Occupazione: finiti gli incentivi la crisi torna a bussare alla porta

Dopo quattordici trimestri in cui i dati forniti dall’ISTAT registravano un andamento economico positivo, anche se modesto, nel III trimestre del 2018 l’economia italiana ha ricominciato ad ansimare: il segno meno è ricomparso accanto al PIL e il recupero che aveva caratterizzato gli ultimi anni mostra la sua fragilità (1).

Gli acquisti di titoli di stato da parte della BCE sono passati dai quasi 8 miliardi di dicembre 2017, ai 4 miliardi di giugno 2018 per scendere fino ai 1.75 di ottobre 2018. Garantire alle banche un investimento redditizio e con poco rischio, ha significato introdurre liquidità nel sistema economico, lubrificandone i meccanismi. Appena lo stimolo ha cominciato a ridursi anche la ruggine e gli scricchiolii hanno ripreso a farsi sentire.

Negli ultimi mesi in Italia sono calati i consumi ma soprattutto gli investimenti e quindi la domanda interna, da cui la risposta negativa del PIL. Sorvoliamo qui sul fatto che al clima generale di incertezza sugli investimenti abbiano contribuito anche l’allargarsi dello spread e le politiche velleitarie portate avanti fin qui dal governo sovranista. Il rallentamento è comunque un dato di fatto riscontrabile anche negli altri paesi, seppur in modo meno drastico.

Le statistiche nei prossimi mesi potrebbero anche tornare ad avere il segno leggermente positivo, ma la realtà di fronte alla quale ci troviamo da anni è quella di una vera e propria depressione economica di ampiezza e profondità completamente misconosciute dalla narrazione ufficiale, secondo cui l’origine di tutto è stata una crisi finanziaria causata da eccessi speculativi.

L’attuale situazione, invece, tocca ripetere ancora, ha la sua prima causa nella difficoltà dei capitali a valorizzarsi nella produzione di merci e servizi. Questo processo richiede necessariamente di applicare alla produzione lavoro vivo e di estrarre da questo lavoro, sfruttandolo, un profitto sufficiente a motivare l’investimento.

È da quest’ultimo punto di vista, quello del lavoro e delle condizioni offerte a chi accede al mondo del lavoro, che vogliamo dare un rapido sguardo a quanto sta avvenendo in Italia negli ultimi mesi. Il tasso di disoccupazione, quella sorta di feticcio statistico attorno al quale politici, economisti e scienziati sociali si accapigliano per avvalorare ciascuno le proprie tesi, è in crescita da due mesi; in ogni caso, sulla sua effettiva capacità di rappresentare lo stato di salute del mercato del lavoro, non sono solo i marxisti a nutrire dei dubbi.

La stessa Banca centrale europea (2) tempo fa ha osservato che gli indici ufficiali di disoccupazione sono largamente sottostimati perché, nonostante il recupero del numero di occupati a cui abbiamo assistito in molti paesi europei negli anni recenti, non c’è stata alcuna conseguenza visibile sulle dinamiche salariali, non si è vista l’attesa pressione inflazionistica che potrebbe scacciare definitivamente il fantasma di una spirale deflattiva, molto temuta dai banchieri di Bruxelles, e infatti i consumi ristagnano. Secondo la BCE la sovraccapacità del mercato del lavoro nella zona euro si può quantificare in media in un 18%. Gli stessi organismi che rappresentano l’élite finanziaria europea dunque sanno bene che se contassimo non solo le persone in cerca di lavoro ma anche gli scoraggiati e i sottooccupati, il tasso di disoccupazione in Europa sarebbe molto ma molto più elevato.

In Italia poi la situazione è anche più critica della media europea, per debolezze storiche e in una certa misura croniche del tessuto produttivo. Contano molto l’incidenza del lavoro nero (si stimano oltre due milioni di persone) e la connessa evasione, la dimensione media delle imprese e il grado di inserimento nei circuiti economici internazionali.

È vero, come rileva orgoglioso Di Maio, che a novembre 2018, primo mese di applicazione completa del molto sventolato “decreto dignità”, c’è stata una piccola inversione nella tendenza di lungo periodo a privilegiare le nuove attivazioni a tempo determinato. Questa inversione è però troppo flebile e drogata dagli incentivi delle decontribuzioni per essere considerata indicativa di una variazione nel trend che prosegue da anni e che ha visto il numero di lavoratori precari superare ogni volta il record dell’anno precedente e oltrepassare i tre milioni, su un totale di diciotto milioni di lavoratori dipendenti. Di Maio poi non dice che con le nuove misure del governo, che riducono la tassazione sulle partite IVA, si registra anche un aumento nel numero degli “indipendenti”, che spesso sono lavoratori subordinati mascherati perché l’azienda ha offerto loro come alternativa alla risoluzione del contratto, l’apertura di una partita IVA, risolvendo alla radice il problema del pagamento dei contributi e dell’eventuale licenziamento.

In un decennio la disoccupazione giovanile è raddoppiata (3) ed è cresciuto in modo significativo non solo il precariato e il part time involontario, ma anche il numero dei giovani scoraggiati, che non intraprendono più alcuna azione di ricerca attiva di un lavoro. Le stime dicono che sono oltre tre milioni e mezzo (4), che vanno ad aggiungersi ai disoccupati ufficiali, numero che varia di mese in mese ma non lontano dai tre milioni. La categoria degli scoraggiati in precedenza era riservata prevalentemente alle donne che, in seguito ad un periodo di lontananza dal lavoro per carichi familiari, avevano difficoltà a rientrare nei processi produttivi e decidevano dopo qualche tentativo di rinunciare. Ora la categoria accoglie invece in gran parte giovani, soprattutto ma non solo nelle regioni meridionali: tra l’altro sono stati fatti studi sociologici sulla correlazione molto alta tra tassi di disoccupazione giovanile e tassi di astensione elettorale o di voto “antisistema” (5). Nulla di particolarmente sorprendente in effetti, solo un tassello in più che aiuta a collocare la programmata riforma del reddito di cittadinanza e dei centri per l’impiego in un contesto in cui, se non si recuperano in modo almeno palliativo gli emarginati dalla crisi, non si riesce più a salvare la facciata di tutto l’edificio costruito dalla retorica democratica.

Dunque, anche se i livelli occupazionali sono tornati formalmente ai livelli precrisi, in realtà sul mondo del lavoro è passato uno tsunami che ha colpito in modo indiscriminato salari e condizioni di lavoro. Lo tsunami è stato in una certa misura occultato esteriormente dai salvataggi pubblici e dalle politiche di allentamento creditizio, ma ora, tra le macerie lasciate dall’onda devastatrice, i più esposti sono proprio i giovani che si affacciano al mondo del lavoro, e che devono farlo alle nuove condizioni imposte dalle necessità di valorizzazione del capitale.

“Bisognerebbe investire di più in ricerca e produrre merci e servizi a più alto valore aggiunto”, diranno coloro che ci accusano di essere dei menagrami. Sì, rispondiamo noi, peccato che sia proprio l’introduzione di nuova tecnologia ad aver falcidiato i posti di lavoro e favorito le delocalizzazioni; presto o tardi la nuova tecnologia si generalizza, e riducendo la quota di lavoro vivo, riduce anche i tassi medi di profitto.

Rispondono invece i nostalgici di Keynes: “si dovrebbe mettere in atto una sorta di New deal, una politica generalizzata di supporto della domanda tramite investimenti pubblici fatti anche finanziandosi a debito per far riprendere l’occupazione e con essa i consumi”. Ma i paesi nei quali la crescita è stata più debole negli ultimi due decenni sono proprio quelli che devono portarsi dietro un fardello di debito pubblico e relativi interessi più alto, vedi Italia e Giappone. Senza contare che tutta l’economia mondiale è già gravata da livelli di debito pubblico e privato che non si vedevano dai tempi della Seconda Guerra mondiale, quando lo sforzo per finalizzare tutte le energie economiche all’impresa bellica richiedeva il ricorso al debito in modo sistematico e centralizzato (6).

Capitalisticamente parlando l’unica via di uscita ad una crisi di quest’ampiezza è il fallimento e l’espulsione dal mercato di un numero di imprese sufficiente a produrre una svalutazione complessiva del capitale operante. Ciò lascerebbe alle imprese superstiti i margini per ricominciare ad operare con un rapporto tra capitale fisso e lavoro tale da garantire la redditività degli investimenti. Questo processo lascerebbe ovviamente sulla strada – o meglio sta già lasciando - milioni di disoccupati e di poveri e comunque richiede anni per compiersi. Altrimenti, l’unico altro modo che il capitalismo conosce e che purtroppo ha già sperimentato storicamente per risolvere il problema della svalutazione del capitale è quello della guerra.

Di fronte a tali rosee prospettive difficile non pensare al vecchio motto: “…nulla da perdere se non le proprie catene”.

MB

(1) ISTAT. Nota trimestrale sulle tendenze dell’occupazione, 16 dicembre 2018 ISTAT. Il mercato del lavoro: una lettura integrata. III trimestre 2018.

(2) La lente BCE sul lavoro: “la disoccupazione? E’ il doppio delle stime”. Francesca Basso, Corriere della sera, 11 maggio 2017.

(3) Gianfranco Zucca (a cura di) Il ri[s]catto del presente: giovani e lavoro nell’Italia della crisi. Soveria Mannelli: Rubettino, 2018. Pag. 11.

(4) Luca Tremolada. Occupazione: in Italia oltre 3.5 milioni di scoraggiati. Siamo i primi in Europa. Il sole 24 ore. 23 maggio 2016.

(5) Roberta Carlini. Quanto ha pesato la disoccupazione sul risultato del referendum. Il manifesto, 6 dicembre 2016.

(6) Michael Roberts. The long depression: marxism and the global crisis of capitalism. Chicago: Heymarket books, 2016.

Giovedì, January 10, 2019