Si valuta il dollaro, cresce il prezzo del petrolio - E gli Usa fanno festa

Negli ultimi mesi il prezzo del petrolio è stato in continua ascesa toccando nel momento in cui scriviamo i 34 dollari al barile. Come più volte abbiamo sottolineato, le dinamiche del prezzo del greggio giocano un ruolo fondamentale nella redistribuzione della rendita finanziaria su scala mondiale e di conseguenza anche nei rapporti interimperialistici.

La formazione del prezzo del petrolio non è il frutto del gioco del libero mercato. In altri termini non ci troviamo di fronte ad un aumento del prezzo perché sul mercato la domanda supera l'offerta di greggio. Se il prezzo fosse così determinato, visto l'andamento dell'economia mondiale e la sottoutilizzazione degli impianti produttivi, il prezzo del petrolio dovrebbe attestarsi abbondantemente sotto i 20 dollari al barile anche se molti economisti borghesi sostengono che l'aumento del prezzo del petrolio è il risultato del boom dell'economia statunitense. Essi affermano che se è vero che Europa e Giappone crescono ad un ritmo molto fiacco, gli Stati Uniti crescendo ad un ritmo annuo del 4% hanno aumentato la domanda mondiale del greggio facendone innalzare il prezzo.

La crescita statunitense di questi ultimi 18 mesi è la conseguenza della politica economica di Bush, basata esclusivamente sul sostegno all'industria militare e petrolifera, nonché al grande capitale finanziario. Una massa enorme di dollari, pari a 500 miliardi di dollari, è stata immessa sui mercati statunitensi nel tentativo di risollevare un'economia in recessione da oltre tre anni. Con un intervento di questa portata gli effetti nel breve periodo non potevano che provocare un'impennata del Pil; ma nel medio lungo termine essendo la manovra indirizzata esclusivamente sul lato dell'offerta, senza quindi significativi investimenti nel mondo della produzione, è facile prevedere anche una crescita spaventosa del debito pubblico e di quello commerciale.

Dietro la corsa del prezzo del petrolio non c'è quindi il boom statunitense, peraltro in via d'esaurimento secondo gli ultimi dati forniti da importanti centri di ricerca economica statunitensi, per la ragione che la crescita degli Usa non ha prodotto un aumento della produzione industriale interna, ma solo un aumento vertiginoso delle importazioni e di conseguenza del deficit commerciale.

Nell'ultimo numero de L'Espresso di Febbraio 2004 è stato pubblicato un articolo dell'economista americano Rifkin il quale sostiene che l'aumento del prezzo del petrolio è determinato dal fatto che i paesi produttori hanno tagliato la produzione di greggio del 4% per compensare la svalutazione del dollaro sui mercati valutari internazionali. I paesi produttori di petrolio vendono il petrolio in dollari, ma successivamente si rivolgono al mercato europeo per acquistare beni e servizi, utilizzando per questo l'euro. Se consideriamo che negli ultimi mesi il dollaro rispetto all'euro si è svalutato di un terzo del proprio valore è evidente il danno subito dai paesi produttori di greggio, i quali ottengono dalla vendita di petrolio dollari svalutati e sono costretti a pagare in euro i beni e i servizi che acquistano per la stragrande maggioranza nei paesi europei. Per fronteggiare quindi la svalutazione del dollaro i paesi dell'Opec tagliano la produzione determinando quindi un aumento del prezzo del petrolio. La tesi di Rifkin è che il prezzo del petrolio aumenta in quanto si svaluta il dollaro. Per Rifkin se dovesse continuare l'ascesa del prezzo del petrolio c'è il rischio che l'espansione economica americana si accartocci su se stessa determinando una recessione su scala internazionale. L'alternativa per Rifkin sarebbe quella di sviluppare nel più breve tempo possibile tutte quelle forme di energie alternative, come l'idrogeno, capaci di svincolare l'economia statunitense e mondiale dai capricci degli sceicchi dell'Opec.

La tesi sostenuta da Rifkin non coglie nel segno del problema in quanto non si analizza fino in fondo il legame che esiste tra prezzo del petrolio, dollaro e rendita finanziaria. Il fatto che il petrolio sia venduto in dollari non è casuale o di secondo piano, ma rappresenta un punto cruciale intorno al quale si stanno combattendo le guerre in questi ultimi decenni. Per gli Stati Uniti il semplice fatto che il prezzo del petrolio si esprima in dollari determina una rendita annua che è stata calcolata nel 2002 in qualcosa come 500 miliardi di dollari. Ora è evidente che più aumenta il prezzo del petrolio più aumenta la richiesta di dollari necessari ad acquistare tale materia prima. Tra dollaro e prezzo del petrolio esiste quindi un legame strettissimo che gli Stati Uniti hanno tutto l'interesse a mantenere per continuare ad usufruire della rendita finanziaria derivante da tale legame. Negli ultimi dodici mesi per contenere lo spaventoso deficit commerciale e rilanciare le esportazioni l'amministrazione Bush ha imposto ai mercati monetari la svalutazione della propria valuta. Un dollaro svalutato avrebbe potuto generare il pericolo di non riuscire a finanziare l'enorme debito pubblico in quanto gli investitori internazionali avrebbero potuto investire i propri capitali in altre aree del mondo con tassi d'interesse più remunerativi. Gli Stati Uniti sono l'unico paese al mondo in grado di fronteggiare questa contraddittoria situazione proprio grazie al fatto che possono ottenere forzosamente il finanziamento del proprio debito manovrando il prezzo del petrolio. Infatti grazie all'aumento del prezzo del petrolio gli Stati Uniti sono contestualmente riusciti finora a svalutare il dollaro e nello stesso tempo ad ottenere il finanziamento del proprio debito. Ma tale privilegio non è stato concesso agli Stati Uniti per grazia divina, ma è il frutto della loro politica imperialistica. È soprattutto per questo che sono presenti militarmente laddove c'è il petrolio, per riuscire a determinare il suo prezzo e per far continuare ad utilizzare il dollaro come unica moneta nella compravendita.

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Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.