L'euro sempre più debole ma alla borghesia va bene così

Ciò che veramente conta è che i lavoratori accettino di buon grado di saldare il conto

Nonostante l'ultimo aumento di mezzo punto del tasso di sconto deciso dalla Bce il dollaro continua la sua vertiginosa corsa al rialzo e l'euro fa registrare un minimo storico dopo l'altro. Per avere un'idea di quanto sia consistente il deprezzamento della moneta unica europea basti pensare che ora un dollaro vale circa 2.250 lire contro le 1700/1800 lire di un anno e mezzo fa.

Poiché il deprezzamento dell'euro si associa alla crescita del prezzo del petrolio, paventando il rischio di una ripresa della spirale inflazionistica, a cominciare dalla Confindustria italiana, si fanno sempre più insistenti le richieste di interventi a favore delle imprese affinché possano incrementare la loro competitività e contrastare così la forza del biglietto verde. Recentemente, anche il governatore della Banca d'Italia Fazio ha richiamato il governo, che per ragioni elettorali promette bonus fiscali a destra e a manca a un maggior rigore stimando il rincaro della cosiddetta bolletta petrolifera pari a circa trentamila miliardi di lire.

In pratica, l'aumento del prezzo del petrolio è imputato alla debolezza dell'euro e questa alla presunta scarsa competitività del sistema "Europa" che sarebbe appesantito da un mercato del lavoro troppo rigido e da una spesa pensionistica e assistenziale troppo elevata rispetto a quella d'Oltreoceano. Tagli alla spesa pensionistica e sanitaria da una parte, alleggerimenti fiscali e incentivi alle imprese dall'altra, dovrebbero quindi servire a dare forza all'euro e a neutralizzare le conseguenze del caro-petrolio. Si tratta però di una tesi strumentale artatamente sostenuta, con lo scopo di riassorbire le spinte inflazionistiche attivate dal rialzo del prezzo del petrolio scaricandole sui salari e far ingoiare ai lavoratori altri tagli della spesa pensionistica e assistenziale. Non è vero, infatti, che il prezzo del petrolio è cresciuto a causa del deprezzamento dell'euro, ma al contrario è stato il suo aumento che ha favorito la rivalutazione del dollaro peraltro auspicata dalla Federal Reserve preoccupata del fatto che l'inflazione fosse cresciuta nonostante i salari fossero fermi ai livelli dei primi anni Settanta.

Un'alta quotazione del dollaro, infatti, avrebbe continuato a richiamare verso gli Usa i capitali necessari a finanziare il loro astronomico deficit commerciale (180 miliardi di dollari nei soli primi sei mesi di quest'anno) contenendo il rialzo dei tassi di interesse entro valori tali da non soffocare l'industria nazionale e soprattutto da non provocare il crollo della gigantesca bolla speculativa che da anni alimenta Wall Street. Contemporaneamente, la nascita dell'euro, rendendo le varie monete europee meno vulnerabili rispetto al dollaro, ha reso possibile in Europa un'inversione della politica monetaria fino a quel momento fortemente restrittiva imposta dalla Bundesbank.

Per capire questo mutamento di rotta della Bundesbank e la condotta attuale della Bce, bisogna tenere presente che la Germania e i maggiori paesi dell'area dell'euro hanno nelle esportazioni il loro punto di forza. In particolar modo la Germania vanta un apparato produttivo tecnologicamente molto avanzato capace di forti surplus soprattutto nel settore dei beni intermedi e durevoli tanto che l'incidenza di questo settore sul prodotto nazionale lordo è pari a circa il 30 per cento. Con questa caratteristica è evidente che l'andamento del ciclo economico tedesco ed europeo dipende fortemente dalle esportazioni.

Per tutti i primi anni Novanta, il problema non si è posto perché è stata la ricostruzione della Germania dell'Est ad assorbire i surplus dell'industria tedesca occidentale e in quegli anni la Bundesbank perseguì una politica monetaria di segno totalmente opposto a quella attuale della Bce. Fra l'altro, allora il marco alle stelle fu molto utile per scaricare sui paesi europei partner come l'Italia, fortemente vincolati alle esportazioni verso la Germania, una consistente fetta del costo della riunificazione del paese.

Chiusa la fase della ricostruzione dell'ex Germania dell'est, l'economia tedesca, più ancora di quella degli altri paesi europei, ha cominciato a perdere colpi facendo registrare un andamento altalenante con tassi di crescita molto bassi toccando nel 1999 il suo punto più basso. In questo contesto, il rilancio delle esportazioni è divenuto un obbiettivo irrinunciabile anche a costo di importare qualche mezzo punto di inflazione peraltro facilmente scaricabile sui salari ormai privati di qualunque possibilità di recupero automatico in tutta Europa.

Si è realizzata così, seppure transitoriamente, un'obbiettiva convergenza fra gli Usa interessati a un dollaro supervalutato con cui finanziare il loro deficit commerciale e i paesi dell'euro, con in testa la Germania, interessati al rilancio delle loro esportazioni.

L'attuale debolezza dell'euro, in questa fase, è dunque del tutto funzionale all'economia europea che vede prevalere al suo interno ancora le attività industriali in senso stretto mentre il dollaro forte è funzionale a quella statunitense che ha nella sfera finanziaria e nello strapotere del dollaro il suo fulcro. Si tratta ovviamente di un equilibrio precario perché vi è implicito il contributo europeo al finanziamento dell'immenso deficit della bilancia commerciale statunitense, ma almeno fino a quando l'Europa non sarà in grado di intervenire direttamente e con efficacia nel processo di formazione del prezzo del petrolio e/o di assicurare ai propri surplus industriali mercati sottratti all'influenza del dollaro, la politica monetaria europea non ha grandi alternative. Peraltro, poiché l'interscambio interno che - è bene ricordarlo - assorbe più del 60 per cento dell'intero import/export europeo, è regolato in euro, le conseguenze delle oscillazioni del dollaro sui processi di formazione dei prezzi interni sono molto minori rispetto al passato e con essi minori sono anche gli spostamenti di plusvalore dal vecchio al nuovo continente.

È evidente però che, dati gli attuali bassissimi saggi del profitto industriale, alla lunga il problema di integrarli con quote crescenti di rendita finanziaria si farà sempre più impellente e allora anche l'Europa dovrà darsi una diversa politica monetaria e una moneta capace di avere un ruolo significativo come valuta di riserva e mezzo di pagamento internazionale.

La riforma fiscale recentemente varata in Germania, e che presto sarà adottata anche da tutti gli altri paesi europei va appunto in questa direzione.

Lo scopo è di favorire, detassando la rendita e il grande capitale finanziario, la nascita di un mercato finanziario continentale capace di competere con Wall Street, oltre che con quello di Londra e Tokyo.

Anche lo smantellamento dell'attuale sistema pensionistico a favore della crescita dei Fondi pensione privati e la contrazione della spesa sanitaria a favore delle società di assicurazione cioè di quei soggetti che svolgono attività prevalentemente finanziarie, mirando all'ulteriore centralizzazione del capitale finanziario, va in questa direzione. Si tratta di un processo in atto destinato a durare nel tempo e i cui esiti sono tutt'altro che scontati.

Allo stato delle cose, però, la borghesia europea, con in testa quella tedesca, non può fare a meno dei vantaggi che offre un euro debole alle esportazioni. Ciò che veramente conta è che i lavoratori, nell'illusione che un euro forte possa significare anche migliori condizioni di vita per loro, accettino di buon grado di saldare il conto perché - come diceva una vecchia canzone di Dario Fo - il loro piangere fa male al ricco... E via a battere sulla grancassa dell'euro debole.

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.