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Home ›Il fallimento delle privatizzazioni
In compenso sono state un efficace strumento di lotta contro la forza lavoro
Il sistema economico capitalistico ha le sue leggi che si fondano sullo sfruttamento della forza lavoro, ha le sue crisi periodiche che generano dissesti e danni sociali e un morbo, la caduta del saggio del profitto, che lo erode dall'interno. La ricerca del massimo profitto costringe il sistema a riprodursi in termini sempre più esasperati nell'applicazione delle tecnologie, che abbattono sì i tempi e i costi di produzione ma restringono la base della forza lavoro e creano le condizioni per rendere tendenzialmente il saggio del profitto più debole rispetto ai capitali investiti.
Per quarant'anni, dopo la chiusura della seconda guerra mondiale, il capitalismo ha creduto di poter contrastare il fenomeno teorizzando e praticando l'intervento dello stato nell'economia in tutte le forme possibili che la "scienza" economica borghese poteva mettere in campo. Si è avuto così uno stato che si proponeva sul mercato come domanda aggregata, come controllore e pianificatore dei fattori della produzione e/o come imprenditore nei settori più importanti dell'economia e dei servizi. L'idea era che la presenza dello stato nella economia non soltanto avrebbe ridato fiato alla creazione di remunerativi saggi del profitto nell'ambito della produzione, ma si sarebbero superati i cicli economi eliminando crisi e disfunzioni nel settore della distribuzione della ricchezza sociale.
Dopo decenni di questa pratica, applicata più o meno intensamente in tutti i più significativi segmenti del capitalismo internazionale, è esplosa negli anni settanta la più grave e socialmente devastante crisi economica del secondo dopoguerra. L'intervento dello stato nell'economia non era riuscito a ricomporre le contraddizioni del sistema economico, il capitalismo mondiale si è trovato a fare i conti con migliaia di fabbriche che chiudevano, con un tasso di disoccupazione oltre il 10% e con saggi del profitto più bassi di quelli degli anni '60. In più il sostegno statale all'economia era costato un indebitamento, sotto forma di debito pubblico, pari al 60% del Pil nei casi migliori, del 90% e più nei casi più gravi. Una sorta di banca rotta fraudolenta nei confronti dei sottoscrittori, e un buco finanziario quasi ingestibile.
È a questo punto che, prima in Inghilterra e negli Usa, poi nel resto del capitalismo mondiale, si è fatta strada la necessità di dare il via al disimpegno dello stato nell'economia attraverso le privatizzazioni. Il nuovo pensiero forte, che ha cominciato ad esprimersi negli anni '80 e che tuttora pervade di sé l'economia, pur arrancando e dando segni di pesante cedimento, recitava che il male di cui doveva liberarsi il capitalismo era proprio lo stato, la sua invadenza nel mondo dell'economia. Così come prima era visto come la soluzione di tutti i problemi, dopo il suo fallimento era presentato come la causa di tutti i mali. Con lo slogan "meno stato più impresa" la politica economica borghese ha creduto di risolvere tutti i suoi problemi. Il crollo del falso comunismo sovietico, accoppiato al neo liberismo anti statale, faceva dire ai nuovi profeti della borghesia internazionale che per l'umanità si sarebbero aperti orizzonti di pace e prosperità. Le crisi economiche sarebbero state solo un ricordo, la macchina economica avrebbe ripreso il suo cammino, la massa e il saggio del profitto avrebbero riconquistato la loro "giusta" dimensione, e per tutti, proletari compresi, ci sarebbero state le migliori condizioni economiche e sociali possibili.
In questa prospettiva, liberati i fattori della produzione dalla pesantezza e dalla inefficienza dello stato, ridato al mercato il suo ruolo centrale di coordinatore e di acceleratore delle forze produttive, le privatizzazioni venivano viste come la necessaria via al miglioramento della produzione e alla efficienza dei servizi. Dopo un ventennio di queste pratiche nei paesi anglo sassoni e un decennio in Europa, si è arrivati alle soglie di una nuova recessione internazionale e allo smantellamento dello stato sociale. Si è creata una disoccupazione endemica, la povertà è aumentata in tutti i paesi a capitalismo avanzato mentre nel terzo mondo si sono in sostanza azzerati tutti i livelli di sussistenza. Quel fenomeno che doveva essere propositore della soluzione alle crisi economiche, propulsore di benessere e ricchezza, si è rilevato per essere il suo contrario.
Le privatizzazioni hanno consentito ai gruppi oligopolisti di impossessarsi a prezzi di svendita, non senza scontri violenti, delle imprese controllate o di proprietà dello stato. Hanno consentito, grazie alla compiacente opera legislativa dello stesso stato e dei sindacati, la ristrutturazione del rapporto tra capitale e forza lavoro in termini di licenziamenti, flessibilità, contratti a termine e salari più bassi. Ma non hanno risolto le contraddizioni del sistema economico che hanno continuato a incancrenirsi. La presunta maggiore efficienza nella produzione e nei servizi si è risolta per essere il mezzo per aumentare lo sfruttamento del proletariato nel primo caso, mentre si è assistito ad un progressivo indebolimento dell'offerta nel secondo, pari soltanto al degrado generale delle condizioni di vita della la società, dalla previdenza all'assistenza, dai trasporti alla scuola.
Ne sono un esempio le riforme pensionistiche che tendono ad aumentare l'età pensionabile e a diminuire le erogazioni sia in termini complessivi sia individuali. In tutti i paesi capitalistici ad alto sviluppo la sanità sta diventando un lusso, l'assistenza ai disoccupati è praticamente scomparsa. Nei trasporti è sintomatico l'esempio inglese, forse il più evidente ma certamente non unico. Lo stesso Blair, suo malgrado, ha dovuto ammettere il fallimento della privatizzazione delle ferrovie. Accanto ad un aumento straordinario delle tariffe si è prodotto il fenomeno della riduzione e della inefficienza del servizio. Lo stesso dicasi del settore aereo negli Usa, dove i voli delle compagnie private partono solo se hanno un sufficiente numero di prenotazioni, altrimenti tutti a terra e tanti saluti, o della privatizzazione della energia elettrica in California che ha lasciato al buio milioni di cittadini e senza energia migliaia di fabbriche in più di una occasione.
Nella situazione italiana le cose non sono andate diversamente. Nelle ferrovie, a parte i ritardi e i disservizi, sono aumentate le tariffe e i tempi di percorrenza. I Super Star viaggiano come gli Intercity e costano il 50% in più. Là dove le privatizzazioni hanno dato vita allo smembramento del vecchio monopolio statale, come nel caso della telefonia, moltiplicando le imprese del settore, si è assistito ad una lotta senza quartiere con fusioni e accorpamenti che annunciano la creazione di nuovi mega monopoli privati che vanno a sostituire quello statale alla faccia del libero mercato. Nel breve periodo si determina il fenomeno del crollo delle tariffe, nel lungo, a monopoli ricostituiti, il rialzo dei prezzi come impone la logica capitalistica. In tutti i casi, le privatizzazioni, così come la gestione statale dell'economia, non risolvono le contraddizioni del capitale. Al fallimento della prima sta seguendo il fallimento delle seconde a testimonianza del fatto che non sono le forme di proprietà o di gestione dei mezzi di produzione che possono superare il morbo della caduta del saggio del profitto e delle crisi economiche. Oggi c'è solo lo spazio per attaccare la forza lavoro su tutti i fronti, da quello salariale a quello contrattuale e occupazionale, con le relative ricadute sulla qualità della vita spinta sempre di più verso i limiti della mera sopravvivenza. In questo le privatizzazioni non sono fallite anzi hanno svolto un ruolo di grande efficacia e di sostegno alle politiche di ristrutturazione e di concentrazione del capitale.
Fd.Battaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #2
Febbraio 2001
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