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Home ›Il social-opportunismo di fronte alle statizzazioni e alle pianificazioni del Capitalismo
Nell'analizzare le trasformazioni e le tendenze organizzative apparse nello sviluppo del sistema capitalistico, durante la sua attuale fase monopolistica ed imperialistica, appare con tutta evidenza il legame sempre più stretto stabilitosi tra gli stessi interessi del capitalismo e le forze e i partiti del social-opportunismo, che di queste trasformazioni e di queste tendenze sono stati e sono i propugnatori e, spesso, i realizzatori più spinti e convinti.
Sotto i diversi termini denominativi di «economia panificata», «programmata», e di «piano economico», (Planned Econorny, Planwirtschaf t, Economie dirigée), il capitalismo si è visto costretto da un complesso di fattori oggettivi determinanti, quali la stessa strutturazione dell'industria ed il progresso della tecnica produttiva, oltre ben inteso l'esasperarsi delle sue contraddizioni interne tra cui al primo posto la tendenziale caduta del saggio di profitto ed il riproporsi delle periodiche crisi di sovrapproduzione, ad accentuare il processo di accentramento e di controllo statale del modo di produzione, attraverso prima la nazionalizzazione o statizzazione di interi settori economici e complessi produttivi, ed in seguito mediante il tentativo di coordinare e regolare lo sviluppo generale dei settori statizzati e, in forme più o meno dirette, di quelli privati e misti dell'intera economia nazionale.
Tale intervento diretto dello Stato ha accentuato le caratteristiche sociali delle forze produttive anche sul piano degli stessi rapporti capitalistici, ma ha nel medesimo tempo ingigantito e portato all'estremo il contrasto tra capitale e lavoro, tra capitale costante e capitale variabile, mantenendo intatta l'origine dello sfruttamento proletario, il prelievo del plusvalore e la ritrasformazione del profitto in capitale.
L'opportunismo, tacendo e svirilizzando la critica marxista su questo fondamentale contrasto del nostro tempo, con astrazioni di carattere idealistico ed umanistico, ha individuato e fatto individuare nella nuova fase accentratrice dell'economia capitalistica, opportunamente «accelerata» e «corretta», la possibilità di trasformare dall'interno del sistema il capitalismo nel suo opposto, il socialismo, mediante un susseguirsi di riforme strutturali di carattere economico, politico e sociale.
«Vi sono rivendicazioni di politica economica che sono quelle che costituiscono le originalità della nostra politica nel momento presente: richiesta di determinate nazionalizzazioni, richiesta di una programmazione, richiesta di un intervento dello Stato per garantire uno sviluppo democratico e così via.»
Queste in sintesi, nell'esposizione del segretario del P.C.I., le linee fondamentali della «nuova» politica socialista.
Se per la critica economica marxista è un dato di fatto acquisito, e previsto nello sviluppo del sistema capitalistico, l'accentrarsi del possesso dei mezzi di produzione nelle mani di una unica associazione economica nazionale rappresentata dallo Stato borghese, ed in seguito il controllo pianificato della
produzione da parte dello Stato (1); è altrettanto acquisita per essa la funzione e il ruolo che, in questo processo di conservazione del sistema adeguato alle nuove esigenze . del mercato e della politica imperialistica, avrebbe svolto e continua tutt'ora a svolgere l'opportunismo piccolo-borghese.
Già Engels nel suo «Antiduhring», in una nota al capitolo II della III Parte, metteva in guardia il proletariato contro
«la comparsa di un certo socialismo falso, e qua e là perfino degenerato in una forma di compiaciuto servilismo, che dichiara senz'altro socialista ogni statizzazione, compresa quella bismarckiana. In verità se la statizzazione del tabacco fosse socialista, potremmo annoverare tra i fondatori del socialismo Napoleone e Metternich.»
Più tardi Lenin nell'«Imperialismo ultima fase del capitalismo», accusava «l'aristocrazia operaia» e l'opportunismo piccolo-borghese quali «puntelli sociali» della borghesia e alleati dell'imperialismo.
«Questi operai sono veri e propri agenti della borghesia nel movimento operaio, veri e propri commessi della classe capitalista nel campo operaio, veri propagatori di riformismo e di sciovinismo, che durante la guerra civile del proletariato contro la borghesia si pongono necessariamente, e in numero non esiguo, a lato della borghesia, a lato dei "versagliesi" contro i "comunardi".»
Infatti, quando dalla fine della I guerra mondiale in poi, l'economia capitalistica intensificava e sviluppava le torme di accentramento e di intervento statale, ai lini dei propri interessi imperialistici (dall'esperimento americano del New Deal a quello del totalitarismo nazifascista), il social-opportunismo identificava e propugnava nella politica riformistica delle nazionalizzazioni e delle pianificazioni statali, la nuova linea e il nuovo programma «rivoluzionario» dei movimento operaio, adempiendo così a quella funzione sociale e politica che Lenin gli aveva assegnato.
Questa tendenza si manifestava poi apertamente alla fine del secondo conflitto mondiale, allorché il proletariato, dopo esser stato trascinato nel massacro imperialistico dai partiti di sinistra come difensore dei valori democratici e liberali della classe borghese, veniva poi coinvolto nel processo di ricostruzione nazionale e quindi di consolidamento economico della economia capitalistica ancora dagli stessi partiti di sinistra, ai quali la borghesia affidava il compito di mascherare di un «nuovo contenuto sociale» le misure conservatrici e controrivoluzionarie che essa andava applicando alle sovrastrutture economiche e politiche.
In Inghilterra i laburisti, in Francia e in Italia i socialisti e i comunisti sono stati i predicatori e in parte i realizzatori di quelle «meditate riforme strutturali» destinate a rafforzare e consolidare, nell'ambito degli immutati rapporti capitalistici, lo sfruttamento della classe operaia.
Al X Congresso del P.C.I., Amendola ha dichiarato:
«A chi crede di metterci in imbarazzo con la politica di programmazione, ricordiamo che, alla Costituente, comunisti e socialisti presentarono questo emendamento all'art. 14 a firma di Montagnana, Vittorio Foa e Gian Carlo Pajetta: "Allo scopo di garantire il diritto al lavoro di tutti i cittadini, lo Stato interviene per coordinare e dirigere le attività produttive secondo un piano che dia il massimo rendimento per la collettività".»
Questa rivendicazione di una paternità oggi contesa da quasi tutte le forze politiche del centro e della sinistra borghese, è sempre stata una preoccupazione costante del P.C.I.; e tutta la sua linea economica dal 1944 in poi attesta come questo partito (e al suo seguito il P.S.I.) abbia assunto in pieno il compito opportunistico di deviare sul binario del collaborazionismo riformista il potenziale rivoluzionario del proletariato, allettando e corteggiando nel contempo quegli strati dell'aristocrazia operaia e quel ceto medio che sono di fatto i clienti più preziosi della nuova «sinistra».
Per tutto il periodo del II dopoguerra, la preoccupazione costante del P.C.I. è stata quella di collaborare al rafforzamento del capitalismo nazionale, portando a maturazione le linee fondamentali di quella politica economica di pianificazione sotto la direzione dello Stato, che esprime oggi la tendenza principale ed essenziale del modo di produzione borghese.
Ad un Convegno economico del P.C.I. nel 1945, così Togliatti riassumeva l'orientamento «comunista» in materia economica:
«Siamo decisamente contrari ad ogni politica e a ogni misura che, consapevolmente o inconsapevolmente, porti ad una soluzione catastrofica della situazione italiana. Non siamo orientati verso una soluzione catastrofica e riteniamo che sarebbe delitto essere oggi orientati in questo modo. Siamo invece orientati verso soluzioni costruttive sia nel campo politico che nel campo economico. Questa nostra posizione risponde al fatto che, nell'attuale sviluppo della lotta politica in Italia, ci siamo posti e rimaniamo sul terreno dell'organizzazione di un regime democratico, collaborando con tutte le forze democratiche che vogliono affiancarsi a noi per raggiungere questo obiettivo.»
E più tardi, nell'illustrare il programma elaborato dalla Conferenza economica del Fronte democratico popolare (1948), l'on. Scoccimarro dichiarava:
«Questo programma farà comprendere alla maggioranza degli italiani che le riforme non si pongono in conseguenza di particolari ideologie, ma si impongono come una esigenza che sorge dalla stessa realtà, come una necessità per salvare l'economia del paese e garantirne lo sviluppo.»
Ma il social-opportunismo non poteva abbracciare la causa borghese dello accentramento e della pianificazione statale, senza nel contempo negare, attraverso il travisamento ed il tradimento teorico, tutto ciò che il marxismo nella sua classica dottrina economica, aveva criticato e affermato.
Occorrerebbe molto spazio per analizzare le varie tappe teoriche e pratiche di questo rinnegamento dei principi fondamentali del marxismo rivoluzionario. Ci limiteremo qui a considerare il traguardo finale della rivoluzione a cui si è portato il pensiero marxista, come essa appare nelle affermazioni di carattere programmatico e ideologico pronunciate nel corso dell'ultimo Congresso del P.C.I. ed in precedenti riunioni del C.C.
Nella sua relazione alla riunione del C.C. il 12 febbraio 1962, Togliatti ha dichiarato:
«Noi abbiamo sempre riconosciuto che il nostro modo di affrontare le questioni di politica economica, in relazione con la lotta delle masse lavoratrici spingeva, in ultima analisi, allo sviluppo del capitalismo di Stato. Le proposte di nazionalizzazione, di interventi dello Stato sul mercato produttivo, di elaborazioni di piani di sviluppo, esprimono questa tendenza. È vero che Engels già aveva parlato di una pianificazione, attuata di fatto dalle grandi concentrazioni industriali. Ma oggi l'elemento nuovo è un altro, perché è lo Stato che si propone di attuare alcune misure pianificatrici.»
A questo punto l'opportunismo si rivela nella sua più profonda essenza revisionistica. Esso ammette e fa suo ciò che nella critica marxista, economica e politica, può essere accettato sul piano teorico anche dalle correnti di sinistra della classe borghese, e cancella di un sol colpo ciò che il marxismo contiene in sé, nella sua critica quanto nella sua prassi, di effettivamente rivoluzionario, di dialetticamente eversivo nei confronti della società borghese.
Ed è proprio ancora una volta la concezione dello Stato di classe, strumento di dominio della classe al potere e di tutela dei rapporti economici che giustificano la presenza della classe sfruttatrice, che viene rovesciata nel suo opposto, lo Stato di diritto, il quale acquisterebbe un nuovo aspetto e contenuto attraverso l'affermazione del principio della «sovranità popolare», ponendosi così al di sopra della lotta di classe ed al servizio di questi o quegli interessi delle classi, a seconda della pressione e della influenza politica che su di esso gli uni o gli altri esercitano.
Ma l'elemento «nuovo» che l'opportunismo ha scoperto nell'intervento pianificatore dello Stato, è invece ben presente nell'analisi marxista della economia capitalistica.
Engels ha chiaramente scritto che
«In un modo o nell'altro, con trust o senza trust, una cosa è certa: che il rappresentante ufficiale della società capitalistica, lo Stato, deve alla fine assumerne la direzione.»
E altrettanto chiaramente ha aggiunto che
«lo Stato moderno è l'organizzazione che la società capitalistica si dà per mantenere il modo di produzione capitalistico di fronte agli attacchi sia degli operai che dei singoli capitalisti. Lo Stato moderno, qualunque ne sia la forma, è una macchina essenzialmente capitalistica, uno Stato dei capitalisti, IL CAPITALISTA COLLETTIVO IDEALE. Quanto più si appropria le forze produttive, tanto più diventa un capitalista collettivo, tanto maggiore è il numero dei cittadini che esso sfrutta. Gli operai rimangono dei salariati, dei proletari. Il rapporto capitalistico non viene soppresso, viene invece spinto al suo apice.»
Nessuna novità dunque nel corso del capitalismo e nessuna trasformazione nei suoi rapporti produttivi, che giustifichi una revisione dell'analisi marxista e un capovolgimento della sua politica rivoluzionaria.
Quando si propone, come nella risoluzione politica del X Congresso,
«una programmazione democratica diretta a contrastare l'espansione monopolistica e ad imporre un nuovo tipo di sviluppo che, assegnando un ruolo antimonopolistico al capitalismo di Stato, realizzi ecc. ecc.»
si è completamente abbandonata l'arma critica del marxismo-leninismo e si è diventati complici convinti del tentativo borghese di agganciare il proletariato al processo di rafforzamento del capitalismo di Stato, presentato dai partiti del social-opportunismo come un possibile strumento di lotta contro il monopolio e non come in effetti esso è, ossia il massimo risultato della concentrazione monopolistica del capitale e quindi dello sfruttamento proletario.
«La guerra imperialista - scrisse Lenin nella prefazione a "Stato e rivoluzione" - ha accelerato e ravvivato a un grado estremo il processo di trasformazione del capitalismo monopolistico in capitalismo monopolistico di Stato. L'oppressione mostruosa delle masse lavoratrici da parte dello Stato, il quale si fonde sempre più strettamente con le onnipotenti associazioni dei capitalisti, assume proporzioni sempre più mostruose. I paesi più avanzati si trasformano - ci riferiamo alle loro "retrovie" - in case di pena militari per gli operai.»
La chiave del problema non è più allora, come sostiene ancora lo stesso Togliatti in un suo discorso dell'aprile 1962, quella di
«estendere la sfera del capitalismo di Stato e, in pari tempo, condurre una lotta democratica NELL'AMBITO DELLO STATO per mantenere allo Stato, anche mentre esso assume questa funzione, un carattere democratico e quindi avere una partecipazione progressiva, sempre più ampia, delle masse lavoratrici alla direzione della vita politica e alla direzione della vita economica.»
Questa semmai è una chiave che chiude per tutto un periodo storico la porta alla preparazione del partito di classe e all'educazione rivoluzionaria delle masse; La vera chiave del problema è quella che Lenin dimostrò di tenere saldamente in pugno quando riaffermò la teoria marxista della soppressione violenta dello Stato borghese e del controllo operaio della produzione e della distribuzione sotto uno stato sovietico, là dove l'opportunismo scopre e ripone nello Stato borghese il potere di intervenire non soltanto come forza mediatrice o conciliatrice, ma addirittura come forza anti-borghese e anti-monopolistica, il che significherebbe in ultima analisi anti-capitalistica.
Così Lenin rispondeva nel 1918:
«Per illustrare la questione ancor di più, prendete prima di tutto il più concreto esempio del capitalismo di Stato. Ciascuno di noi conosce quale è questo esempio. Esso è la Germania. Qui noi abbiamo "l'ultimo termine" in una moderna grande scala di tecnica capitalistica e di organizzazione pianificata, subordinata "all'imperialismo borghese degli Junker". Cancellate le parole in corsivo; e al posto del militarista e imperialista stato borghese degli Junker, mettete uno stato, ma di differente tipo sociale, di una differente classe - un SOVIET, che è uno stato proletario - e voi avrete la somma totale delle condizioni necessarie per il socialismo.»
Possiamo dunque concludere in questi termini:
Né le nazionalizzazioni né le pianificazioni, espressioni proprie della tendenza al capitalismo monopolistico di Stato, sono in grado di risolvere le contraddizioni interne dell'attuale sistema economico borghese; né tantomeno di eliminare il violento antagonismo che, perdurando i rapporti capitalistici di produzione, si è stabilito tra le forze del lavoro e quelle del capitale.
Il social-opportunismo, rispolverando la teoria della «conquista» pacifica e democratica dello Stato borghese, che Lenin demolì in «Stato e rivoluzione», ha trovato in essa la giustificazione ideologica del suo appoggio aperto e dichiarato verso la fase definitiva della centralizzazione del capitale.
Al potere dei Soviet come unica strada al socialismo, l'opportunismo oppone il potere dello Stato, «democratico e popolare» come via nazionale al socialismo; e fa delle misure economiche che il capitalismo è costretto ad adottare per garantire più a lungo la propria esistenza, il programma finale di un socialismo piccolo-borghese, democratico e conservatore.
Ciò che Trotski scrisse nel Manifesto dell'Internazionale Comunista resta ancora oggi decisivo per il futuro rivoluzionario della classe operaia:
«Il controllo statale della vita sociale contro il quale il liberalismo capitalista tanto rivaleggiò, è diventato una realtà. Non è più possibile ritornare indietro neanche alla libera concorrenza o alla dominazione dei trust, sindacati, o altre specie di anomalie sociali. La questione consiste solamente in questo: CHI DIRIGERA' LA PRODUZIONE STATALE NEL FUTURO - LO STATO IMPERIALISTA O LO STATO DEL PROLETARIATO VITTORIOSO?»
Davide(1) Nel I Volume del «Capitale» Marx anticipava in una breve osservazione quella forma economica del capitalismo di Stato che più tardi Engels avrebbe delineata nel suo «Antiduhring»:
«In una società data la centralizzazione raggiungerebbe l'estremo limite soltanto nel momento in cui tutto il capitale sociale fosse riunito nella mano di un singolo capitalista o in quella di un'unica associazione capitalistica.»
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