La crisi, le promesse del governo Renzi, il piano Fiat e altre brevi considerazioni

La crisi frettolosamente data per superata, rimane ancora sul terreno del ristagno economico e, soprattutto, le sue devastanti conseguenze non accennano a diminuire. Ripresa si, ripresa no, ripresa lenta sono i commenti preoccupati della borghesia italiana che è alla spasmodica ricerca di come rimettere in moto la macchina del profitto. Nonostante le dosi da cavallo di iniezioni di capitali verso le banche, gli istituti di credito continuano a non finanziare l'economia reale. Preferiscono investire speculativamente in buoni del tesoro o in altre attività parassitarie pur di non rischiare prestiti alle imprese, le cui attività economiche non danno ancora sufficienti garanzie. A loro volta le imprese non investono sia per mancanza di capitali, sia per paura di essere penalizzate da un mercato che continua ad essere privo di prospettive, fatti salvi alcuni piccoli segmenti legati prevalentemente all'esportazione di manufatti di lusso. La domanda di beni di consumo è in costante regressione. La contrazione di salari e degli stipendi, frutto della disoccupazione e dell'ulteriore diminuzione del potere d'acquisto dei redditi da lavoro dipendente, toglie dal mercato buona parte della domanda interna. La disoccupazione è arrivata a livelli insopportabili, in modo particolare quella giovanile, e l'eventuale ripresa, quando partirà, non sarà in grado di reintegrare quell'enorme esercito di riserva di forza lavoro che la crisi ha prodotto in questi ultimi sei anni. Il risparmio è a zero e milioni di lavoratori sopravvivono sotto la soglia di povertà. L'unico ammortizzatore sociale che ha in qualche modo funzionato è stata la famiglia. Molti giovani vivono grazie al mantenimento dei genitori, se non con le pensioni dei nonni, ma anche questo welfare familiare si è quasi completamene asciugato. Il Pil continua a decrescere mentre i consumi sono fermi ai minimi livelli.

Perché il capitale possa iniziare ad uscire dalla crisi, perché le banche possano riprendere a finanziare le imprese e, quest'ultime ad investire, necessita che la crisi porti sino in fondo il processo di distruzione di valore capitale in termini di chiusure d' imprese e di abbassamento dei salari. Solo allora il mercato avrà gli “spazi” per riprendere a macinare profitti.

La borghesia imprenditoriale ne è così consapevole che per bocca del presidente della Confindustria Squinzi, ha voluto ribadire che è giunto il momento di mettere le imprese rimaste in condizioni di operare, che occorre non “demonizzare” il profitto che rimane l'unica linfa vitale del capitalismo. Gli ha fatto eco il ministro Guidi, ex presidente dei giovani imprenditori, aggredendo l'altro corno del problema: la disoccupazione. Al medesimo Convegno di Trento, dove si è data appuntamento la “crema” dell'economia italiana, il ministro Guidi ha dichiarato con la dovuta enfasi che “solo un'impresa che fa profitti può assumere”.

Come dire, prima creiamo tutte le condizioni perché l'impresa possa estorcere un “sufficiente” plusvalore e fare “adeguati” profitti, poi possiamo parlare di assunzioni, altrimenti andremo di male in peggio. Lo stesso capo del governo Renzi a fronte dell'elemosina di 80 euro nette al mese per chi guadagna meno di 25 mila euro all'anno, ha imposto per legge di liberalizzare ulteriormente la precarietà sino a 36 mesi dopo i quali, se l'impresa non assume, vale soltanto una ammenda pecuniaria. Il che significa: “imprenditori fate della forza lavoro quello che volete anche dopo i tre anni “canonici” che al massimo ve la cavate con il minimo dei rischi, un'ammenda pecuniaria Le leggi del capitalismo sono queste, o ci mettiamo in testa di rispettarle (il messaggio va alle Banche, agli uomini di governo ma, soprattutto, al proletariato perché se ne faccia una ragione) oppure saranno guai per tutti. A corollario del tutto si potrebbe citare la solita parabola del “siamo tutti sulla stessa barca” dimenticando, come al solito, che sulla stessa barca c'è chi rema e chi batte il tempo.

Chi ha dimostrato di aver capito tutto in tempi utili è stato il signor Marchionne. Per quanto riguarda il discorso relativo alla distruzione di beni capitali, il manager Fiat ha chiuso gli impianti meno remunerativi, ha ridotto la produzione negli altri, ha spostato capitali e investimenti negli Usa e decentrato l'amministrazione a Londra e in Lussemburgo. Nonostante le promesse e la bellezza di 7,5 miliardi di Euro intascati dalle elargizioni dello Stato italiano grazie alle rottamazioni, negli stabilimenti Fiat con sede in Italia non ha investito un centesimo. Sull'altro fronte, quello della realizzazione dei profitti e dello sfruttamento dei lavoratori, il suo discorso è stato chiaro. Per quelli che avranno la “fortuna” di mantenere il posto di lavoro il Piano industriale Fiat, per l'impianto guida di Pomigliano, prevede una maggiore flessibilità in entrata e in uscita. Significativi aumenti dei carichi di lavoro che altro non rappresentano se non un aumento dello sfruttamento lasciando inalterato, o diminuendo, il numero dei lavoratori. Passaggio ai 18 turni compreso quello di notte e maggiore flessibilità nel reparto stampaggio. Aumento obbligatorio degli straordinari che passano da 40 a 80 ore e riduzione delle pause. Il tutto allo scopo di decurtare il salario in busta paga e di ottenere un aumento dello sfruttamento e, quindi, dei tanto necessari profitti per l'Azienda Fiat.

Secondo il piano Marchionne la metà dei lavoratori Fiat Italia è in esubero mentre le produzioni più profittevoli, come la Maserati e la Jeep, verranno prodotte in Cina e in America con la metà del numero di lavoratori precedentemente impiegati. Mentre negli impianti italiani, la dove ve ne fosse la necessità, oltre ai licenziamenti, si introdurrebbero in larga scala i contratti di solidarietà (ovviamente per il capitale), il cui senso è sintetizzato nell'assioma che con un salario, magari ridotto rispetto a quello precedente, si pagano due operai invece di uno. Con tanto di guadagno anche da parte dello Stato che risparmia circa il 50% sugli esborsi per la Cassa Integrazione. Il che significa super sfruttamento per chi rimane in fabbrica, fame e miseria per chi è sbattuto fuori. Mentre i giovani continuano ad essere impossibilitati ad accedere a un qualsiasi posto di lavoro i vecchi sono costretti a lavorare di più e più a lungo, con salari sempre più di fame e a mantenere figli e nipoti. Sulla questione ci si è messo, sempre nel Convegno di Trento, anche il ministro Padoan che, in termini espliciti, ha tenuto a precisare che di accorciamento dei empi pensionistici non se ne parla neanche, più probabile che ci siano dei ritocchi sull'allungamento della vita lavorativa. Se il Piano Fiat dovesse dare il viatico a quello che il presidente Renzi e i suoi ministri hanno prospettato come la condizione prima per uscire dalla crisi con lo slogan “crescita e del lavoro”, per i prossimi quattro anni siamo a posto. Piaccia o no questo è il capitalismo: combatterlo o mantenerlo, noi siamo per la prima delle ipotesi.

FD
Giovedì, June 19, 2014

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.