I soldati italiani nel mirino della guerriglia irachena e afghana

È il dominio dell’ipocrisia: si scrive guerra e si legge pace

L’accusa è molto dura:

La sete di potere fatta passare per atto umanitario, la disuguaglianza economica, la mancanza di giustizia sociale, i diritti dei lavoratori negati, la guerra dovunque. Gente che ha poco e che è costretta a subire l’arroganza di chi ha troppo. Ecco cosa hanno da proporci i padroni del mondo!

Sembrerebbe la denuncia di una organizzazione che ha qualche dimestichezza col comunismo ed invece è una sorta di anatema lanciato dall’arcivescovo di Pisa durante i funerali di uno dei militari uccisi nell’attentato di Nassiriya. Nassiriya come Kabul. Così titolano alcuni giornali facendo emergere dal pantano mefitico della retorica patriottarda le ragioni più vere e più nascoste, con annesso lascito di contraddizioni, dell’intervento militare italiano in alcuni contesti bellici. Il rilievo tragico ed esilarante allo stesso tempo è che i protagonisti di queste avventure militari manifestano un certo stato confusionale se, a loro dire, alla situazione irachena dovrebbe venire applicato il “modello afghano” per poi intendere che al “pacificato” Afghanistan andrebbe applicato il “modello iracheno”. È gente a cui manca decisamente la cultura della vergogna. Forse, considerati i successi conseguiti in questi due teatri di guerra, la parola “modello” finisce, più che altro, per assumere un significato assai sinistro. In entrambi i casi il dato incontestabile è rappresentato dal codismo del governo italiano verso Washington, verso un unilateralismo USA che sta provocando ampi dissensi nella opinione pubblica americana e inglese come anche negli stessi apparati militari dei due paesi. Da noi, invece, si usa il profilo basso, il traccheggio per evitare di prendere decisioni che dovrebbero essere imposte dal solo senso comune. Con quale coraggio si continua a stare in guerra camuffandola per “missione di pace” oppure per “ricostruzione civile” quando questa impresa post-coloniale voluta dal governo Berlusconi non era per niente in sintonia con le risoluzioni dell’ONU? Il contingente italiano, forte di 3.300 effettivi, era giunto in Iraq assai prima del pronunciamento delle Nazioni unite: per la precisione appena dopo la proclamazione della vittoria, fatta dal cow-boy texano sulla portaerei Lincoln l’1 maggio 2003. Vittoria annunciata e proclamata almeno una mezza dozzina di volte e contraddetta dal fatto che la “coalizione dei volenterosi” sarebbe rimasta in Iraq fino a quando le forze irachene non sarebbero state in grado di garantire la sicurezza del paese. Cioè mai. Mancando un mandato internazionale si è fatta passare questa guerra come missione di “nation building” o di “peace support” che sta tuttavia sempre più perdendo la credibilità, l’autorevolezza, il consenso che una missione di pacificazione o di democratizzazione dovrebbe, almeno in teoria, avere. Al di là dei funambolismi semantici, le forze militari intervenute in queste due aree non sono riuscite a conseguire il controllo del territorio, ad eliminare il terrorismo, ad impedire la resistenza armata, a garantire perfino i diritti più elementari ed essenziali della popolazione. Al contrario han preso sempre più piede fenomeni di terrorismo, estremismo, criminalità e destabilizzazione in tutta un’area che viene definita “arco militarizzato” e che va da dal Centro America fino all’Estremo Oriente passando per il Medio Oriente, i Balcani e il Caucaso. Tutto questo si produce in quanto gli interventi militari vengono predisposti per ragioni assai diverse da quelle dichiarate e questo vale per l’Iraq, l’Afghanistan e dappertutto. Il contingente italiano, in qualità di codazzo degli alleati “volenterosi”, si trova anch’esso impantanato in Iraq grazie alla cosiddetta operazione “Antica Babilonia” e la sua zona operativa comprende Nassiriya e la circostante zona di Dhi Qar. Le farneticazioni di Berlusconi cercano di convincere che ai militari italiani sia stata affidata la zona più tranquilla sottacendo volutamente se, in quella stessa zona, ci sia qualche raffineria o pozzo dell’ENI da proteggere. Se al cavaliere, ferrato di certo in tecniche pubblicitarie ma manchevole di qualsiasi nozione di storia contemporanea, non sfuggisse cosa è stata quasi sempre, nel corso della sua storia, Nassiriya, ebbene, potrebbe giovarsene la visione d’insieme. La zona di Nassiriya è quella che più duramente ha resistito alle invasioni straniere ed è stata anche il più importante centro di resistenza contro le forze ottomane, prima, e quelle inglesi, successivamente, alle quali, negli anni ’20, inflisse perdite per oltre 100.000uomini. È a Nassiriya che nasce, negli anni ’30, il partito comunista iracheno composto per lo più da giovani che combattevano contro i grandi latifondisti ed è nelle paludi di Suq al Shuyukh che si organizza la resistenza sciita contro Saddam Husseyn. Zona a prevalenza sciita ha visto nel corso degli ultimi decenni la scomparsa o il ridimensionamento dei partiti laici e la conseguente ascesa di movimenti politico-religiosi sciiti e sunniti, cosa che non impedisce, al di là delle differenziazioni confessionali esistenti, il sentire un forte richiamo tribale ed un altrettanto forte richiamo nazionale sintetizzato nello slogan: “prima di tutto iracheni”. In questa zona “tranquilla” le truppe italiane sono vissute, dalla popolazione, come forze di occupazione e di protezione dei notabili locali considerati corrotti ed incapaci. Con sommo sconcerto per gli assertori dei luoghi comuni, gli italiani non sono riusciti a diventare i “bravi ragazzi” benvoluti da tutti. Si percepisce, in altri termini, un’ambiguità di fondo tra l’impossibilità di svolgere una missione di “peace keeping” e un quadro bellico segnato da brutalità da ogni parte. Questa situazione, sospesa, poco chiara, sostenuta dal governo Berlusconi e non ancora definita unanimemente dal prossimo governo Prodi, potrebbe, tradursi in termini pratici, col passaggio da “Antica” a “Nuova Babilonia” col che in Iraq, sempre per proteggere gli “interventi civili, rimarrebbero 600 carabinieri. Ciò che provoca qualche sospetto è che 600 militari equivalgono a due reggimenti, numero, almeno a sentire gli esperti, decisamente al di sopra delle pseudo-esigenze di protezione e sicurezza.

Kabul come Nassiriya. Qui la guerra era, si fa per dire, finita da tempo. In realtà non è mai finita. Se i primi tre anni hanno visto indebolire la resistenza dei talebani, dal 2004 il quadro è cambiato in quanto gli stessi, grazie al sostegno dei servizi segreti pakistani, che a loro volta dovrebbero essere alleati degli americani, ed ai proventi della vendita dell’oppio, si sono riorganizzati a tal punto che nei primi quattro mesi del 2006, oltre alla scia innumerevole di vittime combattenti e civili, si contano 26 soldati USA e 10 del contingente Isaf-Nato, uccisi. I due alpini italiani sono le ultime vittime di questa tragica contabilità e se per gli americani tutto ciò è acquisito da tempo, costituendo il prezzo da pagare per la loro politica imperiale, per gli italiani è come scoprire qualcosa con cui non s’eran fatti i dovuti conti, in Afghanistan come a Nassiriya. Se la “exit strategy” di Bush dall’Iraq prevede, a fronte del ritiro di un certo numero di uomini, più attività di intelligence e più raid aerei per evitare lo schieramento in campo aperto, se un certo disimpegno in Afghanistan si traduce nel ritiro da zone ritenute assai pericolose (Kandahar, Uruzgan), per quanto riguarda l’Italia c’è da dire che i fatti luttuosi di quest’ultimi giorni comprovano a chiare lettere che il contingente italiano è in guerra poiché in Iraq e in Afghanistan c’è la guerra. Il nuovo governo farebbe bene a prenderne atto anziché, come sembra voglia fare leggendo le dichiarazioni dei leader dei partiti che lo sosterranno, cincischiare con una serie infinita di sottil distinguo.

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.