Scandali monarchici e... repubblicani

Aplomb, classe, portamento signorile, quasi regale, questo è lo stereotipo mediatico del principe Vittorio Emanuele di Savoia. I nostalgici monarchici, e non solo, che hanno fatto carte false per riportarlo in Italia, gli hanno cucito addosso anche un altro stereotipo, quello dell’uomo probo, di fedele marito, di buon padre di famiglia, tutto reggia e ufficio come si conviene ai personaggi del suo rango.

Fuori dagli stereotipi le cose stanno ben diversamente. Da giovane, il rampollo di casa Savoia ha praticato l’arte del parassita sociale, era un perditempo a tempo pieno, pessimo studente, grande demolitore di auto di lusso: le Ferrari erano la sua passione. Play boy e, soprattutto, nulla facente. Il tutto grazie ai risparmi di famiglia che padre e nonno hanno rubato al lavoro degli italiani nel corso di tre generazioni e portati all’estero alla faccia dell’amor patrio. Nella maturità, usiamo questo termine per comodità di discorso, Vittorio Emanuele è diventato un avventuriero, un trafficante d’armi, un faccendiere pronto a speculare su qualsiasi cosa che gli procurasse soldi e potere. Affiliato a sette massoniche in odore di associazione a delinquere, omicida colposo di un ragazzo tedesco, la cui unica colpa è stata quella di trovarsi sulla traiettoria delle sue pallottole, sparate per ira nella quiete delle isole Cavallo. Il rampollo di casa Savoia ha preso il largo, navigando a vista nel periglioso mare dell’imbroglio e del malaffare. Poi, secondo l’accusa della magistratura di Potenza, si è scoperto che il principe, oltre ad essere un puttaniere da 300 euro al colpo, è un intrallazzatore con i Monopoli di stato, un tangentista, un procacciatore d’affari sporchi, un concussore e corruttore di pubblici ufficiali, non certo per dare aggio alla nobile parte che rappresenta, ma per i gli interessi economici personali che ne ricava. Un parassita economico e sociale che, come da copione, si è posizionato tra chi produce e chi compera, non importa come e cosa si produca né con quali soldi venga pagato, se sporchi, riciclati o da riciclare. L’importante è il risultato finale, metterseli in tasca.

C’è chi dice che non c’è assolutamente da meravigliarsi, ed è vero. Che non c’è da preoccuparsi, ed è meno vero, poiché l’episodio sarebbe indicativo di un parassitismo regale, residuo del passato, che una volta scoperto può essere socialmente cancellato senza lasciare tracce significative. Nella quotidianità del capitalismo nostrano, e non solo, la dinamica delle cose ci dice esattamente il contrario. Anche la borghesia repubblicana, che con gli avanzi della monarchia non ha nulla che vedere, si comporta allo stesso modo, se non peggio. Negli ultimi anni le cronache italiane sono state letteralmente occupate da scandali finanziari ed economici che non hanno riscontro, per intensità e frequenza, nella recente storia repubblicana. Si va dal crollo fraudolento di Cirio, Parmalat, agli scandali nella sanità, alla corruzione ad ogni livello. Fondi neri che nascono come funghi. Falsi in bilancio che ormai sono la norma amministrativa di imprese piccole e grandi. Imprenditori e finanzieri d’assalto che speculano su tutto, dal petrolio alle società calcistiche. Faccendieri, riciclatori di danaro sporco, furbetti del quartierino che operano quali teste di ponte di poteri ben più forti di quelli che dicono di rappresentare. La norma è che, in una fase storica di decadenza del capitalismo, la ricerca del facile profitto passa sempre più attraverso le maglie della speculazione e del parassitismo, che della produzione reale, che al contrario impone ricerca, ingenti investimenti, scontri di classe, e profitti sempre meno remunerativi rispetto alle aspettative del capitale investito.

In economia, come nella società, sembra esistere una sorta di doppia morale. Quella di tutti, sancita dal codice civile e penale, dal senso comune che la stessa società borghese infonde a tutti i livelli, e quella del profitto, della speculazione finanziaria e del parassitismo che da quella morale fanno astrazione. In realtà la morale è una sola: quella del capitale, ma con due versanti. Per chi la vive dal versante sud, quello del lavoro salariato, della fatica quotidiana di campare, le regole sono rigide, ferree, applicate con puntigliosa meticolosità, determinazione e cattiveria di classe. Per chi la vive dal versante nord, quello del capitale e dei suoi amministratori, le stesse regole non hanno efficacia, sono stravolte o sostituite da una prassi completamente diversa, se non opposta. Prassi che a volte salta, ma solo quando il conflitto tra capitali si fa duro, quando la crisi economica esaspera la concorrenza, quando qualche magistrato solerte è costretto a fare la sua parte. In simili condizioni si aprono varchi nell’omertà, si tolgono momentaneamente i veli che coprono le vergogne di una società economicamente decadente e moralmente debosciata, e poi tutto ritorna come prima, se non peggio. Questo è accaduto con mani pulite, con gli scandali finanziari e quelli calcistici, e la stessa sorte è toccata alle imprese del principe Vittorio Emanuele.

In tutti i casi, quale che sia la ragione dell’affioramento dei cosiddetti scandali, rimane il fatto che, faccendieri ed affaristi, vecchi rampolli monarchici o rampanti borghesi repubblicani, possono affondare il loro denti famelici nel ventre molle del capitalismo, solo sino a quando c’è qualcuno che produce plusvalore, il loro oggetto del desiderio e motivo di competizione. Quando i produttori di plus valore alzeranno la testa, anche per questi personaggi non ci sarà che una sola morale, quella proletaria che non darà scampo né a loro, né al sistema economico che li mantiene.

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Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.