La lunga guerra di Siria che non finisce mai

Mai fermarsi alle apparenze. Accordi, alleanze, progetti di cessate il fuoco, di soluzioni negoziali delle crisi e delle guerre, non valgono nulla se cozzano contro gli interessi di quegli imperialismi che hanno sottoscritto accordi e alleanze sancite con tanto di firma e di stretta di mani da parte dei plenipotenziari. Anche la diplomazia che parla di pace e di negoziati è uno strumento di guerra e di intimidazione. Nulla, tanto meno le menzogne, possono uscire dalla logica dello scontro, della guerra ad oltranza sino al raggiungimento degli obiettivi che l'imperialismo impone.

Scrivevamo in Prometeo (n° 19, giugno 2017) che tutti gli accordi sulla ri(sc)omposizione della Siria dopo la sconfitta dell' IS difficilmente sarebbero andati in porto a causa dei pressanti interessi imperialistici che hanno scatenato la nascita della stessa crisi siriana. Scrivevamo anche che la fine dello Stato islamico non sarebbe stata la fine dello jihadismo e che, indipendentemente da questi fattori, gli scontri tra i maggiori attori della tragedia siriana sarebbero continuati se l'intricata composizione e contraddittorietà degli accordi non fossero andate in porto con piena soddisfazione di tutti. Scrivevamo infatti “Anche se, va detto, un simile quadro, (di suddivisione in aree da gestire ndr) qualora avesse avuto una minima possibilità di essere pensato al meglio per gli spartitori e adeguatamente proposto al tavolo dello smembramento della Siria, dopo le recenti manovre americane di replica delle sanzioni contro la Russia e contro l'Iran, rimarrebbe inevitabilmente sulla carta, spalancando contemporaneamente la porta all'intensificazione degli scontri armati che prolungherebbero di anni il calvario siriano e iracheno, con il non improbabile rischio di incendiare l'intera area, aumentando il massacro di proletari, di contadini, di inermi civili sempre più vittime della barbarie della crisi del capitalismo internazionale”. Detto fatto. Gli accordi di Soci tra Russia e Usa sono letteralmente saltati. Quelli di Astana tra Russia, Iran e Turchia reggono, ma con interpretazioni ampiamente estensive da tutte e tre le parti. Che cosa non ha funzionato? Tutto.

Così come era una farsa la lotta allo Stato Islamico, non perché non ci fosse la necessità di toglierlo di mezzo, ma perché era la scusa per perseguire in Siria, come in Iraq, obiettivi economici e strategici che, con o senza lo stato islamico, dovevano essere raggiunti a qualunque costo. Le poche sacche di resistenza di ciò che è rimasto dell'ambizioso sogno del “Califfo nero” servono ancora a tenere in vita una guerra la cui ferocia è pari soltanto all'avidità degli attori imperialisti dell'area. A intorbidire le acque ci hanno pensato per primi gli Stati Uniti.

L'8 febbraio 2018 l'aviazione americana bombarda le postazioni militari di Assad in territorio siriano con la scusa di aiutare le truppe della SDF (Alleanza delle forze democratiche siriane) da sempre alleate degli Usa e circondate dalle truppe di Assad. In precedenza il Pentagono aveva espresso l'intenzione di dare vita ad un esercito di 30 mila uomini a sostegno dei ribelli al governo di Assad, con la presenza attiva di qualche decina di esperti militari e di duemila marines. Come al solito i bombardamenti hanno colpito anche ospedali, (non è la prima volta), case civili e ucciso indiscriminatamente buona parte della popolazione inerme. L'obiettivo di Washington è quello di rafforzare i suoi legami con il PYD (forze democratiche siriane) rimasta l'unica formazione curda in sintonia con le strategie del Pentagono. Poi di rafforzare le propria presenza nell'est del paese, in modo da chiudere il corridoio che negli obiettivi iraniani dovrebbe collegare Teheran al Libano degli Hezbollah, passando dall'Iraq e dalla Siria. Una strategia che contemporaneamente dovrebbe indebolire il regime di Assad, creare problemi alla Russia e impedire all'Iran di affacciarsi sul Mediterraneo. In altri termini, la guerra continua anche senza il paravento dello stato islamico. Tutte le potenze imperialistiche presenti proseguono a combattersi con o contro i curdi, che di questa guerra sono stati, ovviamente in chiave nazionalistica, gli interpreti maggiori, quelli che hanno combattuto sul territorio, rimettendoci in termini di uomini ma con pochi risultati sul piano del riconoscimento politico, nonostante lo strumentale aiuto militare e la copertura politica del governo americano. Proprio per questo il governo di Ankara ha rotto gli indugi.

Dopo avere per mesi minacciato fuoco e fiamme contro i curdi iracheni, iraniani e siriani, rei di essere collusi, se non collaboratori, con i “terroristi” del PKK, il governo turco è passato all'azione. Indispettito dall'atteggiamento americano, che negli ultimi anni di guerra si è apertamente schierato a favore delle milizie curde che stazionano ai confini della Turchia del sud, e insoddisfatto degli stessi accordi di Astana con Russia e Iran, che gli consentivano la gestione solo di una piccola zona curda in territorio siriano, Erdogan ha dato il via ad una vera e propria azione di guerra contro il regime di Assad e contro i curdi del nord est della Siria. L'attacco si è prodotto nei confronti delle milizie curde YPG (Unità curde di protezione popolare che sarebbe il braccio armato del PYG - Partito dell'unione democratica). L'azione aveva il doppio scopo di indebolire il vecchio nemico Assad e di dare un colpo mortale alle aspirazioni autonomistiche dei curdi siriani. L'attacco nella zona siriana di Afrin, eufemisticamente denominata operazione “ramo d'olivo”, mira ad impedire la coesione di forze curde nel nord est siriano, ai confini meridionali della Turchia. In seconda battuta l'operazione pretende di creare una “zona di sicurezza” profonda una trentina di chilometri, giustificando il tutto con la presunta o reale alleanza tra lo YPK e il partito di Ochalan. E' più che noto che l'intervento turco nella Coalizione a conduzione americana non avesse come scopo quello di combattere il “famigerato” Stato islamico, quanto quello di combattere i curdi del PKK sul proprio territorio e tutte le formazioni curde, irachene e siriane. Il tutto non senza un previo accordo con la Russia. Non è un caso che, pochi giorni prima del lancio dell'attacco militare nella zona di Afrin, il primo responsabile dell'intelligence turca Hakan Fidan e il capo di stato maggiore Hulusi Akar si siano recati a Mosca per importanti colloqui sulle strategie da tenere in Siria. Per di più è proprio l'aviazione russa che controlla il cielo sopra la cittadina di Afrin e i caccia turchi non si sarebbero avventurati in una simile operazione senza l'assenso, più o meno tacito, di Mosca. Per di più Mosca non si è lasciata scappare l'occasione di denunciare gli stati Uniti quali artefici della riapertura delle ostilità e di rimettere tutto in discussione dopo gli accordi presi. E sempre Mosca denuncia la non casualità temporale, oltre che militarmente provocatoria, di Israele nei confronti della Siria e dell'Iran. Nello specifico, lasciando da parte le rispettive dichiarazioni dei tre governi, ognuno dei quali recita la propria versione sul volo dei droni e sull'abbattimento del caccia israeliano che ha violato il territorio aereo siriano, il fatto nuovo è che il governo di Tel Aviv è entrato nel vivo delle vicende belliche con il sostegno politico di Washington. Lo sconfinamento con relativo abbattimento del caccia israeliano apre una “nuova” frontiera. L'episodio prende le mosse da lontano. Nei mesi precedenti la fine del 2017, nel deserto del Neged, si sono tenute delle esercitazioni militari che simulavano un possibile scontro aereo con Mig russi e caccia iraniani. Nella base aerea israeliana di Uvda, nel deserto del Negev, per settimane fino al 16 novembre sono state addestrate decine di aerei di Stati Uniti, Italia, Francia, Germania, con la partecipazione anche di Polonia e India in quella che è stata denominata “operazione “Blue Flag 2017”. In totale 40 aerei stranieri e 30 jet israeliani si sono addestrati a parti contrapposte (“blu” gli stranieri, “rossi” gli israeliani) in una simulazione di guerra aerea sotto il ferreo controllo tecnico e con precise impostazioni fornite dagli americani.

La guerra di Israele, in ovvia e stretta collaborazione con l'alleato americano, ha l'obiettivo di intimorire il nemico libanese degli Hezbollah, di impedire l'aggancio territoriale con l'Iran attraverso il corridoio Libano-Siria-Iraq, tattica che funge da supporto anche alle strategie americane nel suo scontro con Russia e Iran, con in più la speranza di avere il controllo, (a guerra finita?) di quel pezzo della Siria meridionale che confina con il Libano a perenne difesa delle tanto controverse, quanto strategiche, Alture del Golan.

Nulla di nuovo, dunque, sul fronte orientale? Tutti contro tutti. Tutt'altro. Le tensioni si intensificano, gli attori imperialisti si confrontano senza esclusioni di colpi, ai vecchi comprimari se ne aggiungono di nuovi. Restano le vecchie prede ma gli avvoltoi si moltiplicano in una spirale di barbara follia, sinonimo di un capitalismo che pur di sopravvivere alla proprie contraddizioni è disposto a distruggere tutto e tutti. A cancellare dalla faccia della terra intere città. A costringere alla fuga milioni di persone. A creare le condizioni per il ripresentarsi di malattie che sembravano debellate per sempre. A fare della morte e della devastazione il palcoscenico dell'ennesima tragedia dell'umanità.

FD, 12 febbraio 2018
Mercoledì, February 14, 2018