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Home ›La disoccupazione una delle componenti della crisi
Senza dubbio la contraddizione più drammatica della società capitalistica per il proletariato è la disoccupazione e nonostante che ad ogni tornata elettorale, ad ogni nuova formazione di governo i clowns del parlamento borghese promettano migliaia di nuovi posti di lavoro, puntualmente la realtà è lì pronta a smentirli. Ma vediamo da vicino la questione per definirla e soprattutto per dimostrare come tale male sia incurabile nell'ambito della esperienza capitalistica e di conseguenza smentire tutte quelle forze dell'opportunismo, a cominciare dal P.C.I., che in un modo o nell'altro sfruttano la faccenda in funzione dei loro meschini programmi elettorali.
Già molti economisti borghesi hanno dimostrato che il livello massimo dell'occupazione della forza lavoro e più in generale dei fattori produttivi non può corrispondere alla piena occupazione, cioè dato un certo numero di lavoratori solo una parte più o meno grande di essi troverà impiego nel processo produttivo; la parte rimanente invece "vivrà" dei vari sussidi, come la cassa integrazione ecc., in una parola sulle spalle dei lavoratori occupati.
Tali economisti spiegano il fenomeno seguendo più o meno questo schema.
Dato un certo potenziale economico e la necessità di produrre sempre più, poiché sempre più vasti sono sia i bisogni, sia i soggetti da soddisfare, si pone il problema di aumentare costantemente quel potenziale economico dato, tanto da poter realizzare una condizione di equilibrio dell'intero sistema produttivo. Ma poiché ciò sia possibile è necessario che almeno una parte del reddito generato nel corso della produzione venga risparmiato sì da poter garantire da un lato gli ammortamenti (cioè la sostituzione di quei fattori produttivi esauriti od obsoleti) e dall'altro nuovi investimenti che consentano appunto l'espansione del potenziale economico dato. Ma può accadere che il reddito risparmiato sia inferiore a quanto necessario per soddisfare la condizione di cui sopra oppure che si incanali verso la speculazione finanziaria che spesso offre profitti più alti di quelli generati dalla produzione vera e propria. È evidente che al verificarsi di queste due ipotesi si determina una strozzatura nel meccanismo degli investimenti e quindi dell'espansione del sistema produttivo. La conseguenza è che l'occupazione non rispetta gli indici di incremento e delle forze produttive in generale e della forza lavoro in particolare.
Gli economisti borghesi sostengono che ciò sia il prezzo che bisogna pagare per vivere da uomini "liberi".
Apparentemente il problema appare posto correttamente ma in realtà le cose stanno in altro modo. In una economia di mercato si produce solo quel tanto che può essere venduto con profitto; ciò significa che non in funzione dei bisogni della collettività ma in funzione di un interesse particolare avviene la produzione. Stando così le cose accade che il capitalista investe ora in questo, ora in quel settore produttivo sì che continuamente si hanno settori in declino e conseguente disoccupazione e settori in ascesa che comunque non riescono ad assorbire tutta la forza lavoro espulsa dai settori in crisi. Infatti se in un dato momento si presenta una particolare condizione favorevole che provoca la decisione del capitalista di investire in un settore anziché in un altro è evidente che non un solo capitalista intravvederà tale condizione favorevole, ma più di uno, anzi essi si lanceranno come un branco di lupi affamati sulla preda. Certamente il più forte riuscirà a realizzare combinazioni tecniche ad alto livello produttivo, disporrà cioè di un rapporto capitale/forza lavoro più favorevole nel senso che utilizzerà in proporzione mena operai e più macchine sì che la produttività di ogni operaio sarà superiore a quella di un altro impiegato ove il rapporto capitale / mano d'opera è inferiore; in una parola il più forte realizzerà le migliori condizioni di sfruttamento degli operai. Imporrà quindi i suoi prezzi più vantaggiosi a danno della piccola e media azienda che vedremo coalizzarsi fra di loro o più spesso fallire. Ma non basta, lo sviluppo tecnologico è tale da consentire ormai una produzione dei diversi prodotti, in quantità tali da saturare ben presto la capacità di assorbimento dei mercati per cui il saggio di profitto tende a scendere e non di rado quando raggiunge livelli molto bassi si distrugge quanto è stato prodotto pur di mantenere alti i prezzi e quindi i profitti. È quanto accade ogni anno per le nostre aziende agricole che, valendosi di avanzate tecniche di coltura, si ritrovano a produrre quantità tali di frutta ecc. che il collocarle sul mercato significherebbe il crollo di quelle stesse aziende e tutto ciò mentre milioni di individui vivono nella fame. Ma ancor più spesso accade che il capitalista disinveste i suoi capitali provocando una stasi nella produzione e quindi la disoccupazione di enormi masse proletarie, fabbriche chiuse, proletari affamati nel mentre esiste una condizione obiettiva di benessere. Questo è ciò che gli economisti chiamano depressione. Dunque la disoccupazione è una condizione tipica del sistema capitalistico, sia quando esso attraversa fasi favorevoli giacche abbiamo visto si determina una disoccupazione settoriale; sia quando, saturi i mercati, il saggio di profitto scende al di sotto dei limiti di convenienza a produrre e veri e propri cicloni si abbattono sul sistema produttivo a danno dei proletari.
È di questa natura la recente crisi del dollaro che porta con sé tutti i sintomi di una crisi profonda ed insanabile le cui conseguenze sono di portata tale che non ci stupirebbe se assumesse i caratteri di quella famosa del 1929.
Il problema dunque è insolubile? Lo è nella società capitalista dove regna l'anarchia della produzione; anzi porre il problema per tentare di risolverlo è pura utopia o peggio è opportunismo. La soluzione c'è e consiste nel superamento degli attuali rapporti di produzione che vogliono le forze produttive ancorate agli interessi particolari del capitalista e non già a quelli reali della società.
Se tiriamo le somme di quanto detto ci accorgiamo:
- che le forze produttive, nonostante tendano ad un continuo sviluppo, vengono costrette nei limiti della legge del massimo profitto;
- che quando esse vengono utilizzate al massimo si impone un intenso sfruttamento del proletariato;
- che ad un certo stadio di sviluppo è necessario arrestarle completamente (guerra) affinché il sistema possa riprendere fiato.
Insomma crisi, disoccupazione ecc. sono fenomeni che discendono dalla incapacità del sistema di organizzare le forze della produzione senza impedirne il loro naturale sviluppo. La soluzione dunque discende da sé: si tratta di liberare queste forze dai limiti del sistema capitalista; ciò impone la rivoluzione socialista che nonostante appaia a molti un'utopia, è un fatto ineluttabile giacché ineluttabile è la crisi che investe l'attuale sistema. Soltanto accettando una interpretazione idealistica e non marxista della realtà si può pensare che esistano soluzioni per i problemi che abbiamo esaminato. Ciò è quanto fanno le forze della socialdemocrazia, dal PSDI al PCI, che appunto oggi vediamo impegnate nel proporre soluzioni per la crisi "finanziaria" che ha investito il mondo con l'unico risultato di ingannare il proletariato.
Questo d'altronde è il compito storico loro affidato.
GiorgioPrometeo
Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.
Prometeo #16-17
III Serie - Primo e secondo semestre - Anno 1971
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