconfitta.

Ecco perché per il proletariato e per i milioni di diseredati palestinesi l'alternativa non può essere quella proposta dall'una o dall'altra ala della borghesia a loro volta divise sui fronti dell'imperialismo, ma l'unica strada per-corribile è quella che passa attraverso l'autonomia politica ed organizzativa, l'alleanza con i proletari medio-orientali, non escluso quello israeliano, perché la risposta immediata ai loro problemi e quella futura alla guerra imperialistica sia la rivoluzione proletaria e non la sua negazione: la via nazional-democratica.

L'autonomia organizzativa è la precondizione alla più importante autonomia politica. In questo senso è escluso qualsiasi giochino "entrista" che finirebbe per annichilire anche quelle sparute minoranze rivoluzionarie che faticosamente resistono sull'argine classista.

Il vecchio opportunistico atteggiamento, in base al quale i rivoluzionari, in situazioni di debolezza, dovrebbero aderire organizzativamente e tatticamente agli organismi borghesi, aggravato dalla constatazione che lì e solo lì trovano un punto di riferimento politico le masse, è palesemente perdente.

Affermare che l'OLP o il FSN sono organismi borghesi ma che allo stato attuale delle cose non c'è altra alternativa e che per lo stesso proletariato palestinese l'unica prospettiva praticabile è quella nazionalistica, significa non solo accodarsi ai programmi borghesi, ma anche distruggere o quantomeno non creare la prima premessa per una futura trascrescenza rivoluzionaria.

Al contrario, proprio perché le masse, nella loro stragrande maggioranza sono agganciate agli interessi borghesi, occorre concentrare tutti gli sforzi per costruire l'altro polo di riferimento politico, che lavorando fuori e contro le organizzazioni borghesi possa spostare l'orientamento delle masse. Rinunciare a questo elementare principio comunista, significa rinunciare a creare le minime condizioni alla ripresa della lotta in senso classista. Ma per operare in questa direzione occorre innanzitutto rivendicare una autonomia organizzativa, una tattica e una strategia di classe, ovvero un partito ed un programma rivoluzionari.

Se di alleanza è necessario parlare questa non va teorizzata né tantomeno praticata con nessuna delle forze borghesi ma con gli altri settori del proletariato e delle masse sfruttate medio-orientali.

Se è vero che le condizioni di esistenza della forza lavoro palestinese ha delle caratteristiche del tutto particolari dovute alla necessità di continui spostamenti nell'area del mercato medio-orientale, è anche vero che, sebbene in misura minore, questo aspetto delle pendolarietà colpisce anche il proletariato giordano, egiziano, siriano e prima dello scoppio della guerra, quello iracheno ed iraniano.

In più va aggiunto che là dove cessa la condizione di pendolarità per forme di prestazione lavorativa fissa, meglio ancora si presenta l'opportunità di stabilire alleanze di classe, rapporti politici e maturare affinità tattiche e strategiche. Ciò non solo in funzione di una aleatoria solidarietà di classe, ma soprattutto come necessaria condizione di una ripresa della coscienza rivoluzionaria sia tra le fila del proletariato palestinese che del proletariato medio-orientale. Accanto all'autonomia organizzativa e all'indipendenza politica la quotidiana fatica della ricerca di alleanze con il restante settore del proletariato medio-orientale si pone da un punto di vista tattico come duplice obiettivo: quello di amalgamare su prospettive rivoluzionarie le varie e molto spesso contraddittorie istanze del proletariato dell'area, e quello di sottrarre all'influenza delle borghesie locali milioni di sfruttati ancora soggetti alle ideologie nazionalistiche, democratiche rivoluzionarie, progressiste o teocratiche. Ma la condizione perché la seconda istanza si possa verificare è che la prima condizione prenda corpo. Ovvero, mancando o rinunciando a costruire un punto di riferimento comunista, ogni sforzo di spostare le masse dal terreno borghese verso obiettivi classisti, rimane pura utopia, sul piano delle intenzioni, atteggiamento opportunista, nella pratica politica.

Al solito rinunciatario ed opportunistico "concretismo" va ricordato come la tanto "difficile e utopistica" via rivoluzionaria che passa attraverso l'alleanza di classe tra i vari proletariati della zona, sia già stata praticata sia in Giordania prima della feroce repressione del "Settembre nero" sia nella seconda guerra civile libanese del 1975-76 culminata con la battaglia di Tell Al Zatar. In entrambi i casi le masse combattenti palestinesi sono scese in campo politicamente e militarmente con i proletari giordani e libanesi in una sorte di fronte comune di classe. Questa è l'unica via che i rivoluzionari devono sforzarsi di percorrere, tenendo ben presente però che questa alleanza di classe non deve assolutamente ripercorrere, come negli episodi citati, l'errore di esprimersi, ancora una volta, all'interno della logica palestinese, per un governo democratico, progressista, ma contro qualsiasi borghesia, comunque camuffata, per la sola forma di governo possibile: la dittatura del proletariato.

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.