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Home ›Il segreto del successo della Wal-Mart: salari da fame per i dipendenti
Grazie alla flessibilità, nell'azienda americana ogni anno è sostituito il 40% dei lavoratori
Al reverendo Jesse Jackson i reparti della multinazionale Wal-Mart evocano “le piantagioni poiché gli ricordano le condizioni dei campi di cotone del Sud.”
L’accostamento sintetizza al meglio non solo la dimensione, la rilevanza ma anche la filosofia che è sottesa a questa azienda e da qui il modello che essa stessa viene a rappresentare. Il gruppo è fondato nel 1962 da Samuel Walton e la sua crescita si impernia, sviluppandosi, su pochi ma efficaci capisaldi gestionali e di marketing quali il controllo rigoroso e pedissequo dei fornitori insieme all’applicazione sempre più avanzata delle tecnologie informatiche della gestione. Tutto questo gli consente di avere, in termini di competitività, un vantaggio sui prezzi, vantaggio sul quale ha costruito e proiettato la propria immagine e che si è tradotto nella fidelizzazione della clientela. In termini operativi la crescita è rappresentata da un crescendo inarrestabile di cifre: nel 1992 Wal-Mart diventa il più grande rivenditore al dettaglio del mondo. Nel 1997 il fatturato supera i 100 milioni di dollari e i dipendenti, nel 1998, raggiungono la ragguardevole cifra di 825.000, col che l’azienda diventa il più grande datore privato degli USA. Il modello Wal-Mart è molto semplice e consiste principalmente in una accentuata scarnificazione del costo del lavoro realizzata non solo sulla manodopera locale ma con riverberi anche all’estero per il tramite delle consociate a cui sono stati assegnati i sub-appalti per cui gli stipendi dei propri “associati” (così, usando un eufemismo molto elegante, vengono definiti i dipendenti) sono inferiori del 30% rispetto alla media nazionale. A ciò si aggiungano, per delineare meglio l’insieme, diritti negati come pause pranzo o altre interruzioni previste dai contratti, abusi sui dipendenti costretti a lavorare oltre l’orario senza alcun compenso aggiuntivo. Viene fatto grande uso di lavoro flessibile e precario con un 40% dei dipendenti che cambia ogni anno, si assumono lavoratori immigrati privi di documenti, si discriminano le donne e si violano costantemente le norme contro il lavoro minorile. La impresentabilità di questo pseudo-modello è corroborata dal particolare che ogni dipendente Wal-Mart va a gravare per 2.013 dollari annui sulla collettività statunitense datosi che la società non si cura minimamente di garantire determinate protezioni sociali quali la malattia e la pensione o complementi di assistenza quali sanità, figli, casa. Ne consegue, diremmo per forza gravitazionale, come a fronte di elevati profitti privati corrisponda una ripartizione pubblica delle perdite e dei costi, il che, tradotto in volgare pecunia, consente di praticare prezzi mediamente inferiori del 14% e di retribuire i propri commessi con 14.000 dollari l’anno quando gli altri supermercati ne pagano 18.000 e soprattutto considerando che la soglia della povertà, fissata dall’amministrazione Bush, è di 15.060 per una famiglia di tre persone. Ma questa strategia ad ampio spettro, rivolta parossisticamente alla massimizzazione dei profitti, si basa pure su una accorta politica di importazioni da paesi che producono a costi bassissimi, Cina in primis. Alcuni dati rendono più intelleggibile il fenomeno: nel 1995 solo il 6% delle merci vendute da Wal-Mart era fabbricato all’estero. Oggi siamo già ad una cifra vicina al’85%. L’80% dei 6 mila fornitori sono cinesi ed anche questa cifra va presa con beneficio d’inventario in quanto molto spesso si ha a che fare con joint-venture tra multinazionali e aziende locali. Il Washington Post scriveva tempo addietro che se Wal-Mart fosse uno stato, sarebbe il quinto importatore mondiale dalla Cina. Per un gruppo che nei bei tempi andati invitava a “comprare americano” dev’essere stato duro adeguarsi alle piacevolezze della delocalizzazione! Wal-Mart si vanta di inseguire il prezzo più basso e che questo, in ultima istanza, è a tutto vantaggio dei consumatori. Vero che sia tutto ciò, per pura ipotesi, i disastri conseguenti alle pratiche del gruppo si possono rilevare da un esame un po’ meno superficiale: col costringere, di fatto, attraverso retribuzioni e prezzi di vendita più bassi, le aziende fornitrici a dover trasferire la propria produzione nelle aree periferiche, ne deriva la soppressione di posti di lavoro. I disoccupati entrano nel circuito dei “lavoretti” sottopagati e, soprattutto, entrano a far parte dei “working poor” (lavoratori poveri) che possono andare a far spesa solo da Wal-Mart. Ma non è tutto. Per ogni azienda USA che trasloca, ad esempio in Cina, chiudono una mezza dozzina di fabbriche in sub-appalto in America latina e nell’area caraibica. Altri disoccupati che entrano clandestinamente negli USA e che, non avendo soldi da scialare, fanno anch’essi spesa da Wal-Mart. Vero e proprio girone dell’inferno dantesco popolato da supersfruttati, emarginati, accomunati tutti dall’essere strumenti di una fabbrica che produce povertà e disperazione. Questo meccanismo perverso spiega anche e conseguentemente come l’uso di forza-lavoro instabile escluda che questa possa essere sindacalizzata. In un contesto in cui là dove Wal-Mart arriva i piccoli commercianti chiudono, e dove, come nel caso dei Supercenters aperti nell’ex DDR, si applicano regole che un tempo erano esclusivo appannaggio della Stasi, il ruolo dei sindacati, ancorché deficitario, equivoco, comunque inadeguato, rappresenta un’ ostacolo da ridurre e possibilmente eliminare in quanto una politica con questo taglio ha bisogno di scarsi controlli e di una autonomia operativa pressoché totale. I passi giganteschi, a ritroso, fatti dal movimento dei lavoratori negli ultimi decenni, non conoscono sosta. Se, a partire dagli anni ’30 fino a tutti gli anni ’70, la General Motors, impresa all’avanguardia tecnologica del suo tempo, rappresentava il modello di una classe operaia che diventava middle-class, e se, pochi anni addietro, era la Microsoft a simboleggiare l’impresa prototipo del know-how post industriale, col secolo appena nato è la Wal-Mart a incarnare il nuovo tipo di organizzazione economica capace di integrare produzione, distribuzione ed utilizzo transnazionale delle risorse in un unico sistema. Assurge quindi a modello economico che comincia a far tendenza, a cui riferirsi, prova ne sia la titolazione di un articolo apparso alcuni mesi fa sul “Sole 24 ore” in cui si stigmatizzava il ruolo del sindacato, considerato oramai privilegio residuale del capitalismo occidentale. Eliminare i sindacati diviene, secondo questo intendere, abbattere l’ultimo diaframma, semplice simulacro ancorché sostanza, vuol dire abbassare il costo del lavoro riducendolo, laddove sia possibile, finanche sotto la soglia di povertà. Ci si trova di fronte, in estrema sintesi, a ciò che viene già definita, per quel che attiene i processi di precarizzazione e di abbattimento di qualsivoglia tutela a difesa dei lavoratori, “walmartizzazione”. Walmartizzazione che, facendo astrazione dalle denunce ipocrite della Afl-Cio (sindacato americano) che per ragioni esclusive di bottega è interessato ai lavoratori della Wal-Mart la cui sindacalizzazione avrebbe valenza di inversione di tendenza rispetto al declino ormai ventennale, riguarda dal di dentro il sindacato medesimo propenso (nell’interesse dei lavoratori, ci mancherebbe...) ad “avere un movimento dinamico, più sensibile al mercato visto che il sindacato non è diverso da un’azienda e quindi gli iscritti vanno trattati come clienti”. Ottimo. In tempi relativamente recenti si è passati dalla teorizzazione di “lavoratori”, con relativi connotati di classe, a quella astratta di “cittadini”. Adesso il cerchio si chiude con una calibratura più consona ai dettami della globalizzazione: “clienti”. Al mondo del lavoro, al proletariato internazionale l’arduo ma piacevolissimo compito di fare giustizia di queste insulsaggini.
ggBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #2
Febbraio 2006
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