Di miseria in miseria (politica) - Sugli scioperi cosiddetti generali del sindacalismo “di base”

Poco tempo fa, abbiamo pubblicato alcune considerazioni veloci sulla miseria politica che caratterizza parte, non piccola, dell'ambiente “di sinistra” definito o autodefinito antagonista, rivoluzionario ecc.

Ritorniamo, sempre in breve, sull'argomento “miseria”, ma questa volta lo sguardo cade sull'area variopinta del cosiddetto sindacalismo di base o, come ama chiamarsi, “conflittuale e di lotta”. L'occasione è data dalla proclamazione di ben due scioperi generali a distanza di quindici giorni l'uno dall'altro; il primo, indetto dall'USB, il 21 ottobre, il secondo il 4 novembre, promosso da USI AIT-CUB-SGB.

Per che cosa il mondo del lavoro dipendente è chiamato a “lottare”, a perdere una giornata (o più) di salario, ad aggiungere dunque un altro carico al peso dei sacrifici che il capitale quotidianamente ci impone? Le differenze nei contenuti dei due “eventi” sono minime, per non dire inesistenti: è il solito ricettario o lista della spesa radical-riformista all'insegna del “vogliamo tutto”, pur restando dentro il quadro del sistema capitalistico e per di più in una fase storica di crisi acuta del sistema stesso. Si illude e ci si illude che potrebbe portare a casa quanto scritto nella lista con il solito metodo ossia con scioperi “spot” annunciati almeno quaranta giorni prima, se non addirittura, con novanta giorni d'anticipo. I generi da comprare? I soliti. Diminuzione generalizzata dell'orario di lavoro (l'USI la quantifica: 30 ore settimanali), abolizione della legge Fornero, pensione a sessant'anni (ma già che ci siamo, perché non prima?), contro la precarietà, per il “diritto all'abitare”, contro il Jobs act e la legislazione antiproletaria di questi anni, per lo sviluppo delle energie verdi ecc. ecc. Le rivendicazioni, anche quelle di carattere più apertamente politico, per esempio contro le spedizioni militari all'estero comunque mascherate, sono, appunto, di fatto sovrapponibili, tranne che per quella riguardante la difesa della “Costituzione del 1948”, messa in apertura del ricettario di cui sopra dall'USB. Qui, l'anima stalinista del vecchio ceto politico gruppettaro anni '70 emerge prepotente, non si trattiene e rispolvera gli slogan del PCI – cioè dello stalinismo nostrano – degli anni “gloriosi”: difesa e applicazione della Costituzione, che non è, allora, la carta d'identità (un po' ritoccata, è vero) della borghesia italiana, ma di tutto il popolo, padroni e operai, sfruttatori e sfruttati. E ancora: investimento della “mano pubblica” (cioè dello stato, cioè della borghesia), difesa dell'indipendenza nazionale ossia de «la libertà e la sovranità democratica del popolo italiano, oggi sottoposto a un vergognoso attacco da parte dei governi USA e della Germania e della burocrazia della UE» (dal manifesto dell'USB; in originale tutto in maiuscolo...). Manca solo l'invito a intonare l'inno di Mameli o a sventolare il tricolore e il quadretto sarebbe perfetto, ma non è detto che un giorno o l'altro non vedremo anche questa, perché le premesse ci sono già tutte.

Lasciamo da parte, si fa per dire, la considerazione per noi ovvia che la Costituzione è nata tra aspre lotte operaie represse nel sangue dai partiti che l'hanno partorita, e l'analisi del sindacalismo “di base”, per la quale rimandiamo rimandiamo ai nostri numerosissimi interventi. Qui vogliamo “solo” rilevare che di vergognoso non c'è solamente il presunto attacco degli USA e della Germania al “popolo italiano”, la violazione più o meno presunta della Costituzione da parte di Renzi o l'accettazione (questo sì un po' più vergognoso) del Testo Unico sulla Rappresentanza da parte dell'USB – all'origine della scissione da questa organizzazione e della formazione di un altro sindacatino, il SGB – c'è ben altro di cui arrossire, se il ceto politico nominato prima coltivasse sinceramente una qualche forma di moralità proletaria (ci si passi l'espressione). Per esempio, eviterebbe di costringere segmenti della classe che aderiscono al sindacalismo “di base” a fare scioperi aventi i medesimi contenuti ma collocati in date diverse, indebolendo così la “forza d'urto” di uno sciopero che di forza d'urto di per sé ne ha ben poca; l'unica cosa che si potenzia è invece lo sterile rituale (uno sciopero “generale” in autunno, uno in primavera) necessario per mantenere in vita l'apparato del sindacalismo in formato mignon. L'incidenza sul padronato, “pubblico” e privato, è minima (o poco più, in alcuni specifici settori), ma si fa nascere sconforto e delusione in quei lavoratori che vorrebbero sì opporsi attivamente agli attacchi che la borghesia da decenni rovescia a ondate ininterrotte sulla classe “operaia”, ma che si rendono conto – anche senza aver maturato una critica coerente del radical-riformismo – che la polverizzazione degli scioperi non porta da nessuna parte. Nasce così il dilemma se essere messi nel mazzo dei crumiri, dei non scioperanti, o buttare via inutilmente una giornata di stipendio, aderendo a uno sciopero di facciata e comunque inefficace. Dilemma reale, a cui noi rispondiamo, in linea di massima, dando l'indicazione di scioperare – cioè di scegliere uno sciopero: l'uno vale l'altro – a seconda dell'ambiente sindacal-politico in cui ci si trova, sia per non essere confusi con i crumiri che per avere un'occasione in più di presentare con la nostra stampa, coi nostri interventi nelle piazze e tra i nostri compagni di lavoro le posizioni del partito.

Infine, ma non per importanza, c'è un altro aspetto, veramente vergognoso, che getta discredito sul cosiddetto sindacalismo “di lotta” e dimostra, se mai ce ne fosse bisogno, come esso sia mosso da miserabili logiche di bottega, nel più trito stile politicantesco: l'atteggiamento tenuto di fronte all'uccisione a Piacenza dell'operaio egiziano a un picchetto. A nostra conoscenza, di fronte a un atto così grave, i vari sindacatini “conflittuali” non hanno voluto, potuto o tutte e due le cose insieme – ma ciò non attenuerebbe le loro responsabilità – proclamare immediatamente uno sciopero generale unitario contro quella morte non accidentale sul lavoro. Certo, lo sciopero non avrebbe trascinato nelle piazze milioni di lavoratori, ma avrebbe dato una risonanza maggiore a un fatto così grave, sarebbe stato un “atto dovuto” verso la classe che i sindacatini dicono di rappresentare, se avessero davvero a cuore i suoi interessi, sia pure in un'ottica riformista. Ma da questa gente è inutile aspettarsi un gesto che rompa con la logica di bottega di cui è imbevuta, con l'accettazione del quadro borghese e delle sue leggi antioperaie; inutile, se non come atto d'accusa, la domanda: se non scioperi per questo, per che cosa scioperi?

CB
Venerdì, October 14, 2016