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Come una visione d' insieme della strategia rivoluzionaria viene dissolta in una serie di insignificanti episodi di tattica parlamentare
Siamo al biennio 1924-25, così pieno di avvenimenti da assumere particolare importanza nello sviluppo ulteriore del movimento operaio. Con la rimozione, imposta dall'alto, della sinistra italiana dalla responsabilità di guida del movimento comunista italiano, nuove forze direttive più flessibili, più disposte al compromesso si fanno avanti, i cui esponenti Gramsci, Togliatti, Terracini, Scoccimarro erano pure stati con la sinistra nella fase formativa del Partito Comunista d'Italia. E parlando di nuova direzione non facciamo che precisare posizioni e responsabilità che si riferiscono soprattutto all'opera e al pensiero del compagno Gramsci; intendiamoci, non un Gramsci mitizzato, non un Gramsci teorizzato, ma un Gramsci uomo, uomo come noi che ha vissuto le nostre stesse esperienze, anche se osservate da un angolo visuale del tutto personale, ciò che non salva Gramsci dalla precisa accusa di avere aggiogato il partito alle esigenze non di una autentica internazionale rivoluzionaria, ma a quelle di una politica contingente dello Stato russo, anche se operaio.
Il primo sintomo del nuovo orientamento gramsciano è apparso nell'editoriale che dà inizio alla seconda serie dell'«Ordine Nuovo», quando, cioè, Gramsci, rivedendo criticamente l'opera compiuta a Imola e a Livorno, arriva alla conclusione che il taglio a Livorno era stato operato troppo a sinistra, conclusione per lo meno impensabile in un uomo che aveva partecipato responsabilmente a Livorno e Imola e che aveva dato la sua firma alle «tesi di Roma»; conclusione, quindi, a sfondo opportunistico in quanto non preparata da una adeguata e approfondita revisione critica e da un necessario riesame degli accadimenti che hanno preceduto Livorno. E a proposito di tagli, va ricordato che di fronte alla stessa operazione tattica era convincimento della sinistra che il taglio, a Livorno, fosse stato operato troppo a destra. Questa diversa valutazione implica già una visione tattico-strategica difforme che divide il centro del partito già alla sua origine. Si tratta forse di un ritorno puro e semplice al dannato tatticismo dei partiti socialdemocratici o non piuttosto di un ripiegamento tattico dettato in ogni caso da un eguale ripiegamento teorico che il Comintern aveva imposto sotto la spinta di mutate situazioni oggettive e ohe aveva per obbiettivo immediato la politica del fronte unico?
I «terzini»
Per la nuova direzione del partito e quindi per l'esecutivo dell'Internazionale, il problema del momento era quello di guadagnare spazio a destra; di potenziare la politica del partito allargando innanzitutto la propria sfera d'influenza in quella nebulosa politica che si era costituita in frazione terzinternazionalista che dal seno del partito socialista mirava a tracciare un ponte ideale verso l'Internazionale comunista e, per conseguenza, verso il nostro partito. Si stava per realizzare così, l'obbiettivo gramsciano di rimediare al taglio troppo a sinistra voluto dalla corrente di sinistra allora dominante nel partito.
Perché abbiamo parlato di nebulosa politica riferendoci alla frazione capitanata da Serrati, Maffi, Riboldi, Malatesta, ecc., nutrito gruppo di generali senza soldati, non disponendo essi di una seria organizzazione tale da potersi caratterizzare come vera e propria frazione?
I «terzini» non portavano e non potevano portare una loro particolare e compiuta e originale elaborazione teorica dei problemi della rivoluzione; non disponevano di una forza apprezzabile di base; si riducevano ad alcuni quadri parlamentari e dell'apparato politico e sindacale del partito socialista. Nel complesso si trattava di un raggruppamento senza storia, di scarso rilievo ideologico, soprattutto di scarsa importanza organizzativa. Tuttavia è significativo il fatto che la maggiore preoccupazione dei «terzini» era quella di accampare il diritto ad una loro rappresentanza negli organi direttivi del partito. Indicativi a questo proposito il fervore e le manovre sotterranee con cui Fabrizio Maffi, uno degli esponenti del movimento, tendeva a varare la candidatura di Malatesta alla segreteria del partito. Evidentemente miravano molto in alto, dopo che erano riusciti ad assicurare la loro presenza negli organismi federali di tutta l'organizzazione del partito e alla direzione del movimento sindacale.
Quando rotture organizzative, come questa dei «terzini», si determinano e non sono originate da profonde, insanabili lacerazioni di ordine ideologico non rispondenti a condizioni obbiettive di maturazione reale, e soprattutto quando non avvengono per uno scontro frontale sul diverso modo di concepire i problemi di fondo dell'ideologia e della tattica politica, quasi sempre si palesano come fratture infeconde e appesantiscono sempre, quando non contaminano, l'organismo verso cui questi gruppi scissionisti si dirigono. Era necessario porre un particolare accento sull'uscita dei terzo internazionalisti dal partito socialista e sul loro ingresso nel nostro partito per riconfermare oggi, a distanza di tempo, l'esattezza dell'impostazione data dalla sinistra al problema in genere, delle adesioni ad un partito rivoluzionario che può essere così sintetizzata: processo selettivo; decantazione di residue incrostazioni dal punto di vista ideologico; assoluta adesione ad una disciplina rivoluzionaria, soprattutto necessità di frantumare nella sua entità organizzativa quel dato raggruppamento che si orientasse verso il partito rivoluzionario.
Gramsci si è fatto allora esecutore fedele di una politica tale e quale veniva o ispirata, o dettata dal Comintern. E questo va detto non ad elogio della sua personalità politica e della sua duttilità manovriera. Comunque Gramsci, preso il nuovo indirizzo, ha assunto la responsabilità di imporlo al partito; ma va constatato che il partito comunista nel biennio in esame, ha sì un organo direttivo, anche se per investitura, ma senza una base, soprattutto senza una base che avesse capito il parche del nuovo indirizzo imposto al vertice del movimento; una base tuttora legata, nella sua stragrande maggioranza, alla tradizione di sinistra.
L' apparato
Esaminiamo ora il problema dell'apparato. È nella normale strategia politica di gruppo e di corrente tendere ad impossessarsi dell'organizzazione del partito, attraverso il controllo del suo apparato. Per Gramsci e per la nuova direzione il problema immediato e fondamentale era dunque quello di impossessarsi dell'apparato del partito attraverso il quale ramificarsi alla base dell'organizzazione. Tuttavia le decisioni prese al convegno di Pian del Tivano (Como) e il carattere ideologico-politico impresso alla nostra affermazione nelle elezioni del '24, indicavano che il partito si muoveva ancora sulla sua struttura originaria, sulla piattaforma elaborata dalla sinistra italiana. E questo, Gramsci, lo capiva esattamente, lui che aveva assai vivo il senso realistico della strumentazione; si trattava di un avvertimento assai valido per non vedere in tutta la sua urgenza la necessità di conquistare l'apparato. E come effettuare tale conquista? O si usa l'arma ideologica, e ciò comporta in ogni caso un processo lunghissimo di persuasione, un aperto dibattito ideologico-politico con le forze contro cui si vuol operare, e, infine, conquistarsi la fiducia; oppure c'è l'altro sistema, quello amministrativo, che consiste nel far sentire sugli uomini dell'apparato il peso della responsabilità politica che, nel mentre assicura la :continuità professionale, allontana il pericolo per un rivoluzionario di professione, di dover dare da un momento all'altro alla propria vita una diversa sistemazione economica. Vedremo tra non molto l'importanza di questo secondo aspetto del problema che sarà, fatto proprio da Gramsci.
L'apparato assume così la parvenza di un mito che non ha nome; di una organizzazione economico - politica sfuggente, occultata quasi sempre dietro la cortina fumogena del privilegio di casta; di una corporazione di manovalanza politica che non si precisa mai in una fisionomia e si propaga e allunga i tentacoli come una piovra fino ad assumere un proprio costume di vita che viene a caratterizzarlo e a distinguerlo dal resto della stessa organizzazione di partito.
Gli apparati che oggi conosciamo nella veste di forze onniscienti, onnipresenti e onnipotenti, hanno avuto origine proprio allora, nel '24. Il rivoluzionario professionale il più delle volte è un compagno che ha avuto una dura esperienza di lotta, che si è forgiato al lume di una dura disciplina ideologica e politica, un compagno che ha conosciuto di persona che cosa vuoi. dire :sacrificio, tuttavia è proprio lui destinato a diventare l'uomo dell'apparato, e come tale, costretto ad obbedire professionalmente e quindi ciecamente a tutti gli imperativi che provengono dal centro del partito, qualunque essi siano. Di questo potente strumento, nato dal coagulo di «certi» uomini e di «certi» interessi, il centro del partito si avvale per toccare la base e per muoverla secondo le necessità subiettive e obiettive della sua politica. Intanto la nuova direzione porta avanti l'opera di scardinamento della tradizionale organizzazione del partito. In questo frangente, nel cuore del '24, esplode l'episodio Matteotti. L'eliminazione violenta di Matteotti è la espressione della profonda crisi che ha investito nei suoi gangli vitali lo schieramento del capitalismo italiano e non esistendo la possibilità obiettiva di operare apertamente nel paese, la politica allora era polarizzata nel solo ambiente parlamentare, è su questo piano che bisogna osservare e giudicare l'azione delle forze politiche sommosse dalla crisi. Si tratta di una crisi che vien su dal seno delle grandi masse nelle quali l'avversione al fascismo, il profondo disagio economico e l'ansia per un ribaltamento generale e radicale della situazione stavano toccando il limite di rottura. La biscia della reazione stava rivoltandosi all'incantatore colpendo al vertice lo stesso fascismo tanto che Mussolini riteneva l'operazione Dumini come ispirata da forze interne al regime che miravano alla sua stessa liquidazione. In realtà l'episodio Matteotti si inquadrava in una situazione di fatto nella quale episodi del genere potevano determinarsi in qualsiasi momento e a danno di chiunque che non fosse fascista, tale era lo stato di precarietà e di smarrimento incombente sugli organi del regime.
Noi e l'Aventino
Era nella logica delle cose che a questo punto i partiti antifascisti, democratici, liberali, socialisti, che erano di fatto più vivi sul piano della lotta parlamentare che nel paese, attraverso una rete di cospirazione attiva per una soluzione di forza, prendessero la via dell'Aventino ritenendo incompatibile la loro ulteriore permanenza nel parlamento il cui governo, identificato nella persona di Mussolini, portava la responsabilità morale dell'assassinio di Matteotti. Con l'Aventino si veniva così a creare, almeno sul piano costituzionale, uno Stato nello Stato, una specie di separatismo politico con conseguente vuoto di potere in cui il nostro partito avrebbe potuto inserire e sviluppare una iniziativa di classe se gli amori aventiniani prima e quindi la indecisione sul oda farsi, non l'avessero impedito.
Ma l'Aventino si è dimostrato tale e quale era e doveva essere per sua natura, un coagulo d forze protestatarie: si riunisce, discute, decide una attività di violenta denuncia ma rifiuta coscientemente il ricorso alla piazza perché questa, degenerando, potrebbe passare nelle mani dei comunisti. Non dunque ricorso alle masse operaie ma all'esercito, alla polizia. Gli strateghi dell'Aventino ponevano al centro della propria politica la Corona; la polizia e l'esercito si 'sarebbero mossi se la Corona si fosse mossa. Ma la Corona non si è mossa e con essa non si è mosso l'esercito, non si è mossa la polizia. È rimasta all'Aventino la pretesa di dirigere lo Stato ipoteticamente liberale al di fuori della dura realtà dello Stato fascista.
Che cosa intanto fa il partito comunista? Il gruppo parlamentare in obbedienza alle decisioni della direzione del partito si rifugia anch'esso, in un primo tempo, sull'Aventino. Posti di fronte, bruscamente, ad una situazione non prevista i dirigenti hanno scelto la solita soluzione tattica: andiamo sull'Aventino così come andremmo ad una riunione di fronte unico; per loro era una politica di fronte unico andare all'Aventino. Ma a un certo 'momento, anche qui disparità di vedute non potevano non esplodere. L'Aventino socialdemocratico, liberale e socialista mal sopporta che la pedina comunista operi nel suo seno perché non conforme ai metodi ed ai fini costituzionali dell'Aventino stesso.
In questo rapido susseguirsi di avvenimenti, bisogna riconoscere che mentre le forze coalizzate dell'Aventino avevano, se non altro, capito che la loro fortuna politica risiedeva unicamente nell'uso dei mezzi legali offerti loro dalla possibile convergenza tra conservazione democratico - liberale e tradizione monarchica e agivano conseguentemente, il partito comunista annaspava tra legalitarismo parlamentare e fraseologia massimalista. Se da una parte la direzione gran-isolana subiva la suggestione della questione morale che l'Aventino avanzava come sufficiente a liquidare Mussolini e con lui il fascismo, dall'altra subiva passivamente l'iniziativa della sinistra del partito che si dissociava dalla politica della partecipazione all'Aventino e demistificava di fatto la questione morale con il discorso di Ruggero Grieco elaborato non sotto il controllo della direzione del partito, ma in casa di Bordiga e per sua diretta ispirazione.
Aumenta intanto la pressione dal basso delle masse, soprattutto del partito che chiedono una posizione responsabile; nel contempo si insinua anche nel nostro gruppo parlamentare da tesi dell'anti-parlamento; era soprattutto il buon Riboldi che si affannava a sostenere la legittimità legale e politica dell'anti-parlamento, intendendo fare di esso una piattaforma di lotta parlamentare a cui chiamare le forze dell'opposizione aventiniana.
Rimanere agganciati ancora a soluzioni parlamentari, significava allora non avere sentito la spinta che proveniva dal paese; tanto in sede di gruppo parlamentare come in sede di Comitato Centrale allargato, la sinistra ha sostenuto una visione tattica e strategica diametralmente opposta che comportava lo spostamento dell'asse dell'azione del partito dal parlamento, dal centro, cioè, della vita politica nazionale, al paese, alle masse operaie, suscitando con tale prospettiva di lotta indifferenza, incomprensione, quando non ironia. Secondo gli uomini della nuova direzione e dello stesso gruppo parlamentare i compagni della sinistra erano dei presuntuosi, dei barricadieri, vedevano sempre rosso, e si illudevano di poter spostare l'asse della politica basando la prospettiva non sul concreto, non sulle possibilità obiettive, ma sul nulla.
In una riunione del Comitato Centrale allargato, Gramsci diceva, a conclusione di un ampio e dettagliato esame, che la situazione non era immediatamente rivoluzionaria e che se noi avessimo lanciato una parola d'ordine e di azione rivoluzionaria anche la parte più sana del proletariato non ci avrebbe ascoltato; a comprova di questa sua tesi ricordava che in conseguenza della guerra milioni di fucili erano rimasti in mano agli italiani e se i fucili non spararono voleva dire che non c'era una prospettiva rivoluzionaria. Lasciamo ai lettori considerare la profondità dottrinaria e strategica di questa affermazione. Oh se i fucili potessero sparare da soli!
Chi in questo periodo aveva contatti organizzativi con la base del partito, sa che da ogni parte del paese particolarmente dalle zone meridionali giungevano notizie di una situazione che si aggravava di giorno in giorno per cui esistevano possibilità enormi per imprimere all'azione del partito una prospetti. va di soluzione di classe di immediatezza rivoluzionaria; è mancata l'audacia di un inserimento del partito in una situazione per vedere nel vivo fino a che punto ci fosse coincidenza fra l'esame che veniva fatto della situazione e la rispondenza delle masse italiane, ma nessuno ha avuto chiaroveggenza e coraggio di tentare.
Viene finalmente deciso il rientro del gruppo in parlamento con un altra o trovata» tattica, quella di mandare allo sbaraglio Repossi, a cui era demandato il compito di leggere una dichiarazione prefabbricata di tono demagogico e in parte provocatorio, anche se egli estensori del documento sapevano molto bene che in quella situazione sarebbe stata follia assumere la responsabilità di un secondo episodio Matteotti. Quando poi si è tentato lo sciopero generale in polemica con la C.G.I.L. con l'Aventino e in modo particolare con il partito socialista, era evidente che saremmo andati incontro ad un inevitabile insuccesso.
Gramsci e la politica del fronte unico
In tal modo entrava in crisi la tanto decantata tattica del fronte unico dal basso. Le masse operaie legate per tradizione al loro organismo sindacale e al loro partito politico non sono generalmente disposte ad accettare inviti ad azioni dirette che provengono da altre organizzazioni se non è chiaro alla loro coscienza che da loro organizzazione sindacale e il loro partito si sono posti apertamente al di fuori del solco di classe e in contrasto fondamentale con i loro interessi e con gli obiettivi finali della loro lotta. A questo scopo nessuna opera di convincimento, nessun approfondimento critico erano stati seriamente intrapresi dal partito comunista presso le masse sindacate e quelle più politicizzate del partito socialista; soprattutto nessuna parola d'ordine era stata lanciata che precisasse il vero volto della crisi che aveva praticamente inchiodato il regime in uno stato di impotenza, incapace perfino di mobilitare le sue stesse forze armate in quantità sufficiente per organizzare una qualsiasi difesa se una iniziativa di attacco armato si fosse determinata, in quel momento, in qualsiasi punto del paese.
Situazioni simili non si approfondiscono previe intese di vertice, tipiche della politica di fronte unico, ma vanno affrontate tempestivamente con forze e strumenti idonei per qualità e chiarezza d'intenti a prescindere da valutazioni del tutto quantitative che sono quasi sempre in funzione ritardatrice e tarpano le ali all'azione rivoluzionaria. Sono queste, infatti, le iniziative della strategia rivoluzionaria che aprono le strade ad un allargamento del fronte della lotta, spostano in avanti strati nuovi di combattenti e accendono volontà nuove che si urtano nel calcolo degli strateghi parlamentari e di certi capipartito che attendono... che i fucili sparino da soli.
In tante manovre tattiche senza né capo né coda che trovano la base teorica nella legge delle spontaneità più che in una costante della metodologia marxista, è evidente il diverso modo di esaminare la situazione e le forze sociali e politiche che in essa si muovono tra la corrente assai omogenea della sinistra e quella che si è andata formando in modo alquanto estemporaneo e privo di ogni seria unità ideologica, attorno alla personalità di Gramsci.
In questo contesto il problema di fondo prende forma e sostanza nella diversa interpretazione (marxista o no) della strategia rivoluzionaria applicata al fenomeno fascista, se cioè il fascismo era da considerare come una escrescenza del capitalismo che andava eliminata avvalendosi di tutti i mezzi che a questo scopo lo stesso capitalismo offriva alla lotta politica condotta dall'antifascismo considerato come un tutto pur nella diversità delle sue componenti (Gramsci e comp.), oppure, come pensava la sinistra, il fascismo era da considerarsi corna l'involucro ideologico-politico più sicuro, nella specifica situazione italiana, per garantire la conservazione del capitalismo nel suo complesso, per cui colpire il fascismo, spezzarne violentemente le strutture, significava colpire nel cuore il capitalismo e spazzar via le sue strutture tanto economiche che politiche.
Tutto ciò, tradotto in termini di concretezza politica, significava per Gramsci e comp. rompere con le formulazioni fisse e troppo rigide della tematica rivoluzionaria della classe contro classe; piegare questa strategia a momento tattico per la soluzione di esigenze contingenti e particolari della lotta antifascista nell'ambito della più vasta e consistente esperienza capitalista, teoria gramsciana che considerava il fascismo episodio di falciare paesano da estirpare come mala pianta dallo stesso terreno del capitalismo sul cui tronco si sarebbe casualmente germinata.
Soltanto così e con questi elementi così scarsamente conosciuti, perché volutamente sottaciuti, è possibile seguire il filo conduttore della politica del fronte unico con la inconcludente e contraddittoria tattica di avvicinamento all'Aventino e conseguente allontanamento; con l'uscita dal parlamento e conseguente rientro e infine con la puntata solitaria di Repossi per saggiare il terreno, escogitata soprattutto per salvare la faccia ad una politica deludente e fiacca e persino priva di fantasia. Se questa è la linea tattica di Gramsci, non dissimile, nella sua essenza, sarà quella adottata da Togliatti fin dal suo rientro in Italia e che tuttora guida le sorti del PCI. Enorme tuttavia è la loro differenza di fondo; Gramsci, che nella veste di responsabile del partito, aveva più o meno apertamente e opportunamente abbandonato la prospettiva ideologica e politica dei «consigli» era tuttavia portato a far rivivere nel nuovo indirizzo tattico impresso al partito la sua tipica, originaria forma menti» di una prefigurata civiltà dei «consigli» da realizzarsi nel tronco della stessa civiltà capitalista. Si trattava, in ogni caso, di una elaborazione teorica, anche se idealistica e quindi assai discutibile sotto il profilo marxista, ma tuttavia elaborazione teorica che lo avrebbe posto assai al disopra di quella aberrante paccottiglia tattica nazionalcomunista e clerico-monarchica che porterà il partito di Livorno nella palude parlamentare per seguire una chimerica, via italiana democratica, pacifica, elettorale del socialismo.
Sotto questo rapporto, a mezzo secolo di distanza da quegli avvenimenti, è davvero tempo di riscoprire un Gramsci più vero, più aderente alla realtà che la storiografia, o meglio l'agiografia di partito e della cultura oggi di moda, ha così ignobilmente sfigurato, sfruttando ai propri fini l'aspetto emotivo e sentimentale della sua dolorosa vicenda umana.
Verrà il discorso di Mussolini del 3 gennaio e con esso la politica della smatteottizzazione e il nostro rientro nella semi-illegalità, ma la gravità della situazione e dell'esperienza vissuta impone un necessario ripensamento critico: quando si determinano situazioni come questa di Matteotti con evidenti possibilità di sviluppi rivoluzionari e noi non siamo capaci di legarci al moto ascendente della crisi e alle aspettative delle masse e di obbedire agli imperativi che ogni crisi profonda della società porta con sé, inevitabilmente, in questo caso, bisogna riconoscere apertamente che siamo stati al di sotto dei nostri compiti parche siamo stati non la forza dirigente di una situazione, ma al suo rimorchio, il suo lumicino di coda, ciò che ha finito per ridicolizzare la politica del partito nella fase più grave della crisi abbattutasi sul regime fascista in quanto regime della conservazione capitalista.
Ma intanto la direzione gramsciana continua il sordo lavoro di penetrazione e di conquista dell'apparato del partito; chi, infatti, non sa o non vuole muoversi nel fuoco della lotta, è sempre maestro nell'intrigo politico. La fisionomia del partito nella fase Matteotti e immediatamente dopo Matteotti, non è praticamente cambiata; il centro è sempre avulso dalla base, è sempre più apertamente il centro di Mosca e dell'Internazionale mentre la base del partito è ancora sotto l'influenza ideologica e politica della sinistra italiana; l'apparato è ancora parzialmente inoperante; si procede alla defenestrazione di alcuni compagni della sinistra dagli organi direttivi dell'organizzazione; tutto questo coincide con l'apertura del dibattito per il congresso di Lione.
Ma anche in casa nostra, anche in casa della sinistra italiana c'è qualche cosa da vedere criticamente e da rimuovere: non si lascia una base organizzativa come quella della sinistra e soprattutto quadri saldamente formati in balia degli eventi senza una direzione, senza una responsabilità organizzativa.
Il compagno Bordiga, defenestrato d'autorità dal centro del partito, si era praticamente autodefenestrato dalla vita politica attiva e non assumeva nessuna responsabilità ufficiale, neppure nell'ambito della sua stessa corrente. In una situazione come questa chi ha senso di responsabilità sa che cosa deve fare, sa, cioè, nome obbedire all'imperativo immediato che scaturisce dai dati obiettivi della situazione.
Si andrà a Lione; Lione sancirà la sconfitta «elettorale» della sinistra, ma la sinistra italiana dovrà difendersi, soprattutto dovrà difendere il suo patrimonio di idee e di esperienze, la sua base organizzativa e soprattutto dovrà difendere la forte caratterizzazione data al movimento dopo Imola e Livorno fino al 1924.
Il Comitato d'Intesa nasce in questa grave situazione e col preciso compito di salvare quanto ancora era salvabile nel partito di Livorno.
Onorato DamenDal saggio: «1919-1926 - Una battaglia perduta»
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