Una ripresa che non arriva mai - Ma la guerra che lascia ben sperare

Ormai è certo; neppure nel secondo trimestre di quest'anno ci sarà la tanto attesa ripresa dell'economia mondiale. Non cresce, o cresce in misura molto modesta il Pil della zona dell'euro; forse crescerà dell'1 per cento, dopo anni di stagnazione, il Pil del Giappone. Va male e continuerà ad andare male l'economia dei paesi del sud-est asiatico e malissimo quella dei paesi dell'America Latina a cominciare da quella del Brasile. Vanno male anche gli Usa nonostante il loro Pil abbia fatto registrare nello scorso mese di luglio una crescita su base annua del 2,4 per cento, un risultato, in verità, molto più modesto di quanto appaia. Non bisogna dimenticare, infatti, che i sistemi di calcolo del Pil negli Usa sono diversi da quelli della zona dell'euro tanto che se gli statunitensi usassero il metodo europeo la crescita risulterebbe inferiore di un buon trenta per cento. Inoltre, il balzo in avanti, essendo stata determinato in larga misura dalla forte crescita della spesa militare, dovuta alla guerra contro l'Iraq, riguarda solo alcuni limitati settori per cui finora non si è registrato alcun effetto moltiplicatore sul resto dell'economia e in modo particolare sull'occupazione. Si parla perciò di una ripresa senza lavoro ("jobless") che non genera nuova domanda e una crescita dei consumi. È la prima volta che l'economia statunitense, che pure è fortemente strutturata sulla crescita dei consumi interni finanziati con l'indebitamento, reagisce in misura così modesta alla contemporanea riduzione delle imposte a favore del grande capitale e una poderosa crescita della spesa pubblica come quella indotta dalla guerra e dall'occupazione dell'Iraq. Che l'economia mondiale e quella statunitense in particolare, sia finita in un cul de sac, da cui nessuno sa come venirne fuori, è confermato anche dal pauroso calo degli investimenti che si registra un po' in tutti i paesi industrializzati. Proprio in questi giorni l'agenzia Unctad delle Nazioni Unite ha presentato il rapporto annuale sugli investimenti nel mondo che conferma la generalizzazione del fenomeno su scala internazionale. Dopo il picco raggiunto nel 2000 con 1393 miliardi di dollari di investimenti diretti esteri nell'insieme dei paesi del mondo si è passati a 824 miliardi di dollari nel 2001 e a 651 nel 2002. In percentuale si è registrato, rispetto a ogni anno precedente, un calo del 40 per cento nel 2001 e del 21 per cento nel 2002. Per il 2003 l'agenzia dell'Onu preferisce non fare previsioni, ma anticipa che " i fasti del 2000 non si ripeteranno" (G. Ragazzino - Povero globo - il Manifesto del 5 settembre 2003). Impressiona ancora di più il fatto che nonostante un calo di queste dimensioni degli investimenti, in tutti i paesi industrializzati si registra una forte sottoutilizzazione degli impianti industriali. Negli Usa, addirittura, è scesa al 74,4 per cento nell'intera industria e al 72,5 per cento nel settore manifatturiero con un calo di 13 punti rispetto al 2000, quando fu raggiunto il picco massimo, e di ben 7 punti rispetto alla media degli ultimi trenta anni.

Per ritrovare nella storia del capitalismo moderno un contesto di crisi simile bisogna risalire alla grande crisi del 1929 e alla depressione che ne seguì per tutti gli anni Trenta.

Allora, però, esistevano gli spazi per politiche economiche di sostegno della domanda da parte dello stato che potevano fungere da volano per l'intera economia e soprattutto per il settori nascente dell'automobile e tutto il relativo indotto; oggi no. Non esistono neppure in "mente tecnologica" nuovi settori che possano svolgere, relativamente alla creazione di nuovi posti di lavoro, il ruolo svolto dal settore automobilistico e dal suo gigantesco indotto e, soprattutto, non esistono prospettive durature di realizzazione di saggi di profitto soddisfacenti. Inoltre, a rendere pressoché impossibile il perseguimento di politiche di sostegno della domanda ovvero dell'occupazione della forza - lavoro e dei mezzi di produzione mediante il finanziamento in deficit della spesa pubblica vi è il fatto che dopo trenta anni di crisi e di sostegno dato al capitale, le casse degli stati sono un po' ovunque vuote. In Italia, per esempio, per far cassa, il ministro del Tesoro ha perfino accarezzato l'idea di vendere tutto il patrimonio immobiliare dello stato: caserme, scuole, palazzi ministeriali e forse anche piazze, strade e giardini, che poi lo stato avrebbe dovuto prendere in affitto dai nuovi proprietari. Insomma, come è stato fatto in Argentina con i risultati che tutti conosciamo.

Probabilmente, nel caso del fantasioso ministro italiano, avrà giocato anche il fatto che il suo governo è espressione anche di quei gruppi economici e finanziari che da una simile manovra avrebbero tratto i maggiori benefici, ma ciò non sminuisce la difficoltà oggettiva comune a tutti i paesi di reperire i fondi necessari per perseguire politiche economiche di rilancio dell'economia basate sull'ulteriore finanziamento in deficit della spesa pubblica senza correre il rischio di gettare benzina sul fuoco dell'inflazione che, al di là dei dati ufficiali, già ora viaggia su percentuali a due cifre.

Per queste ragioni, e per l'assenza di una forte opposizione di classe, nonostante il calo dei consumi e il blocco della domanda, vengono perseguite ancora politiche economiche di sostegno dell'offerta mirate alla riduzione dei costi sia mediante la compressione del salario sia concedendo alle imprese, e i più in generale al capitale, agevolazioni fiscali di ogni tipo finanziate aumentando la pressione fiscale sui redditi medio - bassi, con i tagli alla spesa assistenziale e con l'azzeramento di ogni forma di salario differito (indennità di fine-rapporto, pensioni di anzianità ecc.). Vi è da dire che ultimamente, essendo stato già da tempo raschiato il fondo del barile, anche le cosiddette politiche di sostegno dell'offerta incontrano notevoli difficoltà a essere concretamente perseguite.

In verità, la crisi è entrata in una fase in cui le normali manovre di politica economica possono ben poco perché la morsa in cui si dimena l'economia mondiale affonda le sue radici nelle contraddizioni del processo di accumulazione del capitale e non nella fase della circolazione delle merci. Occorrerebbe che ripartisse un nuovo ciclo di accumulazione ma né la "mano invisibile" del mercato né l'intervento regolatore dello stato hanno questo capacità. Perché riprenda un nuovo ciclo di accumulazione occorre qualcosa di più e qualcosa di più radicale come è ed è sempre stata soltanto la guerra. Ciò non esclude, proprio perché qualche guerra è già in atto e qualcun'altra si annuncia, che nel frattempo non possa verificarsi una fase di relativa ripresa, ma proprio perché sono sempre più economia e guerra sono sempre più correlat, e perché una risposta di classe ancora non si intravede, per molto tempo ancora i venti della guerra soffieranno tendendo a rinforzare.

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.