Trump non si ferma, sanzioni anche per la Turchia

E' notizia recente che il presidente americano ha messo dazi del 50% sull'acciaio e del 20% sulle importazioni di alluminio dalla Turchia, in linea con gli altri dazi comminati alla Russia e alla Cina, per non parlare delle sanzioni all'Iran degli Ayatollah.

In questo caso, ufficialmente, Trump avrebbe ordinato l'ennesima guerra commerciale, nella fattispecie contro la Turchia, perché il governo di Ankara si rifiuta di rilasciare il pastore americano Andrew Brunson, accusato di essere uno dei collaboratori di Gulem, presunto capo e ispiratore del fallito colpo di stato del 2016 contro il presidente Erdogan. Che tutti i presidenti americani non sopportino che i propri soldati o cittadini colti in fragrante in operazioni militari o in atti di spionaggio o, addirittura come in questo caso, accusati di collaborazione in un colpo di stato contro un paese terzo, alleato degli Usa e membro della Nato, vengano arrestati è un dato di fatto. Che il caso Brunson sia la causa dell'attuale tensione tra i due paesi è tutto da verificare. Il contenzioso è in atto da quasi due anni, in questi giorni una delegazione americana doveva recarsi ad Ankara per “risolvere” il problema e le due diplomazie al completo stavano lavorando al caso per renderlo risolvibile con soddisfazione da ambo le parti. Come un fulmine a ciel sereno arriva l'iniziativa, come al solito unilaterale di Trump, che sconvolge il tavolo delle trattative e tratta lo “storico alleato” alla stregua del più pericoloso avversario, come se fosse un nemico da combattere subito e senza esclusioni di colpi.

In realtà le pesanti sanzioni che sono cadute sull'economia turca, formalmente in rapida crescita, di fatto alle corde da anni, travagliata da una inflazione del 20 %, da una diminuzione delle esportazioni e da un debito pubblico in enorme aumento, sono portatrici di cattivi presagi. Lo stesso Presidente ha dovuto alzare i tassi di interesse per evitare una pericolosa fuga dei capitali turchi all'estero, fuga che avrebbe depresso ulteriormente la debole economia nazionale arrancante lungo un già affaticato cammino. La lira turca ha immediatamente perso il 35% nei confronti del dollaro e poco meno nei confronti della altre divise forti con le quali aveva interscambi commerciali. Oggi, dopo la svalutazione ci vogliono 6,8 lire per avere un dollaro. Alla borsa di Ankara c'è il caos tra gli operatori finanziari esortati dallo stesso presidente Erdogan ad acquistare la divisa nazionale nel tentativo di frenarne la caduta. Inoltre, il minacciato rialzo dei tassi d'interesse americani, deciso da Trump e dalla Federal Reserve, spingerà i grandi investitori ad abbandonare i paesi deboli e ad andare ad investire negli Stati Uniti. Certamente la Turchia rientra tra questi paesi e il suo destino finanziario è certamente segnato, come nei piani della Casa Bianca. E allora tanto sfracello per Padre Brunson? Poco credibile.

Alle spalle della vicenda ci sono una serie di fattori che hanno scatenato l'ira funesta di Trump. In primo luogo il presidente americano non ha mai digerito il trattato gas-petrolifero del Turkish Stream che Mosca ha progettato come uno dei tanti tentativi di bypassare l'Ucraina e di approvvigionare con maggiore sicurezza l'Europa del sud e, attraverso una serie di pipeline, la Germania. Il progetto prevederebbe il passaggio nelle acque territoriali turche, con l'accordo di Ankara, già concesso, e con un interscambio tra i due paesi di circa 100 miliardi di dollari all'anno. Il tutto fuori e contro gli interessi americani che da anni boicottano i progetti russi e mai e poi mai li vorrebbero veder realizzati con un loro alleato, per giunta membro della Nato e pedina strategica nel Mediterraneo. Secondariamente, Trump non ha mai digerito il comportamento di Ankara quando ha, di fatto, rotto l'alleanza con Israele, dopo una serie di contrasti politici nati da una iniziativa pacifista, partita dalle coste turche e bombardata dall'aviazione israeliana. (operazione piombo fuso 2008). Rottura militare che mai Washington avrebbe voluto, perché contava non poco sull'asse Ankara-Tel Aviv prima ancora dell'avvento di Trump alla casa Bianca.

Infine, ci sono le esplicite accuse di Erdogan al governo americano proprio a proposito del fallito colpo di stato del 2016, ordito da Gulem, che secondo i Servizi turchi avrebbe agito con l'apporto degli Usa, in quanto l'apparato politico americano incominciava a non fidarsi più dell'eclettico comportamento in termini di politica internazionale di Erdogan. La stangata, quindi, ha avuto origini lontane, di vario genere e non può essere ridotta ad un fatto di cronaca, anche se grave. In aggiunta la rabbiosa reazione di Trump ha messo in crisi tutte le borse europee. Milano, come al solito la peggiore, registra un – 2,5 finale. Parigi un meno 1,59%, Londra perde lo 0,97, Francoforte l'1, 99. La Borsa di Istanbul ha, tutto sommato, contenuto il passivo, chiudendo a -2,3. Mentre Wall Street cede solo lo 0,65% e il Nasdaq lo 0,4.

La reazione di Erdogan è al momento blanda perché la “botta” è appena arrivata, ma le prime recriminazioni e le pesanti ritorsioni sono già state annunciate. Ankara non ha mai digerito che, durante la guerra contro lo Stato Islamico, la coalizione con a capo gli Usa si servisse come alleati delle milizie curde per combattere la resistenza dell'Isis. Non ha digerito che nei piani di ipotetica spartizione della Siria a lei spettassero solo i brandelli meno significativi e strategicamente meno importanti, lasciando ad altri le decisioni sulla nascita o meno di zone curde, con il rischio di vedersele diventare stati come quello iracheno di Massuod Barzani. Situazione non tollerabile da Erdogan perché avrebbe rinfocolato le speranze dei curdi turchi e dato più determinazione nazionalistica al PKK di Ochalan.

Per il momento la prima contro mossa di Erdogan è quella di rinunciare alla fornitura richiesta agli Usa di caccia F-35 americani, fatta già da mesi. Sfidando apertamente le sanzioni Usa contro Mosca, ha commissionato missili S-400 russi e si è accordato con la Russia per la costruzione della più grandi centrali nucleari mai progettata sulle sponde del basso Mediterraneo. Inoltre Erdogan vuole rafforzare il progetto del già citato Turkish Stream, il gasdotto che i russi vorrebbero costruire in alternativa al Southstream che avrebbe visto una stretta collaborazione con l'Eni, ma mai messo in opera per l'opposizione di Bruxelles sostenuta da Washington, che aveva tutti gli interessi a rompere il monopolio russo nel rifornimento di gas verso l'Europa. Mosse che hanno progressivamente spostato l'asse della politica internazionale turca verso la Russia e l'ex nemico n°1: l'Iran. La mazzata dei dazi doganali non ha fatto altro che accelerare le operazioni di allineamento verso il nuovo fronte imperialista. Se diamo soltanto un'occhiata al nuovo schieramento Russia-Turchia-Iran, con l'aggiunta della Cina, anch'essa colpita dalla sanzioni doganali, è più che evidente che Trump vede nel settore euroasiatico il suo nemico da combattere ad ogni costo e senza esclusioni di colpi. Un'altra ritorsione, questa certamente più complessa, e dalle conseguenze ancora non calcolabili che Erdogan ha minacciato di mettere in atto contro gli Usa, è l'uscita dalla Nato o, in alternativa, una presenza all'interno ma con compiti non più di allineamento politico-militare, ma di boicottaggio nei confronti dell'ex alleato, diventato oggi acerrimo nemico.

Se così fosse per gli equilibri internazionali sarebbe un colpo di difficile assorbimento. Il cielo sopra le manovre sui dazi e sulle sanzioni comminati da Trump si riempirebbe di nubi nerastre, cariche di esplosive tensioni, non propriamente meteorologiche. Tensioni di natura conflittuale anche sul terreno di scontri militari, se non diretti, sempre meno giocati in termini di “procura” e sempre più vicini in termini di spazio imperialistico da occupare e molto più devastanti per chi ne deve subire gli effetti. Subirebbero tali conflitti le popolazioni inermi che si trovano, loro malgrado, nell'occhio del ciclone e i proletariati delle aree interessate che finirebbero per giocare il ruolo di doppia vittima. Da vittime che subiscono della guerra gli “effetti collaterali” a vittime che devono imbracciare il mitra per difendere o attaccare interessi che non sono i propri, ma quelli dello schieramento imperialista dove è collocata la loro borghesia.

FD
Lunedì, August 13, 2018