Al fondo della liberal-democrazia

Fra i marosi della crisi economica, la classe borghese brancola non soltanto per arginare le onde violente che fanno traballare le strutture stesse del sistema, ma anche per portare avanti una gestione politica che non sia proprio da “ultima spiaggia”, tanto del paese in generale che dello Stato e delle sue istituzioni. Il problema non è solo italiano: globalmente investe tutti gli Stati borghesi, al di là dell’etichetta politica sbandierata.

Nella prima e nella seconda Repubblica, i vari comitati d’affari insediatisi in Parlamento (votati, ecco la beffa, dal popolo sovrano!) hanno divorato quanto hanno potuto arraffare dalle tasche del proletariato e di quegli strati della piccola e media borghesia (i più deboli ed esposti agli effetti della crisi) che non sanno più a quale santo rivolgersi. Soprattutto visto che la Chiesa stessa sprofonda con le sue cattedrali nel fango del malaffare. Così, mentre condizioni di lavoro e di vita del proletariato confermano che al peggio non c’è mai fine, e le macerie del welfare state si accumulano, prosegue quella telenovela nazionale che non sembra avere concorrenze sul pur scalcinato palcoscenico internazionale. Certamente, oltre alla notevole incapacità della nostrana classe dirigente, va pur detto che i tempi sono duri, vicini a limiti catastrofici; le tecniche di una gestione “costruttiva” a questo punto neppure lo Spirito Santo saprebbe come inventarle e applicarle.

Il circuito economico-finanziario del paese si regge apertamente sulla presenza attiva di vecchie e nuove consorterie di stampo mafioso, penetrate ancor più a fondo nelle istituzioni politiche, negli apparati burocratici statali-regionali e persino in settori della magistratura e delle stesse forze dell’ordine costituito. Basti seguire quel poco che traspare dagli ammaestrati organi di stampa e tv: la presenza di parti deviate e “zone” grigie, con il degrado della cosiddetta “vita pubblica”, è sotto gli occhi di tutti. Il vero problema è semmai quello di non confondere effetti con cause e viceversa. La sovrastruttura ideologica, politica e sociale sta avviandosi ad un collasso profondo al seguito delle esigenze di un autoritarismo che la sopravvivenza della struttura capitalistica di base pone come inderogabile imperativo. Alla faccia di regole e diritti che si sa, come racconta Tremonti al Meeting di CL, non possono essere perfetti se “non si vuol perdere le fabbriche”…(Oltre al chiaro riferimento alla Fiat, si noti la figura di un Tremonti che si pone come “riferimento etico e politico agli uomini di buona volontà, orgoglioso e onorato di far parte del governo Berlusconi”, e rispolverando gli scritti 1977 di Berlinguer sull’austerità…).

Costituzionalizzato, democratizzato, liberalizzato, quello borghese è e rimane un regime politico oligarchico, una dittatura mascherata e sempre più difficile da manovrare se non assestando colpi… eversivi (già, proprio di provenienza borghese!) agli stessi principii con cui si presenta in veste ufficiale. E come ogni programma riformista, anche ogni liberal-democrazia non può essere “realizzata” se non avviando il processo della sua stessa autodistruzione.

Un sistema economico che scricchiola esprime irrimediabilmente al proprio interno governi traballanti. Impossibile tracciare un quadro strategico e neppure gestire la quotidiana e necessaria, per il capitale, “convivenza sociale”, quando si assiste all’esplodere continuo di una contraddizione dopo l’altra, costringendo la stessa formale opposizione di sua Maestà a suonare campane stonate. Dunque, è il generale sfaldamento strutturale che s’inquadra in un vuoto politico il quale tende a rompere gli stessi già vacillanti equilibri istituzionali, quelli con cui la borghesia si liberò della ormai scomoda camicia nera. L’eredità del neofascismo è ritornata in campo, più o meno mascherata, riqualificata non solo ai margini ma, soprattutto con Berlusconi, al centro delle stesse istituzioni liberal-democratiche. E proprio quando la sinistra borghese aveva raggiunto il fondo (ma in seguito scenderà ancora oltre…), ai ceti medi sembrò di toccare il cielo con un dito diventando i protagonisti - al seguito del nuovo autocrate e dei suoi presto litigiosi luogotenenti - di una conduzione “aziendale” che apriva le porte al trionfo di un populismo liberatosi dai cascami di quel tradizionalismo politico che un altro“uomo forte” prometteva di spazzare via. Pescando sia dalla tradizione neofascista sia da quella neo-liberale e neo-costituzionale. Tutto sullo sfondo, imposto senza alternative, della conservazione del capitale e delle logiche borghesi, degli interessi nazionali e soprattutto di quelli personali e… famigliari. L’Italia aveva finalmente ritrovato un suo nuovo duce, in camicia “azzurra”, col carisma dell’imprenditore che si è fatto da sé, necessariamente anticomunista e cattolico quel tanto che basta, e col potere mediatico in esclusiva.

Ma ora anche il demiurgo in carica vede il suo ruolo di “primus inter pares” vacillare all’interno del suo stesso partito, in una sarabanda famelica di categorie, caste e cricche che attorno ai palazzi reclamano parte del bottino. Al punto che in qualcuno affiora il timore che - di fronte a certe eccessive prove di forza (e qui si ritorna alla Fiat e alle relazioni capitale-lavoro) - si rischi di dare “pretesto” per un ritorno del conflitto di classe. È vero - ci ripetono ogni giorno - che la classe operaia non esiste più, ma dietro l’angolo qualche esemplare di borghesia meno ottusa e arrogante intravvede una forza latente la quale (fino a ieri presentata come un resto antico del passato) potrebbe tornare a dare filo da torcere, una volta spinta fuori dalle gabbie entro le quali gli “strumenti della democrazia borghese” l’hanno imprigionata.

Al partito che stiamo costruendo va la responsabilità storica di fornire la necessaria guida teorica e politica.

DC

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.