La chimera del “diritto al lavoro” (I parte)

Perché - nel capitalismo - il “lavoro” non può essere un diritto per tutti. Ovvero, la riduzione della giornata lavorativa (il “lavorare meno, lavorare tutti”) a parità di salario: la grande chimera e il grande inganno dei riformisti “radicali”

Tornando al nostro “salario”, dunque, esso non è altro che l’equivalente di quella parte – e solo una parte! – del frutto della fatica di lavoro del lavoratore asservito, ossia una parte della giornata lavorativa che egli è costretto a “vendere” al capitalista. Questa parte si chiama “lavoro necessario”, ed equivale al tempo di lavoro necessario medio occorrente per produrre l'equivalente dei mezzi necessari all'operaio per vivere (il suo salario, per l'appunto).

Su tale suddivisione della giornata lavorativa tra lavoro remunerato e lavoro non remunerato al lavoratore si fonda interamente (ripetendosi e consolidandosi nel tempo) il rapporto capitalistico tra capitale e lavoro. È infatti dalla parte non remunerata della giornata lavorativa che deriva profitto o guadagno del capitalista. Un rapporto la cui contraddizione intrinseca e ineliminabile genera squilibri, crisi sempre più disastrose, miseria e crescente polarizzazione sociale, guerre sanguinose.

Il capitalista acquista l’intera giornata lavorativa del lavoratore (poniamo di 8 ore), ma gliene retribuisce soltanto una parte (poniamo 4 ore), intascando sotto forma di “profitto” tutto ciò che viene prodotto nella rimanente parte (1).

Emerge con chiarezza, dunque, che interesse del capitalista è in ogni caso contenere (e se possibile diminuire) quanto più gli è possibile la quota di incidenza dei salari sui suoi costi di produzione, perché da tale diminuzione egli ottiene un aumento della quota profitti di cui si appropria. Premesso, come già spiegato nelle precedenti puntate, che è solo dal lavoratore (e non invece dai macchinari in sé) che il capitalista può estrarre ossia ricavare plusvalore (2).

Obiettivo e interesse del capitalista è dunque contenere quella quota sia in valore assoluto (massa dei salari), sia in valore “relativo”, ossia in rapporto al capitale totale investito. In entrambi i casi è interesse del capitalista rendere il più possibile minore il tempo di produzione orario della singola merce o, il che è lo stesso, ottenere nella stessa unità di tempo una quantità sempre maggiore di merci prodotte: si tratta del cosiddetto aumento di produttività del lavoro. Praticamente il mantra che quotidianamente ci viene propinato sotto l’alibi e attraverso lo slogan della “non più rinviabile e imprescindibile necessità di riformare il mondo del lavoro”, la cui solo ultima tappa è il Jobs Act renziano. Vediamo di comprenderne il perché.

La tanto sbandierata “produttività del lavoro”

In tal modo il capitalista ottiene due enormi vantaggi: a) può infatti diminuire il tempo di lavoro “necessario” (la parte retribuita in salario) e quindi aumentare il “plus di tempo di lavoro” (parte non retribuita) di cui si appropria sotto forma di plusprodotto (o plusvalore) intascandolo, poi con la vendita, come maggiore profitto per sé: in una parola può incrementare il suo guadagno; b) egli può far scendere il costo della singola merce (occorrendo meno tempo di lavoro per produrla) e dunque il suo prezzo di vendita (vendita che gli consente di intascare il plusvalore come profitto monetizzandolo). Il capitalista infatti non vive e opera in un universo tutto suo, ma in competizione con altri concorrenti, che egli può battere solo rendendo competitive, nei prezzi di vendita, le sue merci. Ecco perché la sua principale “preoccupazione” è ridurre i suoi costi di produzione, fra i quali rientra soprattutto, e non certo da ultimo, il “costo del lavoro”.

Da ciò risulta evidente come il rapporto tra queste due componenti del prezzo di una merce - il “costo” rappresentato dal salario e il guadagno rappresentato dal profitto (oltre, naturalmente, al costo delle capitale costante e fisso entrato in ogni singola merce: costo energia, materie prime, ammortamento macchinari, ecc.) sia inversamente proporzionale: se diminuisce il costo aumenta il guadagno e viceversa. Da qui deriva con altrettanta evidenza l’assoluta non comunanza di interessi tra i due soggetti: il capitalista avrà infatti interesse a guadagnare di più (massimizzare il suo profitto) e per questo sarà costretto o a contenere/abbassare la quota di salario o ad aumentare la produttività del lavoro (costringendo il lavoratore a produrre nello stesso tempo precedente molte più merci) sia per rendere competitive le sue merci sia per incrementare il suo guadagno. Al contrario, il lavoratore avrà interesse a massimizzare il suo salario, sottraendo così parte del plusvalore intascato dal suo padrone.

Essendo dunque, in ultima istanza, il costo di produzione (già conteggiati a monte i costi fissi: materie prime, ausiliarie e ammortamenti) sempre uguale alla somma tra “costo del lavoro” e guadagno del capitalista, se si considera invariato un certo costo di produzione, aumentando l’ammontare del primo (salario) diminuisce necessariamente l’ammontare del secondo (profitto) e viceversa. Se, infatti, dovendo difendere il livello del profitto raggiunto o volendo aumentarlo – mantenendo invariato il costo totale di produzione – e potendo agire per lo più solo sul salario, il capitalista è costretto a intervenire su questa “voce”, perché altrimenti sarebbe costretto ad alzare il prezzo delle sue merci: ma così le sue merci diverrebbero più costose e dunque egli sarebbe “meno competitivo” rispetto ai suoi concorrenti e rischierebbe di non vendere le sue merci e di dover chiudere i battenti. Un “lusso” che egli non può affatto concedersi.

Ecco perché 1) a parità di salario e 2) senza aumentare in misura consistente la produttività del lavoro - leggi lo sfruttamento del lavoratore derivante dal produrre di più nello stesso tempo di lavoro - (e in misura percentualmente maggiore rispetto al costo di nuovi macchinari che quella produttività consentano di far aumentare) non è affatto possibile, nel capitalismo, garantire il lavoro a tutti e per di più tramite la riduzione della giornata lavorativa: ciò significherebbe infatti, per il capitalista, la riduzione del suo “guadagno”, unica molla che lo spinge ad investire nel processo produttivo i suoi capitali. In assenza di un aumento di produttività del lavoro, infatti, si ridurrebbe il profitto del capitalista che fosse costretto a pagare al lavoratore, per un ammontare di merci minore del precedente (riducendosi le ore di lavoro giornaliero), il medesimo salario di prima, cosa che potrebbe fare solo rinunciando ad una parte del suo guadagno. Lo stesso (e peggio) avverrebbe se – sempre a produttività del lavoro immutata - il lavoratore riuscisse ad ottenere addirittura un aumento di salario a parità di giornata lavorativa.

Facciamo un esempio per chiarire il concetto, partendo proprio dalla parola d’ordine più “radicale” avanzata da certi settori sindacali e… purtroppo non solo: “contro i licenziamenti, lavorare tutti meno e a parità di salario”.

  1. Poniamo il caso che un imprenditore, per produrre una massa di merci del valore di euro 200,000, impieghi un capitale iniziale complessivo (o investimento, per lui equivalente ad un costo iniziale) di euro 100.000 così suddiviso: euro 40.000 utilizzati come monte salari ed euro 60.000 utilizzati per quello che chiamiamo capitale costante (macchinari, materie prime, energia, ecc.). Poniamo che i suoi dipendenti lavorino l'intera giornata e che, alla fine del ciclo produttivo, egli venda tutta la merce prodotta incassando euro 200,000. Alla fine egli avrà “guadagnato”: ricavi (euro 200,000) – costi (euro 100,000) = euro 100,000 (guadagno).
  2. Ipotizziamo ora che il nostro “sindacalista radicale” riesca a convincere (?!) il nostro imprenditore a raddoppiare il numero di lavoratori assunti ma dimezzando la loro giornata lavorativa e dando loro lo stesso salario precedente. Ipotizziamo anche che non si verifichi alcun incremento di produttività del lavoro e che dunque la produzione finale sfornata sia di euro 200.000 come prima, essendo di fatto uguale il monte ore lavorative complessivo. Supponiamo quindi che 40 lavoratori per l'intera giornata (8 ore cadauno - ipotesi 1) produrranno la stessa quantità di 80 lavoratori per mezza giornata (4 ore cadauno - ipotesi 2). Totale monte ore in entrambi i casi: 320.

Cosa accadrebbe però al capitalista?

Raddoppiando il numero di lavoratori, per metà giornata lavorativa ciascuno allo stesso precedente salario, il monte salari totale che il capitalista sarebbe costretto a sborsare sarebbe doppio, passando da € 40,000 a euro 80,000. Fermi restando i costi fissi (€ 60.000), il suo capitale iniziale complessivo salirebbe così da € 100,000 a € 140,000 (+ € 40.000 di “nuovi” salari per +40 nuovi lavoratori). Ma il suo venduto-merci resterebbe lo stesso di prima, ossia € 200,000. Dunque il suo guadagno finale sarebbe adesso: ricavi (€ 200,000) – costi (€ 140,000) = € 60,000 ossia un guadagno quasi dimezzato rispetto al precedente (€ 100,000).

Ora chiediamoci realisticamente: ma perché mai il nostro imprenditore dovrebbe acconsentire ad una simile richiesta?! Che vantaggio ne trarrebbe?

Assolutamente nessuno, anzi subirebbe un duplice svantaggio: non solo dovrebbe anticipare più capitale iniziale (dunque affrontare maggiori costi) ma realizzerebbe alla fine un guadagno inferiore quasi della metà. E se consideriamo che è proprio il guadagno massimo il suo obiettivo e ciò che lo muove ad investire capitale, sarebbe un fesso se si lasciasse convincere dal sindacalista di cui sopra; per non parlare della sua necessità, vista prima, di abbassare, piuttosto, (e non aumentare!) i suoi costi di produzione per poter abbassare i prezzi delle sue merci e poter così essere più competitivo rispetto ai concorrenti.

E dunque – aggiungiamo noi – il nostro sindacalista “radicale” non fa che raccontarci frottole, che illuderci nel farci rivendicare come ottenibile ciò che nel capitalismo egli sa bene essere semplicemente impossibile. Ma non è finita qui...

PF

Continua sul prossimo numero

(1) Il profitto propriamente detto è ciò che resta del ricavo incassato, cioè derivante dalla vendita delle merci prodotte, una volta detratti i costi di produzione totali (costo del lavoro, materie prime, costo energia, manutenzioni per usura macchinari e quote di ammortamento, ecc.).

Dal profitto (o ricavo netto rispetto ai costi, o utile), che la ragioneria borghese chiama lordo, vanno poi detratte le tasse allo Stato, eventuali fitti, la quota interessi da restituire ad eventuali prestatori di capitale (per lo più banche e società finanziarie: ossia esponenti comunque della stessa classe capitalistica borghese, anche se della sua “frazione parassitaria” in quanto non produttiva di nuova ricchezza, cioè non coinvolta direttamente nell'estorsione di plusvalore durante il processo produttivo, e dunque di nuovo valore per la società) e la quota dividendi agli azionisti (qualora, non sempre, ne sia prevista e concordata la distribuzione). Ma lo Stato, altri borghesi (banchieri ecc.) non fanno altro che prelevare o dividersi una quota del profitto a spese del capitalista industriale.

(2) Vedi “Da dove proviene il salario e da dove il profitto”, BC n. 5/2014)

Martedì, June 24, 2014

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.