150 anni dall’unità nazionale

Due parole sul nazionalismo

Sono iniziate, con maggio, le celebrazioni dei 150 anni dell’unità d’Italia. Dapprima il presidente Napolitano è stato avvistato sullo scoglio di Quarto a deporre una corona ai piedi del monumento che ricorda la partenza della spedizione dei Mille. Poi pochi giorni dopo eccolo sbarcare eroico a Marsala sempre contornato dalle altre autorità politiche, militari religiose ed…economiche.

Unica nota stonata le ripetute dichiarazioni di diversi esponenti della Lega Nord contro il Risorgimento, contro la patria italiana e anche contro la nazionale di calcio. Al di là degli aspetti grotteschi che queste celebrazioni ci stanno regalando, è invece preoccupante l’utilizzo che da qualche anno la borghesia italiana sta facendo del patriottismo. Non è una novità l’utilizzo del nazionalismo come leva ideologica della borghesia per compattare ai suoi ordini la classe lavoratrice: le due guerre mondiali ne sono un chiaro esempio nel nostro paese, come in Germania negli Stati Uniti e nella stessa Unione Sovietica (come non inorridire di fronte alla “grande guerra patriottica” di Stalin). In Italia, dopo la fine della guerra, la politica (ad eccezione dei neofascisti) difficilmente utilizzava termini come “patria” o “nazione”, certo si parlava di “stato”, di “istituzioni” magari anche di “istituzioni democratiche”, ma i termini che più ricordavano il regime erano stati quasi banditi. Il cambiamento è iniziato con la presidenza Ciampi: ricordate il tricolore issato stabilmente sugli uffici pubblici e l’inno cantato dalla nazionale di calcio? Sembravano cose banali quasi ridicole, ma non è così.

Se analizziamo rapidamente come il nazionalismo abbia affiancato la politica italiana, c’è ben poco da ridere. A partire proprio dal processo di unificazione nazionale, la “patria” ha rappresentato per la classe lavoratrice, soprattutto meridionale ma anche del nord, un sinonimo di emigrazione e di sfruttamento estremo. L’unità era necessaria alla formazione di un mercato nazionale abbastanza grande da permettere la formazione di una moderna economia industriale, serviva inoltre una nuova classe lavoratrice: il sud ha dato un grande contributo a scapito di un emigrazione di massa anche fuori dalla “nazione”. Nel dopoguerra la ricostruzione è avvenuta, in parte non piccola, anche grazie alle masse di lavoratori che si trasferivano dal meridione nel triangolo industriale e oggi questo fenomeno sta ancora continuando.

Patria è oggi un termine molto di moda, non solo sulla bocca degli esponenti della destra, ma anche su quella dei politici democratici ed ex comunisti (pardon stalinisti). La crisi economica sta imponendo da decenni un continuo peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori, con il suo acutizzarsi nel 2009 questo peggioramento si è fatto sempre più evidente: la precarietà, la disoccupazione, la povertà sono ormai un dato strutturale di tutti i paesi capitalisti. Di fronte al “mostro” crisi, spacciato come un evento esterno, incontrollabile ed indipendente dalla buona volontà dei signori padroni, l’unità nazionale e lo spirito patriottico non sono solo diventano uno strumento di contenimento delle tensioni sociali. Siamo tutti italiani, siamo tutti sulla stessa barca, borghesi e proletari, per il bene del nostro bel paese è necessario fare sacrifici… o meglio è necessario che la classe lavoratrice faccia di sacrifici. Ma quest’ultima parte viene ovviamente omessa perché le classi non esistono più ma siamo tutti cittadini. Anche la nazione padana, tanto propagandata della Lega, non è che una riproposizione in piccolo del nazionalismo, ed è evidente come le ragioni ideali, storiche e linguistiche non siano che un ridicolo paravento che serve a nascondere le vere motivazioni economiche che stanno alla base di questo progetto.

Tom

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.