Guerra del Nagorno-Karabakh: per i lavoratori il vero nemico si trova in casa

Un conflitto lungo un secolo

La guerra tra Armenia e Azerbaigian per il Nagorno-Karabakh non è una novità. Tuttavia, l’evacuazione in pochi giorni di qualcosa come centomila persone e la morte di centinaia di altri indica la situazione disperata che non solo consuma entrambi gli Stati ma anche un sistema capitalistico globale sempre più frammentato.

È passato esattamente un secolo dalla prima guerra per il territorio conteso del Nagorno-Karabakh. Nel 1920, con la guerra civile ancora in corso in Russia, le due ex province dell'Impero russo si dichiararono indipendenti e si combatterono immediatamente per l'enclave a maggioranza armena circondata da territori a maggioranza azera. Quando le forze dell'URSS rioccuparono l'intera regione del Caucaso, “risolsero” la questione creando nel 1923 l'oblast (regione ndt) autonoma del Nagorno-Karabakh (la cui popolazione era per il 70% armena) all'interno della Repubblica socialista sovietica azerbaigiana.

Subito dopo il 1988 l'URSS, alle prese con la sua agonia, ha cominciato a perdere il controllo della maggior parte dei suoi territori non russi. In quegli anni tendeva a sostenere l'Azerbaigian, suscitando così una rivolta nazionalista armena in Nagorno-Karabakh. Pogrom per promuovere la pulizia etnica (la maggior parte degli azeri ha lasciato l'enclave e alcuni armeni hanno lasciato l'Azerbaigian propriamente detto) sono stati portati avanti da entrambe le parti. Nel 1994, quando è stato chiamato il cessate il fuoco, un milione di persone erano state trasferite con la forza e 30.000 morirono. Il gruppo Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa a Minsk (in Bielorussia), presieduto da Francia, Russia e Stati Uniti (1) è stato creato per cercare di arrivare a una soluzione più duratura, ma senza successo. Non c'è mai stato un trattato di pace e non è passato un anno senza qualche schermaglia di confine, che occasionalmente si protraeva per qualche giorno.

L'Armenia mantiene il controllo non solo della maggior parte del vecchio oblast del Nagorno-Karabakh, ma anche delle zone circostanti dell'Azerbaigian. Gli armeni si riferiscono a quest’ultima come la Repubblica di Artsakh, ma nessuno Stato, nemmeno l'Armenia stessa, ne riconosce l'esistenza formalmente.

Nel 2008 l'Assemblea generale [dell’ONU] ha approvato, con 39 voti favorevoli e 7 contrari, la risoluzione 62/243 che chiedeva il ritiro immediato di tutte le truppe armene dai territori occupati azeri. Significativamente tre dei voti contrari sono stati quelli dei leader del gruppo di Minsk, Francia, Russia e Stati Uniti. Non ha avuto quindi un effetto maggiore di quello di tutte le risoluzioni che dal 1967 chiedono il ritiro di Israele dai territori palestinesi occupati.

La data del 2008 è stata significativa anche a livello globale − la crisi economica che aveva contribuito al crollo dell'URSS nel 1991 si era ora ulteriormente intensificata. Con il calo degli investimenti redditizi, il sistema capitalistico globale negli anni successivi è stato sostenuto dalla speculazione finanziaria che ha creato la bolla scoppiata nel 2007-8. Le sue conseguenze hanno avuto eco in tutto il mondo e in Armenia hanno portato la popolazione nelle strade della capitale per opporsi all'ennesima elezione truccata. Nel 2011 è stata la volta della popolazione azera ispirata dalla “primavera araba” di quell'anno. Concessioni in entrambi i Paesi (più la repressione particolarmente brutale in Azerbaigian) hanno ristabilito il controllo, ma i movimenti popolari hanno solo reso la classe dominante di entrambi gli Stati più disperata che mai. L'Armenia voleva aggrapparsi a ciò che aveva guadagnato e l'Azerbaigian recuperare ciò che aveva perso. La carta che entrambe le classi dominanti potevano giocare era come sempre quella del nazionalismo.

Il bacillo nazionalista

Come molti altri Stati post-sovietici, sia l'Azerbaigian che l'Armenia hanno subito una catastrofe economica negli anni Novanta. Senza la catena di produzione dell'economia pianificata dell'URSS, entrambe hanno assistito a piani di privatizzazione irragionevoli e corrotti. La differenza era che l'Azerbaigian aveva il petrolio e l'Armenia no. Nel brevissimo periodo, però, le conseguenze hanno favorito l'Armenia. In entrambi gli Stati gli oligarchi si sono battuti per il potere, ma in Azerbaigian la lotta per il controllo del petrolio ha portato ad una feroce lotta intestina tra vari signori della guerra. In Armenia gli oligarchi hanno avuto meno da disputare da quando il suo settore industriale, un tempo in piena espansione, è completamente crollato. Un'economia che prima produceva automobili, elettrodomestici, tessuti e macchinari industriali per la vendita in URSS si è ridotta all’esportazione di rame e brandy. Ma mentre l'élite azerbaigiana lottava per il controllo del petrolio, la classe dirigente armena si è consolidata intorno alla difesa del Nagorno-Karabakh.

La guerra del 1988-1994 è stata una vicenda brutale che, nonostante sia stata combattuta con armi saccheggiate dalle vecchie basi sovietiche e spesso vissuta in trincea, come nella Prima Guerra mondiale, ha forse superato tutte le guerre dell'ex Jugoslavia per la sua bestialità. Le fotografie “trofeo” ampiamente diffuse delle brutali mutilazioni di cadaveri e decapitazioni volevano rafforzare in modo indelebile gli stereotipi nazionalisti da entrambe le parti.

Ma, data la disunione dell'élite azera, l'Armenia ha prevalso nel 1994, e ora continua a detenere non solo la maggior parte del Nagorno-Karabakh, ma anche il 9% dell'Azerbaigian nei territori circostanti. A Baku, la débacle ha portato al potere l'ex capo del KGB ed ex membro del Comitato centrale dell'URSS, Heydar Aliyev. Conosciuto come “Il Drago”, ha schiacciato i suoi oppositori oligarchi e ha trasformato il settore petrolifero nel feudo personale della sua famiglia. Quando è morto nel 2003, suo figlio Ilham ha ereditato il trono.

Allo stesso tempo le fortune dei due paesi sono andate divergendo. Con la rottura delle catene di approvvigionamento russe, circa 1 milione di armeni (un terzo della popolazione) sono stati costretti ad abbandonare il loro paese impoverito entro il 2000. L'Azerbaigian, invece, in cui il petrolio equivale al 90% delle entrate, ha cavalcato il boom dei prezzi del greggio. Ciò è proseguito anche dopo il crollo finanziario del 2008. Aliyev aveva speso una fortuna in edifici prestigiosi a Baku, oltre a tre miliardi di sterline all'anno per l'acquisto di armi (più dell'intero PIL dell'Armenia) per costruire le sue forze armate, principalmente acquistandole da Russia e Israele (l'Azerbaigian confina con l'Iran, quindi è di importanza strategica per Israele). Questa ricchezza ha anche permesso ad Aliyev di placare il malcontento popolare nel 2011, sovvenzionando i prezzi dei prodotti alimentari. Tuttavia, con il crollo del prezzo del petrolio nel 2014 (2), i redditi in Azerbaigian sono crollati. Con il dimezzamento delle entrate è stata messa in discussione un'ulteriore e imponente spesa per armamenti. Era giunto il momento di utilizzare le armi già acquistate.

Questo è stato lo sfondo dell'attacco dell'Azerbaigian al Nagorno-Karabakh nel 2016. La guerra dei quattro giorni ha portato alla morte di circa 400 persone e si è distinta per l'uso di bombe a grappolo (“illegali”) e di droni israeliani. Nelle prime ore l'Azerbaigian ha guadagnato qualche chilometro quadrato di territorio e non di più, ma gli osservatori militari (3) dicono che siano di importanza strategica. Il tentativo è stato ripetuto in un'altra breve esplosione di violenza nel luglio di quest'anno, quando sembra che gli azeri abbiano testato le difese armene. Forse entrambi stavano facendo i preparativi in vista della nuova guerra di oggi? In ogni caso, l'intera base ideologica della dinastia Aliyev è incentrata su un gretto nazionalismo, in cui il recupero delle terre perdute dell'Azerbaigian, compreso il Nagorno-Karabakh, è centrale.

In Armenia la classe dirigente è più divisa, ma è unita nel suo nazionalismo. I liberal-nazionalisti sono principalmente la vecchia intellighenzia dell'epoca sovietica, mentre i nazionalisti militari o conservatori sono profondamente coinvolti nella lotta per la difesa del Nagorno-Karabakh. Questi ultimi hanno fornito all'Armenia la maggior parte dei suoi presidenti e si considerano “tesghakron” (che significa “portatore di razza”), l'essenza spirituale e biologica della nazione armena “classica”. Questo significa che la difesa del Nagorno-Karkabakh è la grande questione per loro e che ogni sciopero e ogni altra protesta viene sempre attaccata come “antipatriottica”.

In pratica le due fazioni sono cleptocratiche l’una quanto l’altra nel rubare dalle casse dello Stato e nel difendere violentemente il proprio controllo dei monopoli. Questo culmina periodicamente in proteste in occasione di elezioni truccate. L'ultima di queste è stata nel 2018, quando il partito conservatore repubblicano ha cercato di truccare le elezioni per l'ennesima volta. Una protesta durata sei settimane ha portato a un altro colpo di stato non violento (la cosiddetta “Rivoluzione di velluto”) che ha riportato al potere i nazionalisti liberali. Quando il Partito Repubblicano ha perso tutti i seggi alle elezioni del 2019 si è pensato che il nuovo governo di Nikol Pashinyan sarebbe stato più flessibile sulla situazione del Nagorno-Karabakh. Pur dipendendo ancora dall'alleanza militare con la Russia (che ha ancora una base militare in quel Paese), il suo governo è diventato sempre più filo-occidentale e ha persino stabilito un'ambasciata in Israele. Tuttavia, non è chiaro cosa questo comporti in pratica, perché si sono già asserragliati in una rabbiosa ideologia nazionalista che non rinuncerà a un solo centimetro di territorio, per quanto sia stato versato molto sangue.

La dimensione internazionale

E l'intensificarsi della rivalità all'ombra di una lunga e irrisolta crisi capitalistica non si limita solo allo scenario caucasico. Tutte le potenze, grandi e piccole, hanno i loro problemi economici e tutti cercano sia di migliorare materialmente la loro sorte sia di distogliere l'attenzione dai fallimenti del sistema giocando sul sentimento nazionalista.

Per quanto riguarda le potenze vicine, la nuova guerra è stata un imbarazzo indesiderato e una potenziale minaccia sia per la Russia che per l'Iran. Entrambi hanno cercato di fermarla. Piuttosto la crisi attuale è soprattutto il risultato dell'interferenza diretta della Turchia di Erdoğan.

La Russia ha cercato a lungo di porsi come “onesto intermediario” per entrambe le parti, ma in realtà si appoggia sempre all'Armenia con la quale ha un'alleanza militare formale. Vende anche armi ad entrambe le parti ma, mentre l'Armenia ottiene le sue con uno sconto, l'Azerbaigian no. E nel gruppo di Minsk la Russia non ha fatto (almeno per quanto è noto) assolutamente nulla per convincere l'Armenia a rinunciare pacificamente al territorio che ha preso dall'Azerbaigian quasi tre decenni fa. La Russia però, che solo recentemente ha “pacificato” in modo brutale le insurrezioni jihadiste in Cecenia e in Daghestan, teme che questa nuova guerra nel Caucaso possa scatenare altri conflitti nei suoi ex satelliti in Asia centrale. Già il Kirghizistan (il più povero degli “stati successori” dell'URSS) è in tumulto per la solita questione delle elezioni truccate (la terza volta in 15 anni) e sembra vicino alla guerra civile. Con il suo alleato Lukashenko già sotto pressione in Bielorussia (4) e senza alcuna risoluzione del conflitto con l'Ucraina, l'ultima cosa di cui Putin (la cui popolarità in patria sembra in declino) ha bisogno è l'ennesimo conflitto nell'ex Impero russo e sovietico.

L'Iran è in una situazione simile. Anch'esso è nominalmente neutrale nel conflitto, ma i documenti trapelati dal 2016 mostrano chiaramente che in realtà ha dato più sostegno all'Armenia nella Guerra dei Quattro giorni. Dopo tutto, è stato l’arcinemico Israele a fornire droni e bombe a grappolo che ha dato all'Azerbaigian il vantaggio nei primi giorni di quella guerra sul Nagorno-Karabakh. Pur condividendo la stessa religione sciita, l'Azerbaigian è in gran parte laico, quindi la religione gioca un ruolo di secondo o addirittura terzo piano rispetto al nazionalismo. L'Iran contiene minoranze sia dall'Armenia che dall'Azerbaigian e confina con entrambi gli Stati. Tuttavia, lungo il confine azero, ha anche diverse province di lingua azera che ospitano gruppi nazionalisti che si agitano per entrare a far parte dell'Azerbaigian. I video su Youtube (5) mostrano manifestazioni relativamente piccole a Tabriz (capitale dell'Azerbaigian iraniano) che cantano slogan pro-azeri come “Karabakh ci appartiene e sempre ci apparterrà” come pure slogan anti-regime.

Il regime è ansioso di fermarli e la guerra si sta diffondendo. Di conseguenza, nel tentativo di disinnescare le tensioni, i rappresentanti del leader supremo iraniano Ayatollah Ali Khamenei nelle quattro province dell'Azerbaigian occidentale, dell'Azerbaigian orientale, di Ardabil e Zanjan hanno rilasciato una dichiarazione congiunta secondo cui “il Nagorno-Karabakh appartiene alla Repubblica dell'Azerbaigian” (6). Allo stesso tempo l'Imam di Tabriz ha cercato di indebolire i nazionalisti azeri chiedendo perché l'Azerbaigian sciita abbia acquistato armi israeliane. Il regime di Teheran sta anche facendo sapere che il sabotaggio israeliano di impianti nucleari, come quello di Fordow, potrebbe essere avvenuto per una fuga di notizie dalle province azere iraniane. L'ansia del regime iraniano è evidente. Saeed Khatibzadeh, portavoce del Ministero degli Affari Esteri, ha detto che il Paese non tollererà conflitti ai suoi confini e aggressioni sul suo territorio, e considera ogni aggressione ai suoi confini una “linea rossa”. Ha proseguito dicendo che si è “consultato con le parti coinvolte, così come con i governi della regione e i vicini” per porre fine ai combattimenti (7). Si è così unito alla Russia nel cercare di porre fine alle ostilità e questo ha prodotto il cessate il fuoco “umanitario” del 10 ottobre.

I loro sforzi sono messi a repentaglio dalla Turchia, che opera secondo la propria agenda imperialista per fomentare il conflitto. Solo poche settimane prima dello scoppio dell'attuale guerra, Erdoğan ha ripetuto il mantra che Azerbaigian e Turchia sono “due Paesi che battono con un cuore solo”. Con questo forse intendeva dire che la Turchia dipendeva fortemente dal petrolio e dal gas che affluiscono nei due oleodotti da Baku attraverso la Georgia (evitando il territorio armeno, ma a cui gli armeni si sono pericolosamente avvicinati nei combattimenti di questo luglio). Çavuşoğlu, il ministro degli Esteri turco aveva già chiarito le intenzioni della Turchia quando aveva annunciato che un altro “semplice cessate il fuoco” non sarebbe stato sufficiente. Il suo capo ha così respinto pubblicamente le richieste francesi, statunitensi e russe di porre fine ai combattimenti.

L'assistenza turca all'Azerbaigian non si limita solo al sentimentalismo o alla diplomazia. Il tentativo di riprendere il Nagorno-Karabakh dimostra che l'Azerbaigian ha ora il potere militare per andare oltre ciò che ha raggiunto nel 2016. Oltre alle armi provenienti dalla Russia e da Israele, i turchi hanno fornito i loro droni (8) e aerei da combattimento. Si dice anche che, come in Libia, abbiano inviato un migliaio di mercenari islamisti da Idlib in Siria per assistere le forze armate azere (9). Stanno quindi facendo tutto il possibile per assicurare all'Azerbaigian la possibilità di “riscattare” il suo territorio perduto.

Il costo umano è irrilevante, ma per distogliere l'attenzione dall'uso di bombe a grappolo su aree civili eccetera, Erdoğan sostiene che la Turchia sta svolgendo il ruolo di difensore degli oppressi. Questo include non solo i "nostri fratelli azeri” ma “gli oppressi ovunque dalla Siria alla Libia, dal Mediterraneo orientale al Caucaso” (10). Infatti, l'imperialismo turco persegue da alcuni anni una politica aggressiva dall'Asia centrale al Nord Africa.

La Turchia ha pochi amici. È in contrasto con gli Stati Uniti per l'acquisto di missili antiaerei russi S400. È dalla parte contrapposta alla Russia nelle guerre per procura in Libia (11) e in Siria (12). La sua aviazione viola costantemente lo spazio aereo greco, mentre le due parti si contendono i diritti auto-dichiarati della Turchia su grandi porzioni del Mediterraneo orientale per raggiungere le annunciate riserve di gas. Questo particolare problema ha portato la Turchia ad un conflitto in corso con Cipro, Israele, Egitto e, attraverso la Grecia, Unione Europea.

Cosa c'è dietro l'aggressione turca? Erdoğan ha subito una gravissima sconfitta in politica estera quando il governo dei Fratelli Musulmani di Morsi è stato rovesciato dall'esercito egiziano (13) nel 2013. Prima di allora il suo marchio di islamismo democratico veniva diffuso in tutto il Nord Africa e il suo prestigio era alto sia in Tunisia che in Libia. Ma ci sono ulteriori ragioni materiali all'opera dietro l'attuale aggressività della politica estera turca. Soprattutto lo stato precario dell'economia turca.

L'economia turca era in difficoltà ben prima che Covid-19 colpisse, ma come molti paesi, ha subito quest'anno un forte calo del PIL. Le entrate turistiche sono crollate e il deficit commerciale è aumentato. Di conseguenza, come molti dei cosiddetti “mercati emergenti”, la sua moneta sta subendo un'enorme pressione. Erdoğan attribuisce la colpa di ciò non alla sua precedente cattiva gestione speculativa di un'economia costruita sul debito, ma alle macchinazioni delle potenze straniere. Nel tentativo di evitare la caduta libera della lira turca, la Turchia ha speso il 45% delle sue riserve. Il Brasile è un altro “mercato emergente” che spende molte delle sue riserve per proteggere la moneta, ma è solo all'8% (14). Ma non è tutto. Il Ministero delle Finanze turco ha parzialmente nascosto l’indebitamento pubblico utilizzando le proprie banche locali che hanno acquistato un gran numero di dollari (esse stesse contribuendo alla caduta della lira). Si calcola che lo stato turco abbia un ulteriore deficit non dichiarato di almeno 25 miliardi di dollari, quindi, a meno che non ci sia una prodigiosa ripresa economica nel 2021, l’azzardo finanziario di Erdoğan finirà in lacrime (15). In realtà Erdoğan ha giocato d'azzardo per anni e rimandare l'impatto della pandemia verso il futuro è solo l'ultima trovata. Una tale scommessa potrebbe funzionare solo se la pandemia finisse presto. Cosa che non sembra più probabile.

Erdoğan sperava che, rafforzando l'influenza della Turchia nella regione e ottenendo magari guadagni economici (sotto forma di petrolio e gas a basso costo) dalle sue azioni militari in Libia e nel Mediterraneo orientale, si potesse evitare il crollo. E se non è possibile, come quasi in tutto il mondo, la colpa può sempre essere attribuita agli stranieri. Il nazionalismo è sempre stato un forte protagonista nella Turchia post-ottomana, prima con il kemalismo e ora con il partito islamico AK di Erdoğan. E quale modo migliore per rafforzare il messaggio nazionalista sulla grandezza della Turchia se non il sostegno al collega Azerbaigian di lingua turca, che in ogni caso ha goduto a lungo dell'appoggio della Turchia.

Mentre l'Azerbaigian può contare sulla Turchia, il governo armeno è costretto a giocare una partita più difficile. Il suo alleato militare, la Russia, non si è impegnata a sostenere l'Armenia, ma solo a porre fine al conflitto. Così il governo di Pashinyan è costretto a cercare sostegno in Occidente, dove nove milioni di persone della diaspora armena possono esercitare una certa pressione sui propri governi. Questa diaspora non ha tardato a ricordare al mondo il genocidio degli armeni del 1915 da parte della Turchia (16) e ci sono state manifestazioni in diverse capitali occidentali. Macron (come rappresentante dell'Ue nel gruppo di Minsk) ha già preso posizione in difesa dell'Armenia e contro l'aggressione turca, ma in effetti difficilmente invierà un sostegno militare in aiuto dell'Armenia. La principale speranza di Pashinyan è che Putin alla fine sia costretto ad agire per evitare che l'Armenia scivoli ulteriormente verso l'Occidente. Ma il trattato di difesa che la Russia ha firmato copre solo l'Armenia vera e propria, non il Nagorno-Karabakh, quindi è una carta debole da giocare. Non sorprende che Pashinyan abbia intensificato la retorica nazionalista e dichiarato la legge marziale.

Verso una risposta della classe lavoratrice

Nel contesto del capitalismo globale, la guerra in Nagorno-Karabakh è solo uno dei tanti conflitti che il capitalismo nella sua fase imperialista non può risolvere. Queste guerre possono anche vedere delle tregue, ma rimangono elementi persistenti in un mondo che sta precipitando verso un conflitto più generalizzato. La crisi attuale si sta dispiegando da oltre mezzo secolo, cinquant’anni in cui il problema centrale è stato la sopraccumulazione del capitale esistente. Nonostante siano stati tentati tutti gli espedienti - keynesismo, monetarismo, ristrutturazione, globalizzazione, finanziarizzazione e speculazione - ogni “cura miracolosa” ha portato più tardi solo a nuove contraddizioni come abbiamo visto nel 2008.

L'unica forza che può fermare tutto questo è la classe lavoratrice internazionale. I suoi rami azero e armeno hanno dimostrato negli anni di poter agire in modo indipendente quando sono stati chiamati a farlo. Nel 2012 gli autisti di autobus armeni hanno alla fine risposto ad una protesta contro l’aumento di prezzo dei biglietti, conducendo gli autobus gratuitamente (17) e ci sono stati diversi scioperi e altre proteste in Azerbaigian anche solo quest’anno. Sono stati la risposta agli sporchi trucchi che i padroni hanno fatto all'ombra della crisi di Covid. I lavoratori del settore petrolifero sono stati costretti a lavorare per mesi sulle piattaforme di trivellazione senza paga (18) e ora sono minacciati di licenziamento se non accettano un taglio del 20% dello stipendio. Altri lavoratori (come in alcune banche) stanno scoprendo che l'azienda ha dichiarato bancarotta senza pagarli per gli ultimi due mesi. Lo Stato sostiene di volerli compensare nazionalizzando le imprese fallite, ma i lavoratori hanno già sentito queste promesse, che non diventano mai realtà.

Attualmente la lotta di classe sta perdendo terreno da entrambe le parti a causa della guerra nazionalista. È sempre stato così. Persino nella Russia zarista, nel 1914, l'orgia del patriottismo fece regredire una promettente lotta di classe prima che passassero diciotto mesi e ci fossero milioni di morti e di sfollati. I rivoluzionari nella classe lavoratrice, però, non smettono di lavorare per porre fine alla guerra imperialista, non attraverso il sentimento pacifista, ma attraverso la guerra di classe. Finora la migliore dichiarazione per porre fine a questa guerra è quella di un gruppo che si firma “Gioventù azera di sinistra”. Inizia bene e non ci scusiamo di citarlo estesamente:

Il recente ciclo di escalation tra Azerbaigian e Armenia nel Nagorno-Karabakh dimostra ancora una volta quanto sia obsoleta la struttura dello stato-nazione per le realtà attuali. L'incapacità di trascendere la linea di pensiero che divide le persone in umani e non umani esclusivamente sulla base del loro luogo di nascita e che, quindi, procede a stabilire la superiorità degli “umani” sui loro disumanizzati “altri”, come unico scenario possibile per una vita all'interno di determinati confini territoriali, è l'unico occupante contro cui dobbiamo lottare. È l'occupante delle nostre menti e della nostra capacità di pensare al di là delle narrazioni e dei modi di immaginare la vita che ci hanno imposto i nostri predatori governi nazionalisti. È questa linea di pensiero che ci rende ignari delle condizioni di sfruttamento, della nostra nuda sopravvivenza nei nostri rispettivi paesi, non appena la “nazione” lancia il suo appello per proteggerla dal “nemico”.
Il nostro nemico non è un qualunque armeno che non abbiamo mai incontrato nelle nostre vite e che forse non incontreremo mai. Il nostro nemico sono le persone al potere, quelle con nome e cognome, che hanno impoverito e sfruttato la gente comune, nonché le risorse del nostro paese a loro vantaggio per più di due decenni. Sono stati intolleranti verso qualsiasi dissenso politico, opprimendo pesantemente i dissidenti attraverso il loro massiccio apparato di sicurezza. Hanno occupato zone naturali, coste, risorse minerarie per il proprio piacere e il proprio uso, limitando l'accesso dei comuni cittadini a questi siti. Hanno distrutto il nostro ambiente, abbattendo alberi, contaminando l'acqua e facendo su larga scala un completo “accaparramento attraverso l’espropriazione”.
Sono complici della scomparsa di luoghi storici e culturali e reperti in tutto il paese. Hanno dirottato risorse da settori essenziali, come l'istruzione, la sanità e il welfare, verso l’esercito, producendo profitti per i nostri vicini capitalisti con aspirazioni imperialiste: Russia e Turchia. Stranamente, ogni singolo individuo è consapevole di tutto questo, ma l'improvvisa ondata di amnesia colpisce tutti non appena viene sparato il primo proiettile sulla linea di confine tra Armenia e Azerbaigian (19).

Tutto ciò potrebbe essere scritto delle classi dirigenti e di ciò che stanno cercando di fare, a vari livelli, in ogni paese del pianeta. La critica è pertinente ma la loro conclusione è debole:

“Rifiutiamo ogni narrativa nazionalista e da stato di guerra che escluda ogni possibilità per noi di vivere insieme su questo territorio. Chiediamo iniziative di pacificazione e di solidarietà. Crediamo che ci sia una via di uscita alternativa da questa situazione di stallo attraverso il rispetto reciproco, un atteggiamento pacifico e la cooperazione.”

Sentimenti ammirevoli ma non collegati alla bella analisi di classe da cui partono. La brutalità della guerra imperialista è parte integrante di questo decadente sistema sociale ed è solo attraverso il suo rovesciamento che possiamo sbarazzarci degli stati (i quali esistono per preservare la proprietà dei possidenti; quando questi spingono alla guerra per “difendere il paese”, intendono in realtà difendere ciò che loro possiedono). Solo la guerra di classe può fermare la guerra imperialista e questo non può essere fatto da questo o quel gruppo di lavoratori isolati in questo o quel paese. Solo la classe lavoratrice mondiale che agisca di concerto può cambiare le prospettive per il futuro.

Finora la classe operaia mondiale non è stata capace di rispondere agli attacchi fisici e ideologici che ha subito nell'ultimo mezzo secolo. Molti hanno riposto la loro fiducia in vari riformatori sedicenti socialisti, che hanno però fallito in ogni occasione. Tuttavia, in questo mondo Covid sono apparsi segni che la classe operaia stia iniziando a riscoprire sé stessa. Quest'anno abbiamo visto oltre 400 scioperi solo negli Stati Uniti e numeri simili in Europa. In Asia e in America Latina la lotta di classe è ancora più acuta, sebbene in gran parte non riportata dai media.

Sono segni di cambiamento ancora piccoli, ma essenziali per il futuro, in quanto segni di attività autonoma dei lavoratori. La liberazione dal caos capitalista non potrà arrivare come un dono da parte di chi ha il potere − può essere raggiunta solo da un movimento vivo, internazionale e internazionalista che ponga la classe prima della nazione. Ovunque la classe dirigente può combattere per il “suo paese” (dopotutto effettivamente possiede la proprietà in ognuno di questi). La classe lavoratrice non ha né proprietà né nazione ed è costretta a uccidere i suoi compagni di lavoro dalla disgustosa ideologia nazionalista.

Contro gli stati, che esistono per fare le guerre in difesa di una piccola frazione della popolazione del pianeta, il nostro slogan rimane: nessuna guerra se non guerra di classe. E il nostro compito rimane lo stesso: continuare la lotta per costruire una vera Internazionale della classe lavoratrice. Solo creando un movimento operaio internazionalista con un programma e un'organizzazione internazionale dediti alla creazione di un mondo senza Stati, senza confini, eserciti e sfruttamento, la comunità umana potrà arrivare ad una vera fioritura. Un mondo da conquistare. Una specie da salvare.

Jock
Giovedì 15 ottobre 2020

(1) Gli altri membri sono Bielorussia, Germania, Italia, Portogallo, Paesi Bassi, Svezia, Finlandia e Turchia, nonché Armenia e Azerbaigian.

(2) Oil and the Shifting Sands of Imperialism

(3) “Nagorno-Karabakh: New Opening, or New Peril?”. International Crisis Group. 4 July 2016)

(4) Per i dettagli sulla Bielorussia si veda: Winds of Change in Belarus: Neither Dictatorship Nor Democracy Offer Anything for the Working Class, Strikes in Belarus Escalate as Lukashenko's Power Wavers, and Belarus: Between Imperialist Feuds and Class Movements

(5) You tube.com

(6) BBC.com

(7) BBC.com

(8) Vedi Laura Pitel in the Financial Times 8 October: ft.com

(9) ft.com

(10) ft.com

(11) The New Imperialist Alignments in Libya

(12) The Turkish Invasion of Syria

(13) Egypt’s Crisis Goes On: Power Struggles at the Top Whilst Those at the Bottom Die of Hunger and Poverty

(14) ft.com

(15) Vedi foreignpolicy.com

(16) Vedi The Armenian Genocide 1915

(17) jacobinmag.com

(18) oc-media.org

(19) criticatac.ro

Venerdì, October 23, 2020

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.