Cinque anni dopo l’invasione americana dell’Iraq

Bush: l’Iraq sta meglio di prima ma la realtà lo sbugiarda

Esattamente cinque anni fa l’imperialismo americano ha dato vita ad uno dei più gravi episodi bellici del secondo dopo guerra. Nell’arroganza dell’uso della forza, l’amministrazione Bush, non ha lesinato le più improbabili menzogne a giustificazione della guerra scatenata contro l’Iraq di Saddam Hussein.

In prima battuta ha tentato di legare il regime iracheno all’operatività di Al Qaeda, sull’onda del “11 settembre”, episodio buono per tutte le giustificazioni.

Immediatamente smentito da tutti i servizi segreti internazionali, Cia compresa, ha poi letteralmente costruito un falso dossier su presunti acquisti d’uranio arricchito dalla Nigeria, paventando l’ipotesi che il regime di Saddam Hussein potesse costruire di lì a poco la bomba atomica. Scoperta anche la seconda menzogna, l’amministrazione Bush ha impugnato la falsa notizia sull’esistenza di armi a distruzione di massa, corrompendo persino alcuni osservatori Onu che si sono prestati al gioco della strategia imperialistica di Washington. Fallito anche quest’ultimo pretesto, l’arma giocata è stata quella dell’esportazione della democrazia in un paese retto dittatorialmente da un pericoloso tiranno per dare libertà e sicurezza al popolo iracheno.

Oggi nessuno sarebbe disposto a bere simili falsità, ma all’epoca, buona parte dell’opinione pubblica internazionale, ha accettato, o subito per convenienza, l’elenco delle menzogne che di settimana in settimana erano proposte a giustificazione della guerra.

I fatti sono che la violenza dell’imperialismo americano ha distrutto un’intera società civile, ha costruito un cimitero di mezzo milione di morti, ha prodotto quasi tre milioni di profughi, provocato indicibili sofferenze alla popolazione civile e un’immensa devastazione di tutto il territorio. In compenso il governo iracheno non ha mai iniziato l’opera di ricostruzione e ha smesso di contare le vittime.

Le cause di una simile barbarie sono oggi sotto gli occhi di tutti, anche di quei commentatori che, in cattiva fede, hanno ritenuto di fungere da cassa di risonanza alla sequela di menzogne che sono state alla base dell’orribile massacro.

Tanta aggressività e arroganza non potevano trovare giustificazione che nella fase storica di fine ciclo di accumulazione, in una crisi strutturale dovuta ai bassi saggi del profitto, in un’economia reale debole accompagnata da un indebitamento complessivo da capogiro, sorretta da un’ipertrofica produzione di capitale fittizio, premessa di una futura crisi finanziaria senza precedenti di cui l’economia Usa sarà, di li a poco, la punta più avanzata all’interno dello schieramento capitalistico internazionale.

La guerra irachena, come quella in Afganistan e in tutte le altre zone di crisi a livello internazionale, è figlia di tutto questo. L’amministrazione Bush si è gettata a capofitto nell’avventura mesopotamica nella speranza di contenere al meglio l’esplosività delle sue contraddizioni. Sulla base di un’economia reale debole, non più competitiva come negli anni “50” e “60”, orientata da quasi quattro decenni al drenaggio parassitario di plusvalore prodotto ai quattro angoli del mercato mondiale grazie al ruolo dominante del dollaro quale unità monetaria di scambio per le merci prodotte, petrolio compreso, la scelta di intervenire in Iraq era obbligatoria.

In primis la necessità di mantenere il ruolo del dollaro quale mezzo di pagamento delle forniture petrolifere.

Saddam Hussein aveva minacciato di vendere il suo petrolio in Euro abbandonando il dollaro se i paesi europei si fossero adoperati per allentare la morsa dell’embargo voluto e imposto dagli Usa. Il Rais di Baghdad si era persino permesso di convertire in Euro la quota in dollari che l’Iraq aveva ricevuto nel quadro umanitario dell’ "oil for food". Se l’esempio di Saddam fosse stato seguito dall’Iran, dal Venezuela e da altri paesi produttori di petrolio, per l’imperialismo americano sarebbe stato un duro colpo che avrebbe messo in discussione la capacità di drenaggio di plusvalore, reso insostenibili i debiti accumulati e scoperchiata la debolezza della sua economia sull’orlo del collasso.

Tutte situazioni che si sono verificate lo stesso, ma che al tempo dell’inizio della guerra contro Saddam sembravano evitabili e per questa ragione l’amministrazione Bush ha giocato sino in fondo le sue carte contro tutto e tutti.

Secondariamente la guerra all’Iraq doveva consentire agli Usa di portare a compimento quel piano, più volte espresso nelle dichiarazioni e rincorso nei fatti, di controllo del mercato delle materie prime energetiche attraverso la gestione delle aree di produzione, di costruzione e gestione delle più importanti vie di trasporto e di commercializzazione del gas e del petrolio. Il tutto con lo spietato uso della forza, la cui intensità era proporzionale alla gravità della condizione economica interna e al timore di perdere il ruolo egemone sul mercato monetario.

Ma le guerre mentre regolano i conti tra settori dell’imperialismo internazionale risucchiano i proletariati nel baratro della sconfitta di classe. Sono proletari quelli che combattono gli uni contro gli altri per interessi che non solo non appartengono loro, ma che sono loro contrari in termini economici e politici. Sono proletari quelli che vengono quotidianamente trucidati nelle strade di Baghdad per strategie che non appartengono agli interessi della loro classe. Sono proletari tutti quelli che dalla guerra ricevono morte, disoccupazione, miseria e nessuna prospettiva che non sia quella di subire all’infinito le conseguenze del macello imperialistico.

Ma la sconfitta di classe potrebbe essere non definitiva a condizione che il proletariato iracheno, al pari di quello libanese, palestinese e di tutta l’area riprendesse nelle sue mani, sotto la guida del partito rivoluzionario i pro pri destini politici. Difficile? Certo ma, o si lavora politicamente in funzione della trasformazione della guerra in ripresa della lotta di classe, contro il capitale in qualsiasi veste si presenti, o gli episodi bellici si riproporranno su scala geometrica relegando al proletariato l’unico ruolo che l’imperialismo gli riconosce: essere carne da macello al servizio di un capitalismo internazionale sempre più bisognoso di sangue proletario, di violenza e barbarie sociali quali condizioni necessarie alla sua sopravvivenza.

Non per nulla il quinto anniversario della guerra irachena è bagnato di sangue come tutti gli altri giorni che il dio dell’imperialismo manda in terra.

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Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.