Nel migliore dei mondi possibili, si appesantiscono le catene del capitale

Tutti al mare?

Ristoranti pieni, aerei al completo, alberghi col “tutto esaurito” nei fine settimana: tale il quadro della società italiana, secondo il presidente del consiglio più longevo della storia repubblicana.

Dunque, dov'è la crisi, dove sta il problema? In effetti, se “gli italiani” appartenessero tutti all'aera clienti della BMW, i cui conti non sono mai stati così floridi, problemi non ce ne sarebbero, anzi, ma il punto è che, anche tenendo conto di quei proletari e affini che, per scimmiottare la borghesia, si ammazzano di straordinari, la clientela della casa automobilistica tedesca non è rappresentativa, in termini di reddito, della popolazione italiana (né di qualunque altro paese) e, in particolare, della sua componente maggioritaria, il proletariato. Per quest'ultimo, e per strati sempre più larghi di piccola borghesia, la crisi ha picchiato duro e, stando così le cose, niente dice che ci sarà un'inversione di tendenza, al contrario.

Dietro la cortina di menzogne

Data per superata alla fine del 2009, due anni dopo la crisi è ancora qui a degradare le condizioni di vita di milioni e milioni di persone; a ogni sussulto delle borse, promette – e mantiene – di scaricare addosso al mondo del lavoro dipendente – compreso quello falsamente autonomo - sacrifici su sacrifici, come se, in questi decenni, con un “crescendo” sinfonico, non ne avesse fatti abbastanza. Evidentemente, no, per un capitale affamato di plusvalore e di ogni altra risorsa che gli consentano di rimettere in carreggiata una macchina economica in bilico sul precipizio. Basta scorrere i rapporti emessi dagli uffici studi delle più diverse istituzioni borghesi o i lavori di ricercatori onesti, nonché lontani dall'essere pericolosi bolscevichi, per rendersi conto di quanto, finora, il lavoro salariato-dipendente abbia dato per la causa dei suoi sfruttatori. E' la stessa Confindustria a certificare che crollano i consumi e i redditi delle famiglie, nonostante gli squallidi show di “Papi”:

In termini relativi, rispetto alla media europea, il reddito degli italiani passa dal 107% del 1996 al 93% nel 2012 (1).

Per inciso, sarebbe interessante sapere se nella proiezione sul 2012, la Confindustria avesse già calcolato, oltre che gli effetti delle manovre estive, anche quelli derivanti dalle manovre aggiuntive sollecitate dalla Commissione Europea; è probabile, infatti, che quelle statistiche dovranno registrare un altro arretramento.

Naturalmente, il fenomeno non riguarda solo l'Italia, è una tendenza generalizzata, ma nel paese dei balocchi berlusconiano è più accentuata, almeno stando ai calcoli dell'OCSE:

grandi riduzioni del reddito da lavoro individuale (per esempio in caso di perdita del posto di lavoro) tendono a tradursi in contrazioni del reddito disponibile familiare superiori a quelle osservate in altri paesi. (2).

Siccome è, appunto, una tendenza che viene da lontano, del progressivo impoverimento della “working class” italiana (immigrati compresi, va da sé) non è responsabile solo il governo di centro-destra, dato che, cosa per noi scontata, ogni compagine governativa ha dato il suo bel contributo per pompare ossigeno nei polmoni esausti del capitalismo, il che non può avvenire che a spese della “working class” medesima. Sarebbe come accusare, quale unica responsabile della fame e dell'oppressione, la sola Maria Antonietta, che invitava sprezzantemente gli affamati a mangiare brioches, in mancanza del pane, invece del sistema signorile agonizzante: l'irrisione getta sale sulla ferita, ma, di per sé, non la provoca.

Gli studi sociologici più seri dicono che da una quindicina d'anni almeno, anche in Italia hanno fatto la loro comparsa quelli che la sociologia anglosassone chiama i “working poors”, poveri al lavoro, lavoratori che faticano a galleggiare – se galleggiano – appena sopra la linea della miseria vera e propria. I dati sui salari medi italiani – collocati nei gradini più bassi della graduatoria OCSE – sono ampiamente noti, ma vale la pena di richiamarli, giusto per mettere meglio a fuoco la realtà operaia e, in generale, del lavoro dipendente. Secondo un'indagine sulla classe operaia commissionata dal PD, la retribuzione media è di 1100 euro al mese; il 13% degli operai supera i 1500 euro netti, il 43% guadagna tra 1000 e 1500 euro, mentre il 41% è sotto i mille euro3. Altre analisi danno un quadro addirittura peggiore, per cui resta confermato il fatto che la classe operaia non solo, come sempre, è ben lontana da quel quadretto lezioso e pacchianamente falso dipinto dal fu presidente del consiglio, ma sta pagando duramente, più duramente di altri settori sociali, le convulsioni del capitalismo:

La categoria degli “operai e assimilati”, nella statistica della povertà Istat del 2009, è in assoluto quella che ha subito il peggioramento più sensibile, rispetto a un 2008 già pesante, al Sud, dove stava da sempre su livelli elevati. Ma anche al Nord, nel Piemonte della Fiat globalizzata di Marchionne, nella Brianza frenata dalla crisi dei mercati centro-europei, nel Nord-est della fine del miracolo dei capannoni, eccetera (4).

Siccome piove sempre sul bagnato, è la Campania a presentare il quadro peggiore, con un tasso doppio di “working poors” rispetto alla media nazionale; ma anche la “capitale morale”, Milano, ha visto un boom di richieste operaie al fondo assistenziale istituito dal cardinal Tettamanzi, che ha tracciato

così la figura-tipo del richiedente aiuto: “Uomo, coniugato, tra i 41 e 50 anni, sposato con figli minori, operaio specializzato e disoccupato da meno di un anno” (5).

Oltre ai bassi salari, cassa integrazione, licenziamento, riduzione d'orario, mancato rinnovo del contratto interinale, a termine, eccetera, sono le cause più frequenti di questa progressiva discesa verso la povertà senza altri aggettivi, uno scivolamento che non sembra trovare molti ostacoli. Ancora nel settembre scorso, c'erano, secondo la CGIL, 470.000 lavoratori in cassa integrazione a zero ore, con una crescita delle richieste del 50% rispetto ad agosto, il che annullava la diminuzione osservata nei tre mesi precedenti6, mentre nei primi sette mesi di quest'anno erano già stati persi 2,2 miliardi di salario, equivalenti a 4600 euro a testa.. D'altra parte, solo per fare un esempio, in quasi tutti gli stabilimenti del gruppo Fiat, da tempo imperversa la cassa integrazione, si lavora qualche giorno al mese, se va bene, il che significa che anche molti operai dell'indotto non se la passano tanto meglio. Dunque, perché stupirsi se, a Torino,

In molte aziende metalmeccaniche tra il 30 e il 50 per cento di lavoratori sono indebitati con cessioni del quinto dello stipendio...? (7).

In questo scenario, ancora una volta sono i giovani ad essere i più colpiti, cioè licenziati per primi: alla fine di ottobre, l'Istat registrava un nuovo aumento della disoccupazione giovanile al 29,3%, in un conteso di aumento generale dei disoccupati (dall'8% all'8,3%), mentre la Banca d'Italia quantificava gli “scoraggiati”, cioè coloro che non lavorano né studiano e disperano di trovare un'occupazione, in due milioni e duecentomila persone. Nemmeno le donne, al solito, possono esultare, se tutte le statistiche registrano un calo degli impieghi operai femminili e un incremento, al contrario, di quei lavori nei servizi – in particolare “alla persona” – caratterizzati, come si sa, da bassi salari e precarietà elevata. È da questo settore, oltre che dalla crescita del part-time (imposto), che era venuto il maggior contributo al leggero calo della disoccupazione vantato dal ministro Sacconi prima dell'autunno, a riprova che il “sistema Italia” stava uscendo dal tunnel, ammesso che vi fosse mai entrato.

Per completare il discorso, non va naturalmente dimenticato un altro segmento primario della classe operaia e “assimilati”, vale a dire gli immigrati, occupati, in genere, nel «lavoro operaio di fascia bassa», che «subisce l'impatto più diretto della crisi» (8). Per loro, com'è evidente, la perdita del posto di lavoro diventa doppiamente drammatica, perché vengono esposti al rischio dell'espulsione, con tutto quello che ne segue, soprattutto, forse, per coloro che hanno messo radici e famiglia nel paese ospitante (si fa per dire).

Anche quello che un tempo era considerato il comparto privilegiato del settore dipendente, il pubblico impiego, da un pezzo è esposto alla tempesta “neoliberista”, che, in Italia, prende (o prendeva) le sembianze del ministro Brunetta, così ringhioso nei confronti dei “fannulloni” da diventare la macchietta di se stesso, benché gli attacchi agli statali siano tutt'altro che comici. La precarietà dilaga, la perdita del potere d'acquisto degli stipendi si ingrossa di anno in anno, a causa del blocco dei contratti e degli scatti di anzianità (con le ovvie ricadute sul calcolo della pensione), imposto anche e non da ultimo grazie alla complicità aperta di alcuni sindacati, all'opposizione puramente di facciata di altri e al verbalismo velleitario di altri ancora, tanto petulanti nello spararle grosse, quanto impotenti nel mettere in pratica i loro fiammeggianti proclami. Se poi, come pare, il governo di unità nazionale metterà realmente in vigore anche nel settore pubblico criteri di gestione della forza lavoro tipici del privato – per esempio, la cassa integrazione e la mobilità obbligatoria – va da sé che il “pubblico” perderà anche il ricordo dei privilegi – in gran parte presunti – di cui godeva un tempo ormai lontano e, soprattutto passato per sempre. Altre volte avevamo osservato che, nella fase ascendente del ciclo di accumulazione, l'espansione dell'impiego statale costituiva uno strumento di controllo politico-elettorale da parte dei partiti, oltre che uno degli elementi delle politiche keynesiane di espansione della spesa statale in sostegno del ciclo economico. Tutto questo era possibile finché le condizioni complessive del sistema permettevano di prelevare una quota del plusvalore complessivo prodotto dal sistema (cioè dallo sfruttamento operaio nella “economia reale”) e destinarla a settori importanti, sì, per i capitalismo moderno, ma, nella sostanza, consumatori improduttivi (per il capitale) del plusvalore estorto nel circuito della produzione di merci. Con la fine del ciclo di accumulazione cominciato nel secondo dopoguerra, anche il settore pubblico, parallelamente a quello privato, è stato investito da ondate successive di ristrutturazioni, di cui le privatizzazioni sono un elemento primario, facendo inoltre da apripista alla legislazione fascistoide antisciopero, esportata e rafforzata, recentemente, nel lavoro privato.

Ovviamente, né lo smantellamento progressivo dei “diritti(9), né le privatizzazioni hanno migliorato l'efficienza dei servizi e nemmeno, spesso, hanno ridotto la spesa pubblica. In generale, tutto questo ha lo scopo di alimentare parassiti di ogni ordine e grado che si rimpinzano il portafoglio a spese del proletariato, costretto in tal modo a sostenere due, tre volte un processo di accumulazione in gran parte fittizio, in cui, cioè, giocano un ruolo centrale il parassitismo, la predazione pura e semplice delle risorse esistenti nella società (in primis, il salario), senza che le ricchezze così rastrellate vengano poi dirette, se non molto parzialmente, all'investimento produttivo.

Le catene del capitale si appesantiscono

Predazione e appesantimento delle catene sulla forza lavoro sono le due strade principali percorse oggi dal capitalismo, visto che, data l'attuale composizione organica del capitale, è difficile - ai fini della rianimazione del saggio del profitto - abbassarne la parte costante (c), mentre è più agevole intervenire sulla componente variabile (v), cioè la forza lavoro, benché anche su questo versante i margini di compressione si siano ormai molto ridotti (10). Come abbiamo già sottolineato altre volte (11), non c'è studio economico serio che non rilevi come molti settori economici siano appesantiti da un eccesso di capacità produttiva, che rimane dunque parzialmente inutilizzata (12), e che nel settore auto il costo della forza lavoro incida al massimo per l'otto per cento sui costi complessivi del prodotto. Come si ricorderà, era stato lo stesso Marchionne a sottolinearlo qualche tempo fa, quando scatenò l'offensiva antioperaia sul fronte di Pomigliano. Un astratto buon senso potrebbe trovare assurdo l'accanimento padronale nei confronti di un fattore produttivo la cui incidenza sul valore finale di una merce è così bassa, ma questa è l'assurdità genetica del capitalismo. Solo dallo sfruttamento della forza lavoro nasce il plusvalore-profitto, che è l'unica ragione di vita del modo di produzione capitalistico. Dunque, soprattutto quando non è possibile modificare – se non in minima parte – la componente costante del rapporto di capitale, ogni sforzo deve essere diretto a ridurre la forza lavoro alla sottomissione totale, senza vincoli di sorta, alle esigenze dell'impresa: anche le briciole servono, senza contare l'effetto di disciplinamento che certi provvedimenti hanno su tutto il corpo operaio. È stato calcolato che la soppressione dei dieci minuti di pausa, applicata per la prima volta a Pomigliano, corrisponde al due per cento del monte ore lavorate, equivalente al lavoro di cento operai o a un risparmio di tre milioni di euro all'anno ossia

meno di un terzo di quanto hanno ricevuto nel 2009 Marchionne e Montezemolo messi insieme. (13).

Ovviamente, si tratta di una cifra ridicola, rispetto alle dimensioni della Fiat, ma questa e le altre misure hanno appunto lo scopo di costringere gli operai a intensificare ancora di più lo sforzo lavorativo, a subire, quindi, senza ribellarsi, un aumento dello sfruttamento, perché nella lotta accanita che imperversa sul mercato mondiale, anche gli spiccioli possono contare. Se poi, grazie al regime da caserma, si ottiene qualcosa in più, tanto meglio.

È quello il senso delle leggi che il governo ha partorito prima di cedere il passo a un esecutivo più determinato nel fare gli interessi generali della borghesia e non, prima di tutto, quelli particolari di un suo membro, per quanto potente. Il famigerato articolo 8 della manovra di agosto – per non dire della proposta di Sacconi sui licenziamenti di fine ottobre - non contiene solo la possibilità di licenziare in deroga sia agli accordi contrattuali che alle leggi dello stato, ma una deroga generale praticamente a ogni aspetto della normativa che regola o regolava il mercato del lavoro (14). Certamente, ciò sarà possibile solo se padroni e sindacati, nelle singole imprese, raggiungeranno “specifiche intese”, ma questo, per i padroni, è decisamente il male minore. Può bastare la disponibilità di un sindacato “rappresentativo” a livello aziendale o territoriale, magari tirato fuori per l'occasione dal cilindro della creatività padronale (per esempio, un qualche fantomatico sindacato padano o porcheria simile), oppure, più semplicemente, il senso di responsabilità dei sindacati tradizionali che, come si sa, hanno un cuore particolarmente tenero nei confronti degli imprenditori in difficoltà, vero o falso che sia. Poco conta che i sindacati confederali abbiano poi dichiarato che con l'accordo del 28 giugno/21 settembre tra le “parti sociali”, di fatto è stata sterilizzata la voce dell'articolo 8 riguardante i licenziamenti: a parte le smentite della Confindustria, svelta nel dichiarare che si avvarrà di tutti gli strumenti messi a disposizione dalla legge, la “filosofia” di fondo del famigerato articolo è la stessa che sorregge quell'accordo. Anche la CGIL, dopo aver recitato la parte di difensore intransigente dei lavoratori, rifiutando la firma ai “patti” separati sottoscritti due anni fa dai sindacati “complici” – che aprivano la strada agli accordi aziendali e territoriali o di prossimità, come li definisce la neolingua padronale (15) – ora, per il solito senso di responsabilità nei confronti del “Paese”, ha dato il suo importante contributo alla nuova articolazione delle gabbie entro cui è rinchiusa la forza lavoro. Il contratto nazionale, se mai continuerà ad esistere, dà solo delle indicazioni generali, che prevedono, per l'appunto, ampia libertà di movimento azienda per azienda, territorio per territorio, purché al sindacato – qualunque esso sia – non venga negato il ruolo di cogestore della forza lavoro. L'attenuazione, dunque, del contratto nazionale non significa affatto l'attenuazione del ruolo del sindacato come ingranaggio fondamentale del comando padronale, al contrario, lo affina e lo adegua alle necessità proprie di quest'epoca turbolenta del capitalismo mondiale. Non è un caso che nel paradiso terrestre della fabbrica capitalista, la Cina, il governo incentivi la contrattazione collettiva, quale elemento regolatore della classe operaia. Questa è una costante nella storia del movimento operaio: quando la repressione aperta non basta più o, addirittura, può risultare controproducente, per amministrare la lotta di classe e circoscriverla entro il terreno prettamente “economico”, incoraggia il passaggio dalla spontaneità ribelle alle relazioni sindacali, purché non abbiano la pretesa di scavalcare il recinto della contrattazione e sconfinare nella contestazione politica del sistema capitalistico. Sarebbe proprio questa la strada decisa dal governo cinese (16), da quando si susseguono non tanto i suicidi operai (di cui alla burocrazia “comunista” importa ben poco), ma gli scioperi spontanei – che spesso si trasformano in rivolte vere e proprie – sempre più in grado di strappare aumenti salariali consistenti (17). Questa effervescenza operaia impensierisce non poco la borghesia (di stato e non) e, intrecciata ad altri fattori, comincia a rendere meno appetibili, rispetto a un tempo, gli investimenti da parte dei capitali esteri, tanto che negli USA starebbe prendendo piede una tendenza al ri-localizzazione delle attività manifatturiere:

nei prossimi cinque anni, oltre il 15% dei beni attualmente fabbricati da aziende statunitensi nell'Impero di mezzo e poi importati tornerà ad essere “made in USA” [...] gli operai nella repubblica popolare guadagnano sempre di più e, contemporaneamente, i lavoratori yankee diventano sempre più produttivi [tanto che] gli USA si stanno trasformando in un “paese a basso costo”: i salari si riducono o aumentano solo moderatamente, il dollaro si indebolisce, la forza lavoro è sempre più flessibile (18).

Si conferma, dunque, quella perequazione tendenziale verso il basso della forza lavoro mondiale, di cui abbiamo parlato tante volte: gli operai dei paesi “emergenti” strappano, non senza lotte durissime, un aumento del salario, quelli dei paesi avanzati scendono o precipitano verso il basso. Naturalmente, le distanze tra le rispettive condizioni di lavoro e di esistenza sono ancora ampie (19), ma, certamente, si è prodotto un reciproco avvicinamento. D'altra parte, la cura da cavallo cui è stato – ed è – sottoposto il lavoro salariato in “occidente”, a cominciare dagli Stati Uniti, qualche effetto lo ha avuto. Giusto per richiamare alcuni dati,

in un trentennio i lavoratori americani hanno visto crescere in media di 163 ore complessive la durata annuale della loro fatica [...] per le donne è stato di ben 305 ore [...] All'inizio del nostro secolo l'orario di lavoro risultava in media di 200 ore più lungo rispetto agli ultimi decenni [...] Parabola storica di non irrilevante significato se si pensa che, cinquant'anni fa, gli orari di lavoro degli americani erano i più bassi d'Occidente (20).

Se a questo aggiungiamo che il salario medio statunitense è calato del 28% tra il 1969 e il 2009 (21), il significato è che il capitale, in questi decenni, ha fatto ricorso sempre più massicciamente all'estorsione di plusvalore assoluto quale strumento antagonistico alla caduta del saggio medio del profitto. Non che sia stata abbandonata la strada del plusvalore relativo, al contrario. Per esempio, nel settore tessile, come in tanti altri, c'è stata una grossa ristrutturazione, però, sembra

non sotto la spinta della competizione cinese, ma per impulso autonomo dell'innovazione tecnologica americana. E ad ogni modo tra il 1990 e il 2007 l'occupazione nel settore si sarebbe più che dimezzata, mentre la produzione sarebbe rimasta stabile (22).

Dunque, ancora una volta, una miscela di plusvalore assoluto e relativo per “esaltare” i rispettivi punti di forza, a maggior gloria del capitale: orari, disciplina e salari “ottocenteschi”, associati ai robot e all'elettronica. Esemplare è il caso dell'industria automobilistica americana, salvata dal tracollo grazie all'intervento governativo e a un contratto di lavoro (nella sostanza, uguale nelle tre “Big”) che dimezzava il salario dei neoassunti, vietava gli scioperi fino al 2015 e altre cose ancora. Con il contratto stipulato a fine ottobre alla Chrysler, viene aumentato il salario d'ingresso (da 14 a 19,28 dollari l'ora), distribuito qualche premio di produzione – il “giusto” riconoscimento per aver sgobbato come muli, abbassando la testa – e si legano altri eventuali aumenti al raggiungimento dei nuovi obiettivi fissati dalla metrica del World Class Manifacturing , “messa a punto” dall'azienda con l'indispensabile collaborazione del sindacato. L'arretramento, notevole, da parte degli operai, sulle principali “voci” del rapporto di lavoro in fabbrica (così come in qualunque altro settore) per salvare, quasi sempre temporaneamente e/o in parte, i livelli occupazionali, non è, va da sé, un'esclusiva statunitense: gli esempi europei si sprecano e anche recentemente, alla Merloni di Fabriano, è stato proposto, dal nuovo acquirente, il minimo salariale per i settecento operai che dovrebbero rimanere, mentre per gli altri milletrecento si spera negli ammortizzatori sociali richiesti alla regione.

Consumo e accumulazione

2010-06-25-consume.jpg

Ancora una volta, abbassamento drastico del salario, da una parte, licenziamenti, forse accompagnati dalla CIG, dall'altra. Una delle conseguenze più ovvie è che, però, in tal modo viene ridotta la capacità di spesa che tiene vivo il mercato: se i redditi della grande maggioranza della popolazione calano o, ben che vada, non crescono, chi compera le merci prodotte giornalmente nelle fabbriche del pianeta? Giusta osservazione, alla quale, tuttavia, il riformismo, e non solo quello, dà una risposta sbagliata, perché non ha chiare o ignora le leggi fondamentali del modo di produzione capitalistico e rovescia il discorso. È verissimo che, da trent'anni almeno, la parte del salario sul reddito nazionale è in costante restringimento a livello mondiale (per esempio, negli USA, dal 60% del 1975 al 49,6% di oggi); altrettanto vero che le manovre finanziarie (di stabilità?) varate in molti paesi europei accentueranno l'effetto depressivo, visto che aggrediscono salari e stato sociale, ma la crisi non è stata scatenata dalla diminuzione del consumo, originata a sua volta dal taglio degli stipendi: è vero esattamente il contrario. È stato il progressivo declino del saggio del profitto delle economie avanzate a spingere la borghesia sulla strada della ristrutturazione tecnologica degli apparati produttivi, con l'introduzione massiccia dell'elettronica. Se ciò ha permesso, in un primo tempo, un balzo in avanti della produttività – intesa come plusvalore relativo – allo stesso tempo, inevitabilmente, ha innalzato la disoccupazione, parzialmente assorbita dal dilagare dei “bad jobs”, lavori a bassa qualificazione e basso salario, nel terziario e, successivamente, della precarietà, condizione lavorativa di cui tutto si può dire, meno che assicuri salari adeguati al costo della vita. In più, la ristrutturazione degli anni settanta-ottanta, oltre ad avere esaurito ben presto la sua efficacia, in quanto forza contrastante la caduta del saggio del profitto, diversamente dalle epoche di ascesa dei cicli di accumulazione, non ha generato fasi di sviluppo legate alla comparsa di nuovi settori produttivi. Certo, questi sono apparsi, ma senza avere la forza espansiva, per esempio, del ciclo dell'automobile, dell'elettrodomestico, ecc; anzi, l'uso massiccio dell'elettronica tende a espellere più forza lavoro di quanto non ne possa essere riassorbita, a condizioni “decenti”, in altri settori. Così, assieme alle delocalizzazioni, l'attacco al salario diretto e indiretto è – e sarà – uno strumento di primaria importanza messo in funzione dal capitale per cercare di uscire dal pantano in cui si trova. Il declino del salario è usato molto spesso come alternativa all'investimento produttivo, dato che il plusvalore estorto – sia come saggio che come massa – per quanto grande possa essere, non è grado di compensare l'innalzamento della composizione organica che tale investimento implicherebbe. La fuga dei capitali nel mondo della finanza è stata la conseguenza di tutto ciò: il tentativo di eludere la legge del valore con l'LSD della speculazione finanziaria. Da anni, si registra un calo costante o, ben che vada, una stagnazione degli investimenti e la tenuta dei profitti delle imprese industriali – quando c'è – si deve per lo più al settore finanziario delle imprese stesse, sviluppatosi enormemente da qualche decennio a questa parte. Lo rileva anche l'ILO, lontana anni luce da propositi “sovversivi”:

Fra il 2000 ed il 2009, la quota degli utili sul PIL è aumentata nell'83% dei paesi analizzati. Tuttavia, durante lo stesso periodo, gli investimenti produttivi sono stagnanti a livello globale. Nei paesi avanzati, la crescita degli utili delle imprese, escluse le società finanziarie, si è tradotta in un aumento sostanziale dei dividendi distribuiti – cioè non reinvestiti – (dal 29% degli utili nel 2000 al 36% nel 2009) e degli investimenti finanziari (dal 81,2% del PIL nel 1995 al 132,2% nel 2007). (23).

Superfluo allora sottolineare che

la verità è che i tassi di crescita rappresentano sempre più una misura delle attività del settore finanziario, quindi anche oggi tutto ciò rimane completamente immaginario. (24).

Ma per tornare alla questione del consumo calante quale causa della crisi, una considerazione, per noi scontata, è che il capitale, cercando di tamponare una falla, ne apre immediatamente un'altra, in un circolo vizioso che si autoalimenta. Fraintendendo il famoso passo di Marx, in cui si dice che la causa ultima delle crisi

è pur sempre la povertà e la limitazione di consumo delle masse (25)...

il radicalriformismo crede, ingenuamente, che basti aumentare i salari, con la persuasione e la pressione democratiche, per rimettere in carreggiata l'economia; altri, rivoluzionari, vi hanno visto, a torto, il ridimensionamento della legge della caduta tendenziale del saggio del profitto quale “motore primo” delle crisi. In realtà, Marx sottolinea cento volte che

si deve venire a creare un continuo conflitto tra le dimensioni limitate del consumo su basi capitalistiche ed una produzione che tende continuamente a superare questo limite che le è assegnato [...] Ma vengono periodicamente prodotti troppi mezzi di lavoro e di sussistenza perché possano essere impiegati come mezzi di sfruttamento degli operai a un determinato saggio del profitto. Vengono prodotte troppe merci, perché il valore e plusvalore che esse contengono possano essere realizzati e riconvertiti in nuovo capitale, e nei rapporti di distribuzione e di consumo inerenti alla produzione capitalistica, ossia perché questo processo possa compiersi senza che si verifichino continue esplosioni (26).

Dunque, i rapporti di distribuzione e di consumo dipendono dai rapporti di produzione, non il contrario. Arrivato a un certo punto, il capitale ottiene incrementi minimi nell'estorsione di plusvalore attraverso l'aumento della produttività sociale del lavoro, per cui non gli rimane che abbassare il salario, il che, però, lo abbiamo visto, significa ridurre la capacità di consumo delle masse proletarie e anche, in parte, piccolo borghesi. O il capitale “inventa” nuovi scenari produttivi oppure è condannato a intraprendere misure che si ritorcono contro il processo di accumulazione, senza premettergli di spiccare il volo.

1929-10-24-crisis-01.jpg

Già ottant'anni fa, il capitalismo si è trovato di fronte a contraddizioni simili e se è vero che le analogie restano analogie e non fotocopie, è anche vero che il procedimento analogico può aiutare a inquadrare meglio i problemi. Sostituendo, come vederemo, qualche termine, la situazione di seguito descritta potrebbe in qualche modo adattarsi ai nostri giorni:

Ma una soddisfacente utilizzazione a fini economicamente produttivi – vale a dire secondo le regole della produzione di plusvalore relativo – delle enormi capacità produttive delle industrie dei beni di investimento nei paesi di più antica industrializzazione, richiederebbe investimenti di una portata e di un genere inconciliabili con l'orizzonte di profitto del capitale privato. Il banale argomento dei pacifisti – “quanta abbondanza si potrebbe elargire all'umanità se si investissero per scopi economicamente produttivi i miliardi oggi impiegati per fini bellici” – mette a nudo l'ormai incolmabile abisso apertosi tra l'interesse al profitto del capitale privato e le esigenze delle forze produttive del lavoro socializzato, da esso stesso sviluppate. Non è la pressione bellica che impedisce al capitale di adempiere ai suoi compiti “benefici”, ma è piuttosto la sua inadempienza rispetto a questi compiti che dà origine alla sua attività bellicistica, che diventa sempre più l'unica che consenta alla borghesia di impiegare le forze produttive e di valorizzare il capitale (27).

Allora come oggi, il problema era quello di rialzare il saggio del profitto, e in determinate formazioni sociali dovette ricorrere al fascismo, ma le vie intraprese allora (democrazie anglosassoni comprese), non differiscono tanto da quelle percorse oggi, senza contare che, con o senza camicia bruna, la democrazia borghese è sempre più svuotata, anche dal punto di vista formale, in favore di governi nominati direttamente dal capitale finanziario internazionale. Ridiamo la parola a chi visse dal di dentro la fase di elaborazione delle strategie del capitalismo tedesco:

Il fascismo arresta la caduta tendenziale del saggio del profitto sulle soglie della quota zero mediante l'innalzamento forzato del saggio del plusvalore: esso passa, cioè, dalla produzione di plusvalore relativo alla produzione di plusvalore assoluto (i saggi medi del salario reale netto sono scesi, tra il 1932 e il 1936, di circa il 33%, mentre nello stesso periodo l'orario di lavoro ha subito un incremento del 15% e i ritmi lavorativi si sono accelerati più o meno del 20-25%). In questo modo il fascismo innalza artificiosamente il saggio di accumulazione mantenendo contemporaneamente basso il saggio di consumo. Esso è legato di conseguenza alla produzione di un plusprodotto la cui valorizzazione non dipenda, nella sua configurazione finale, dal mercato, cioè, in ultima istanza, da un aumento della capacità di consumo. Questo plusprodotto è dunque destinato o ad uscire dal mercato mediante la sua vendita (allo Stato)... (28).

Oggi, non c'è nel brevissimo periodo (29), la prospettiva di una guerra generalizzata, tuttavia, ancora una volta, l'area del riformismo indica come alternativa agli sfracelli del capitalismo lo sviluppo di un consumo sostenibile finanziato dallo stato, “verde” e “sociale” allo stesso tempo, di cui l'innalzamento generalizzato degli stipendi sarebbe una componente indispensabile, come se si potessero forzare pacificamente le leggi di natura del capitale; ma non si può nutrire una tigre a miglio e lattuga, con tante scuse alla tigre per il paragone con la belva capitalista.

A parte questa considerazione, un'altra differenza con le politiche intraprese per primo dal fascismo tedesco negli anni trenta è che, in un certo qual modo, la finanziarizzazione dell'economia ha preso il posto della guerra mondiale; lo stato non ha certo abdicato al suo ruolo di “badante” del capitale, al contrario, ma il consumo è stato stimolato, anche e non da ultimo, coinvolgendo il proletariato dei paesi “avanzati” nella spirale del debito, sperando, a dispetto del banale buon senso, che non sarebbe mai arrivata l'ora della presentazione del conto. Lo schema è noto: fine anni sessanta, declino accelerato dei saggi del profitto, ristrutturazione delle grandi concentrazioni industriali, diffusione del “lavoro cattivo” e della povertà, sopravvivenza di aree sempre più vaste di proletariato grazie alle merci a buon mercato provenienti dalle zone di delocalizzazione e ai prestiti generosamente concessi anche a chi non si poteva permettere di comprare non solo una casa, ma nemmeno un garage. In breve, lo sviluppo abnorme della finanza, l'accumulazione – se così si può dire – fondata sul capitale fittizio e sul debito avrebbero dovuto svolgere, nei confronti della crisi, la funzione che era stata della Seconda guerra mondiale. Così, evidentemente, non è stato né poteva esserlo, in quanto, per esempio, è mancata quella distruzione massiccia degli elementi costitutivi del capitale, costante e variabile (gli esseri umani), che ha costituito uno dei prerequisiti fondamentali del ciclo di accumulazione postbellico. Senza il più grande macello della storia dell'umanità, l'intensificazione dello sfruttamento – anche nella democrazia rooseveltiana – e l'intervento diretto dello stato come finanziatore, compratore e coordinatore dell'economia (non di rado contro la volontà dei capitalisti stessi), il capitalismo sarebbe sprofondato in una nuova, e più acuta, crisi mondiale, quindi... nella guerra.

Le contraddizioni si acuiscono, ma...

2011-12-15-heartfield-thyssen.jpg

Allora, democrazia, fascismo e stalinismo impedirono, a vario titolo, l'unica soluzione alle crisi del capitale, la rivoluzione comunista, oggi, i tre volti del dominio borghese si sono fusi in un “pensiero unico” che, pur nella diversità anche marcata delle sue espressioni politico-sindacali, tiene inchiodata la classe proletaria dentro il quadro ideologico del capitale. Non che il malcontento, l'insoddisfazione del lavoro salariato non crescano, ma ancora, nei pochi casi in cui si esprimono, non lo fanno, in genere, su di un terreno autonomo di classe. A parte l'esperienza quotidiana, lo dicono anche i numeri, i quali, benché non debbano essere considerati totem intoccabili, possono dare, però, il senso di uno stato d'animo diffuso. I dati dicono che da decenni il numero degli scioperi è in calo verticale in tutto il cosiddetto “primo mondo”, Italia compresa (30); rilevano, è vero, che molti operai (e operaie) considerano insoddisfacente l'azione svolta dai sindacati per fronteggiare la crisi (31), ma da qui a trasformare le lamentele in organizzazioni di lotte dal basso, oltre – e contro – il sindacato, il passo non è né facile né breve. A titolo di esempio, ai primi di novembre la Fiom ha chiamato i metalmeccanici a pronunciarsi sulla proposta di contratto nazionale. Anche assumendo un punto di vista strettamente sindacale, il contratto contiene, va da sé, molti aspetti discutibili, eppure la consultazione – se i dati sono reali – è stata un successo:

Nei luoghi in cui è stato possibile tenere assemblee e votare, ha partecipato alla consultazione il 61,47% dei lavoratori coinvolti e i sì hanno stravinto raggiungendo il 95,16% [...] Le lavoratrici e i lavoratori che hanno votato la piattaforma sono più di 372 mila, a fronte dei 137 mila iscritti alla Fiom (32).

Naturalmente, non sono mancate fabbriche, in genere medio-grandi, dove la piattaforma è stata bocciata o contestata “da sinistra” da parte di una grossa minoranza, grazie, per lo più, alla presenza di avanguardie di fabbrica politicizzate. Questo ci porta subito alla questione di fondo: posto che la lotta di classe si manifesta anche senza la presenza dei rivoluzionari, è però solo grazie alla loro presenza attiva che può maturare oltre il terreno “sindacale”, sebbene da questo non possa prescindere, se si vuol arrivare a mettere all'ordine del giorno l'archiviazione del modo di produzione capitalistico.

Celso Beltrami

(1) Il Sole 24 ore, 15 settembre 2011.

(2) Vedi la sintesi del rapporto sul sito rassegna.it , visitato il 15 settembre 2011.

(3) Sintesi dell'indagine riportata dal Corriere della Sera, il 26 giugno 2011.

(4) Marco Revelli, Poveri, noi, Einaudi, 2010, pagg. 69-70.

(5) Marco Revelli, cit., pag. 71.

(6) Galapagos, il manifesto, 16 ottobre 2011.

(7) Intervista a G. Airaudo, segretario Fiom Piemonte, in M. Revelli, cit., pag. 43.

(8) M. Revelli, cit., pag. 72.

(9) Espressione impropria, se non insulsa, quando non venga usata unicamente per necessità di sintesi, a indicare l'aggressione complessiva alle condizioni di lavoro: non è di diritti che si deve parlare, ma di rapporti di forza.

(10) Vedi, per esempio, Prometeo n. 4, 2010, Fiat, sindacato classe operaia nella crisi, anche in leftcom.org

(11) Vedi, da Prometeo n. 3, 2010, Ripresa? Forse, ma per chi? anche in leftcom.org

(12) Vedi Il Sole 24 ore, citato, e Marco Bertorello, Danilo Corradi, Capitalismo tossico, Edizioni Alegre, 2011, pag.75.

(13) Guido Ortona, riportato in M. Revelli, cit., pag. 105.

(14) Vedi l'articolo molto esplicativo di Luciano Gallino su la Repubblica del 15 settembre 2011.

(15) Vedi Prometeo n. 5, 2010, citato.

(16) la Repubblica, 14 marzo 2011.

(17) Per citare un esempio storico, quella fu, in sostanza, la politica di Giovanni Giolitti agli inizi del '900. La compartimentazione del proletariato in categorie, funzionale a una lotta di tipo puramente sindacale e, allo stesso tempo, alla “integrazione” del movimento operaio nella società borghese, viene dunque da lontano: «Parecchi fattori importanti danno agli scioperi di questo secolo [il Novecento, ndr] un carattere diverso da quelli precedenti. Il declino del ruolo delle ferrovie impedì il ripetersi di quel processo automatico per cui gli scioperi dei ferrovieri del 1877 e del 1894 [negli USA, ndr] si trasformarono immediatamente in una lotta fra il lavoro e il capitale estesa a tutta la nazione e a tutte le categorie operaie. La crescita di un sindacalismo che aveva il suo punto di forza nei contratti collettivi tendeva a controbilanciare il peso del fortissimo senso di solidarietà che univa i lavoratori della base, e li portava sempre più a considerare la lotta nei termini della loro industria piuttosto che in termini di classe; inoltre i contratti stessi costituivano un potente ostacolo all'estendersi degli scioperi a gruppi sempre più ampi...», Jeremy Brecher, Sciopero!, La salamandra, vol. I, 1976, pagg. 171-172.

(18) M. Cocco, il manifesto, 12 ottobre 2011.

(19) A titolo di esempio, «Per le multinazionali italiane, il costo del lavoro in Brasile è il 42% di quello sostenuto in Italia, in Romania il 13% e in Cina il 7%», Domenico Moro, Le cause del debito europeo e il che fare, in sinistrainrete.info

(20) Piero Bevilacqua, Il grande saccheggio, Laterza, 2011, pagg. XVI-XVII. Secondo dati OCSE, riportati dal Quotidiano Nazionale del 16 settembre 2011, i lavoratori USA, assieme agli italiani, sono quelli che, nel G7, lavorano di più: 1778 ore all'anno contro le 1733 del Giappone e le 1419 della Germania. Naturalmente, queste statistiche sono da prendere sempre con criterio, nel senso che l'orario notevolmente più basso della Germania forse è dovuto anche alla diffusione dei cosiddetti “mini-jobs”, a 400 euro al mese circa, che sono ormai cinque milioni, e al lavoro interinale, che interessa un milione di lavoratori, in un contesto di precarietà in crescita da anni.

(21) F. Tonello, il manifesto, 7 agosto 2011.

(22) P. Bevilacqua, cit., pag. 65.

(23) ilo.org , sezione italiana, comunicato stampa del 31 ottobre 2011.

(24) Paul Mattick jr, La crisi economica: realtà e finzione, in sinistrainrete.info

(25) Il passo è tratto dal Libro III, cap. 30, del Capitale, a pag. 667 dell'edizione Einaudi. Su questo aspetto ci eravamo già soffermati nell'articolo apparso su Prometeo n.3, 2010, citato, dove, a proposito del consumo, veniva riportata un'altra considerazione di Marx tratta dal Libro II, sulla quale molti, “a sinistra”, dovrebbe riflettere (a nostro modesto parere).

(26) Karl Marx, Il Capitale, Einaudi, Libro III, cap. 15, pagg. 360 e 361-362. A questo proposito, già due secoli fa, diversamente da tanti riformisti, Sismonde de Sismondi aveva capito, nella sostanza, che in un'economia dominata dalla misura astratta del valore di scambio e non dal valore d'uso (in sintesi, dal denaro e non dai bisogni umani) «I padroni sono indotti a mettere mano ad un lavoro, non già perché i consumatori glielo richiedono, ma perché gli operai offrono loro di lavorare a ribasso»: citato in Henryk Grossmann, Sismondi e la critica del capitalismo, Laterza, 1972, pag. 59. E Grossmann sottolinea: «Vediamo dunque che il meccanismo [...] non ha nulla in comune con l'ingiusta ripartizione della ricchezza e neppure con il sottoconsumo degli operai. Al contrario, il sottoconsumo intensificato è qui il risultato e non la causa della crisi».

(27) Alfred Sohn-Rethel, Economia e struttura di classe del fascismo tedesco, De Donato, 1978, pagg. 160-161. Fino al 1936, Sohn-Rethel lavorò – senza dichiarare, ovviamente, le sue simpatie marxiste - al Mitteleuropaischer Wirtschaftag, centro studi e di collegamento tra il grande capitale tedesco, l'esercito, l'alta burocrazia statale e il partito nazionalsocialista.

(28) A. Sohn-Rethel, cit., pag. 223.

(29) Minacce di intervento in Iran a parte...

(30) Secondo un articolo di P.P. Arzilla, apparso su Avvenire il 3 settembre 2011, che cita una ricerca europea, in Italia, dagli anni novanta a oggi, gli scioperi sarebbero calati del 50%, proseguendo una tendenza cominciata nel decennio precedente. Nella UE, l'adesione agli scioperi è scesa – sempre secondo l'articolo – da 97 dipendenti su mille a 20.

(31) «Solo il 33% [degli operai] pensa che i sindacati abbiano risposto “molto o abbastanza bene” alle sfide della crisi, mentre il 67% li boccia senza appello», Corriere della Sera, cit. Questo dato può sembrare contraddittorio con quello sbandierato dai confederali, secondo i quali negli ultimi due-tre ani hanno aumentato gli iscritti, anche tra i lavoratori attivi.

(32) L.O., il manifesto, 9 novembre 2011. Alla Fiat ha votato il 56% degli operai e i sì sono stati il 94%. Landini dice che la partecipazione è stata la più alta di sempre, tenendo conto anche del fatto che non si votava nelle fabbriche sotto i quindici dipendenti, che la CIG è stata un ostacolo, così come il boicottaggio delle altre organizzazioni sindacali, che hanno impedito con impicci burocratici la tenuta delle assemblee.

Venerdì, April 20, 2012

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.