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Home ›Sintesi della relazione politica generale
Nell'affrontare da un punto di vista generale gli aspetti più salienti della crisi economica, dell'inasprirsi della guerra commerciale come trampolino di lancio della guerra aperta, del muoversi strategico dei maggiori centri dell'imperialismo nei punti nevralgici dello scacchiere internazionale, del livello della lotta di classe in rapporto agli stimoli della crisi economica, come del ruolo dei rivoluzionari oggi, la relazione politica ha preso le mosse dalla presunta crisi del marxismo.
La borghesia internazionale, sotto qualsiasi latitudine, ma in modo particolare quella direttamente impegnata a riprendere fiato e consistenza in quelle politiche economiche atte a farla rimanere a galla nel difficilmente navigabile mare della competitività, ha accentuato il suo attacco preventivo contro la classe operaia, cercando di cantare il "de profundis" del marxismo, sia in sede ideologica che pratica.
Gli spunti non mancano. Dalla crisi di identità dei paesi del cosiddetto socialismo reale, agli episodi dell'Afghanistan e della Polonia, l'attacco borghese ha tratto lo spunto per minare, in sede polemica, le basi del marxismo rivoluzionario.
Se questo è socialismo, si denuncia, non solo non è riuscito a raggiungere gli obiettivi che storicamente si era posto: uguaglianza sociale, libertà individuale, una organizzazione della produzione e della distribuzione più confacente agli interessi sociali, ma ha mostrato di essere, al suo interno come nei rapporti con altri paesi, oppressivo e reazionario al pari, se non peggio, del tradizionale imperialismo.
In seconda battuta, ma forte di simili acquisizioni, l'attacco si dilata, tenta di prendere consistenza ideologica, sino a confutare al marxismo l'endemicità delle crisi economiche ed il ruolo rivoluzionario della classe operaia. Questo secondo attacco, la borghesia ha consentito che fosse sferrato da quei transfughi del comunismo (ammesso che comunisti lo siano stati) e che per primi hanno subito gli effetti del "riflusso" ideologico, che da qualche anno ammorba i resti di un'esperienza politica nata nel sessantotto, su basi piccolo-borghesi,e che oggi è approdata la dove la sua origine imponeva.
Su questi aspetti la "rivisitazione" del marxismo concluderebbe che le crisi economiche, pur ripresentandosi come fattore di disequilibrio sociale, possono essere amministrate e quindi superate all'interno del sistema che le ha prodotte e che il proletariato ha cessato da tempo di esprimere una potenzialità rivoluzionaria sia come classe, sia come antitesi sociale e storica del rapporto capitale-lavoro.
Anche se è evidente l'aspetto strumentale, aggravato dal tentativo da parte della borghesia di aggirare i motivi della propria crisi economica e sociale, proponendo come oggetto di discussione e di riesame la presunta crisi dei valori del marxismo, va osservato che:
- il metodo d'indagine marxista rimane nell'arco storico del capitalismo l'unico punto di riferimento valido alle esigenze della lotta di classe sia nel breve periodo che, in prospettiva, per le soluzioni finali.
- i paesi del "socialismo reale" non hanno rappresentato mai, né da un punto di vista economico-produttivo, né di organizzazione sociale, la realizzazione o la tendenza alla realizzazione di una nuova forma produttiva di tipo socialista. Dopo il fallimento della rivoluzione d'ottobre, tutte le altre esperienze storiche che concretamente si sono realizzate, non hanno fatto altro che adeguare il loro assetto economico e politico alle norme del capitalismo di Stato.
- le crisi del sistema capitalistico, e questa degli anni settanta ne rappresenta una conferma, non possono essere risolte all'interno del sistema stesso, ma soltanto attraverso un processo bellico che, nel momento in cui distrugge, crea le condizioni per un nuovo ciclo di accumulazione.
- la classe operaia, sino a che rimarranno operanti i rapporti di produzione capitalistici, rimane la sola classe capace di rappresentare l'unico elemento sociale soggettivo in grado di operare il superamento rivoluzionario dell'attuale stato di cose.
Se oggi il proletariato, rispetto alla gravità della crisi ed ai colpi subiti dai ripetuti attacchi borghesi, non ha ancora mostrato di essere in grado di rispondere, sta a significare soltanto come il lungo lavoro della controrivoluzione mondiale sia ancora oggi operante all'interno delle coscienze proletarie.
L'aver ceduto per decenni all'opportunismo prima e al controrivoluzionarismo poi dei partiti centristi, l'aver subito il peso del crollo dei miti politici come quello russo e cinese, l'aver visto frustrate aspettative emotivo-politiche come quelle artificiosamente create con la guerra del Vietnam, ha fatto sì di consegnare, all'impatto con questa vasta, devastante crisi economica, un proletariato stanco e disilluso, ma non per questo vinto definitivamente.
La crisi economica
Come espresso nelle tesi del congresso, le caratteristiche economiche di questa crisi hanno i caratteri della permanenza e della irrisolvibilità. È dagli inizi del 1970 che questa crisi progredisce vanificando ogni politica economica ed ogni tentativo di rimedio. Negli ultimi tempi, in tutti i paesi industrializzati è in atto un gigantesco processo di ristrutturazione la cui conseguenza immediata è statisticamente quantificabile in milioni e milioni di disoccupati. Se dovessimo dar credito alle stesse fonti borghesi qualificate, e non abbiamo motivo per non concedere questo credito, entro il 1985 il numero dei disoccupati dovrebbe raggiungere limiti insopportabili. Si parla di 16 milioni solo nei paesi CEE e di quasi 20 milioni negli Stati Uniti.
Parallelamente, nei paesi del terzo mondo ed in quelli in via di sviluppo, si registra un decremento nell'espansione della base produttiva, un progressivo incremento del deficit nella bilancia dei pagamenti con l'estero, il cui livello ha ormai raggiunto vertici mai toccati e la conseguente insolvibilità dei debiti, non fanno altro, accavallandosi, che peggiorare finanziariamente la già precaria situazione di crisi economica.
Anche se a livelli differenti, con alle spalle realtà economiche profondamente diverse per potenzialità e tecnologia, in Germania come negli USA, in Inghilterra come in Argentina, in Italia come in Messico, lo sfascio dell'economia è totale. I lavoratori di tutto il mondo sono chiamati oggi a sopportare il peso delle contraddizioni del sistema produttivo capitalistico mondiale e le difficoltà di valorizzazione del capitale internazionale, a colpi di contenimento dei salari, di diminuzione del loro tenore di vita, di disoccupazione; domani, ormai non molto lontano, saranno chiamati per le stesse ragioni, a sopportare il peso di un nuovo conflitto mondiale.
In sede politico-amministrativa gli effetti della crisi economica si fanno sentire all'interno di quell'ormai collaudatissimo meccanismo di intercambiabilità delle parti, per cui l'alternanza al governo delle varie fazioni sta diventando uno spettacolo politico usuale un po' dappertutto.
Mentre in Spagna i socialisti di Gonzales ricevono il testimone, in Germania il partito socialdemocratico è costretto a cederlo alle forze della democrazia cristiana. Mentre l'Inghilterra, già da tempo, ha operato il cambi della guardia tra laburisti e conservatori, in Francia il partito socialista fa "trionfalmente" il suo ingresso nella stanza dei bottoni dell'Eliseo.
Negli USA, nelle ultime consultazioni, il governo Reagan, ha perso e non poco, in credibilità, anche presso quelle forze che in precedenza lo avevano sempre sostenuto.
Che i governi siano in difficoltà, in fasi storiche come queste, non dipende dalla cattiva politica economica che questa o quella linea impone o propone, ma dalla inamovibilità delle cause strutturali che hanno posto in essere quelle difficoltà economiche che si vogliono combattere.
Crisi: guerre commerciali, guerre strategiche
Più la crisi si aggrava e più si accelerano i processi di scontro commerciale e strategico per vincere la concorrenza economica e per accaparrarsi aree politiche strategicamente importanti, o soltanto per tagliare la strada ai rispettivi concorrenti.
È ciò che oggi sta avvenendo sul mercato internazionale. Ancora una volta, come già nel 1971, è dagli USA che partono, accelerandosi ed ingigantendosi, i segnali e gli effetti della guerra strategico-commerciale.
Gli USA, mentre hanno ripreso una sorta di guerra fredda nei confronti dell'imperialismo russo, sino al punto di paventare una specie di boicottaggio economico e tecnologico, atto, se non ad indebolire, a non rafforzare il nemico di sempre, non lesinano colpi ai loro presunti e reali alleati europei e giapponesi.
Le leggi della concorrenza capitalistica non hanno confini. Se il governo Reagan impone un embargo tecnologico nei confronti della Russia, embargo che dovrebbero pagare Italia, Francia e Germania, si guarda bene dal cessare le esportazioni di grano in Russia: mentre gli USA imprecavano nel 1974 contro i paesi arabi per la questione del petrolio, operavano tramite le multinazionali perché il prezzo del greggio aumentasse, in modo da mettere in ginocchio le economie europee e giapponese e, contemporaneamente, aprirsi la strada all'interno del mondo arabo.
Chiusasi la parentesi del sud-est asiatico, il grande confronto indiretto si è riaperto in Medio Oriente. I recentissimi episodi del Libano, l'indomito espansionismo di Israele, la stessa guerra tra Iran ed Iraq come la spinosa questione palestinese, non sono altro che la punta emergente degli interessi imperialistici, prevalentemente americani, sulle condizioni obiettivamente instabili e politicamente precarie dei paesi arabi.
L'interesse imperialistico non è soltanto di natura economica (petrolio), ma anche strategica. Il Medio Oriente, nonostante, o proprio a causa dei suoi problemi, rimane un punto nevralgico importantissimo sul piano strategico. Si situa geograficamente tra l'Europa l'Asia e l'Africa, confina in alcuni suoi stati con la Russia, e per questo potrebbe essere il primo baluardo antiKremlino in Oriente.
Gli USA, in questo settore, hanno lavorato politicamente e militarmente da anni, sia attraverso Israele, sia attraverso un avvicinamento ai paesi arabi come l'Egitto, l'Arabia Saudita e la Giordania, favorendo in ogni modo l'estromissione della Russia, costretta dagli eventi, ma soprattutto dalle manovre dell'imperialismo americano, a salvare il salvabile con l'occupazione preventiva dell'Afghanistan.
Il Medio Oriente, la sua crisi, le sue vicissitudini interne contro Israele e tra gli stessi stati arabi, non è un accidente storico, non è il frutto del concentrarsi occasionale di tensioni economiche e politiche, ma il prodotto da un lato dell'acuirsi della crisi economica internazionale e dall'altro dell'accelerarsi della concorrenza interimperialistica che trova in questi motivi interni il terreno più favorevole al proprio inserimento.
Non possiamo affermare che il Medio Oriente sarà la causa occasionale per il terzo conflitto mondiale, il cui spettro sembra avvicinarsi sempre più velocemente sull'incalzare degli avvenimenti, possiamo però azzardare che dopo il Medio Oriente non ci sarà più spazio per guerre isolate, contenute all'interno di confini geopolitici ristretti, ma che l'ulteriore aggravarsi della crisi creerà, necessariamente, orizzonti di scontro più larghi e risolutivi.
Ripresa della lotta di classe, Polonia e ruolo dei controrivoluzionari
La crisi politica polacca, figlia anch'essa della grave situazione internazionale, merita alcune considerazioni.
Innanzitutto la situazione polacca mostra come siano presenti ed operanti tutti i termini della verifica storica del marxismo. Condizioni oggettive e radicalizzazione delle lotte operaie trovano nel cuore industriale della vecchia Europa un episodio la cui importanza va al di là di ogni approccio revisionista. Condizioni soggettive a parte, l'episodio mostra non solo come il perdurare di condizioni economiche affamanti sia il motore propulsore dei grandi avvenimenti sociali, e come il proletariato sia costretto, prima o poi, a muoversi sul terreno della lotta, ma anche che al di fuori della classe operaia non ci sono altri soggetti in grado di avere un peso determinante all'interno delle strutture sociali borghesi.
Ma la crisi polacca fornisce un altro grande insegnamento: nessuna crisi economica, anche se profonda e devastante, nessun muoversi del proletariato, anche se radicale e maturo, partoriscono spontaneamente una soluzione rivoluzionaria senza la presenza del partito di classe.
Sugli avvenimenti di Danzica e Stettino, nell'angusto ambito dei gruppi rivoluzionari italiani si è detto e scritto di tutto, troppo. Si è parlato della validità dello spontaneismo della lotta di classe, della necessità irrinunciabile della creazione di nuovi sindacati, anche se non sempre identificati in Solidarnosc, delle forme del neo-sindacalismo come strumento politico di ripresa della lotta di classe, ecc., ma troppo spesso ci si è dimenticati che in Polonia, nei paesi dell'Est come nell'Europa occidentale, lo sforzo principale dei rivoluzionari deve essere quello della costruzione del partito di classe.
La mancanza della guida politica non soltanto priva la lotta della classe operaia del suo strumento principale, ma la espone alle forze della conservazione non necessariamente governative, e quindi all'inevitabile sconfitta (vedi Polonia).
Non sono state poche, invece, le forze politiche e i gruppi che hanno creduto di trarre dalle lezioni della lotta del proletariato polacco, come dal ristagno della lotta di classe in Italia, l'insegnamento secondo il quale, più il livello politico e di disponibilità alla lotta è basso, meno i rivoluzionari devono presentarsi come portatori all'interno delle lotte di obiettivi politici. La giustificazione è tanto semplice quanto disarmante: è perfettamente inutile, se non addirittura dannoso per la prosecuzione della lotta, sforzarsi di proporre obiettivi politici che in qualche modo comprendano o superino l'aspetto economico, quando la classe operaia, muovendosi in altre direzioni e per altri scopi, non è assolutamente in grado di capire.
Secondo questa "intelligente" tesi tattica il compito dei rivoluzionari consisterebbe nell'intensificare le lotte, nel dilatarle, nel concorrere ad inventare organismi di lotta e di difesa economica, senza porre obiettivi politici, altrimenti si correrebbe il rischio di sfasciare tutto.
Codismo, economicismo, sindacalismo e parasindacalismo non sono fenomeni opportunistici nuovi nella storia del movimento operaio, anzi va ricordato come nei momenti di riflusso, o nelle fasi in cui la ripresa della lotta di classe stenta a decollare, l'opportunismo abbia sempre cercato di accorciare la distanza tra avanguardie e masse, rincorrendo gli episodi e creando artificiosamente pseudo organismi di lotta.
La ricostruzione del futuro partito di classe avrà il compito di passare non soltanto sul cadavere delle vecchie stratificazioni controrivoluzionarie, ma anche sulle "innovazioni" tattiche del più recente opportunismo.
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Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.
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IV Serie - Giugno 1983 - Edizione speciale V Congresso
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