Dialogo strategico tra Cina e Usa

La crisi economica esaspera le tensioni tra le due potenze

Energia, valuta, commerci e mercati. La crisi internazionale ha portato all’incandescenza i temi del Dialogo sino-americano di giugno, che ha finito per scandire una tappa della crescente conflittualità tra i due paesi. Per la Cina il primo problema si chiama dollaro debole. La riserva di cambio di Pechino, pari a 1.500 mld$, continua a essere svalutata, spingendo la Cina ad aprire investimenti anche in Francia, Inghilterra e Asia.

Per Pechino restano tuttavia strategici gli investimenti in USA, che significativamente stanno incontrando il ricorso ad azioni protezionistiche. Il dollaro debole sta comportando più esportazioni americane, cioè un contributo al rallentamento della recessione. In un anno l’export verso la Cina è aumentato del 20%, contro un +10% del flusso contrario. Allo stesso tempo però il surplus cinese - di 20,2 miliardi di dollari - è ancora enorme, anche a causa dello yuan artificiosamente tenuto basso. Pur se superiore ai 16,7 mld di Aprile il surplus cinese resta penalizzato dal costo del petrolio: la sua importazione è aumentata del 25% in un anno, e gli investimenti aziendali determinano una tendenziale crescita del suo fabbisogno. I profitti delle maggiori imprese cinesi vengono erosi da questi aumenti, e la questione energetica è stata non a caso al centro del vertice. Questione impugnata d’altronde anche dagli USA, spaventati dall’enorme accumulo di petrolio della potenza asiatica, che potrebbe avere l’obiettivo di condizionarne le quotazioni. Il governatore della Banca Centrale del Popolo, Zhou Xiao Chuan, sottolinea di rimando le responsabilità del dollaro debole rispetto ai costi delle materie prime, e programma di apprezzare lo yuan anche per poter far fronte a questi aumenti. Da gennaio 2007 la valuta cinese si è rivalutata del 10% rispetto a quella americana, ma Washington stima che il Dragone tenga la propria moneta di almeno un 40% più bassa del valore che avrebbe sul mercato: nel vertice la Cina ha garantito un aumento del 20% in 3 anni.

Washington non auspica in realtà un’impennata dello yuan, che secondo gli economisti potrebbe incrementare l’inflazione: gli acquisti americani si indirizzano per una buona parte verso merci cinesi e non è realistico pensare di ridefinire in breve tempo i flussi delle importazioni. Ma un più significativo apprezzamento della moneta cinese consentirebbe la svalutazione del debito americano con Pechino (tra i principali acquirenti di buoni del tesoro Usa, consentendo d’altra parte i consumi americani di merci cinesi). In America le posizioni sono conflittuali all’interno della stessa borghesia: i capitalisti con imprese piccole e medie, per lo più su territorio statunitense, sono aggressivamente ostili allo yuan svalutato, che rende loro impossibile sostenere la concorrenza; al contrario la borghesia con grandi compagnie dislocate in Cina è ovviamente più cauta.

Anche in Cina numerosi economisti spingono verso la rivalutazione della moneta, per contenere la crescente inflazione (per un’analisi marxista del fenomeno inflattivo vedi BC 5/1999 e Prometeo Giugno 1983), ma in tempi “appropriati”, come dichiarato dal vicepremier Wang Qishan. Con uno yuan più forte calerebbero le esportazioni, e quindi il denaro liquido, e si abbasserebbero i prezzi delle merci importate. I rischi sono però alti. Migliaia di posti di lavoro andrebbero persi e crescerebbero ulteriormente le tensioni interne. Già ora l’aumento dei prezzi sta colpendo duramente la popolazione più povera, preservando però la borghesia, come ha dimostrato l’economista Zhuang Jian sul South China Morning Post. Inoltre il mercato interno cinese non sarebbe in grado di assorbire la quota di produzione attualmente esportata. Un’alternativa contemplata dagli economisti è l’aumento dei salari, che però sarebbe un boccone difficile da digerire per il capitale cinese, poiché farebbe accelerare la perdita di competitività delle merci cinesi, ormai già messa in discussione da altri Paesi asiatici, Vietnam e Indonesia in primis, verso i quali crescono investimenti e trasferimenti industriali, a scapito della Cina. Di contro lo stesso aumento dell’inflazione contribuisce a spingere in su il costo della forza-lavoro.

La possibilità di un apprezzamento dello yuan sta attirando in Cina ingenti capitali stranieri, per speculare sulla rivalutazione dei fondi acquistati. Si stima che negli ultimi 4 anni i fondi speculativi affluiti nel Paese asiatico siano pari a 200 miliardi di dollari. Pechino teme che non rivalutando la moneta provocherebbe un frettoloso spostamento di questi capitali verso altri mercati finanziari, ottenendo uno scossone senza precedenti. Anche per questo un cauto ma effettivo apprezzamento della moneta è tra gli obiettivi strategici della Banca Centrale. La complessità di queste contraddizioni è accentuata dai contrasti sia interni che internazionali che la crisi alimenta. Sono tensioni destinate ad essere attizzate ulteriormente, aprendo ad un inedito livello di conflittualità interimperialistica.

ml

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.