Gli accordi di Hebron

Agli interessi Usa si piegano anche i più conservatori

La cronaca riferisce che gli accordi tra Palestinesi e Israele su Hebron sarebbero il frutto di un complesso giro di ricatti e corruzioni tra il primo ministro Netanyahu e uno dei maggiori esponenti politici della destra ortodossa, un certo Arieh Deri, già ministro dell’interno e attualmente deputato dello Shass, partito ultra ortodosso a base sociale sefardita. Sempre la cronaca riferisce che il suddetto Deri, sotto inchiesta per corruzione, falso, appropriazione indebita e finanziamento illecito al suo partito, avrebbe proposto a Netanyahu questo accordo: o il primo ministro, avrebbe favorito la nomina a procuratore generale di Roni Bar-on, personaggio sul quale Deri basava la sua assoluzione, e in tal caso il partito Shass avrebbe votato gli accordi su Hebron, oppure non se ne sarebbe fatto niente, gli accordi sarebbero rimasti in alto mare e Netanyahu nelle pesti. Detto e fatto. Bar-on è stato nominato procuratore generale, Deri non è finito in galera e gli accordi sono stati firmati per buona pace di tutti e in modo particolare per il traballante posto del primo ministro.

La vicenda, così espressa, suggerisce tre considerazioni. La prima, banale quanto si vuole, ma non per questo non degna di essere presa in considerazione, è che tutto il mondo capitalistico è paese. Chi pensava che nelle severe stanze dei partiti ultra ortodossi, dove si aggirano meditabonde e preganti figure ieratiche dei Rabbini, il profitto, l’adorazione del danaro, la sete di potere non esistessero quali categorie economiche predominanti, legate alla corruzione e al ricatto, é servito. Sembra di leggere una cronaca di “mala” politica italiana basata sulle tangenti, sulle pressioni dei giudici e sugli scambi di favori tra governo e opposizione (per chi avesse voglia, vedere il voto sulla bicamerale e il processo Berlusconi). Il capitale, i suoi meccanismi di valorizzazione non solo non hanno confini, ma finiscono per avere le stesse modalità di espressione, lecite o illecite, e il mondo della politica che li contiene e li giustifica non può fare a meno di agire sul terreno del compromesso e dell’illecito.

La seconda riguarda il contorno sociale e di lotta politica che si sono espressi attorno alla vicenda di Hebron. La prima spiegazione, benché verosimile, tutta interna ai giochi di palazzo, intrisa di ricatti e di corruzione, è pur sempre maturata all’interno di uno scenario più ampio i cui contorni vanno dalla rabbia dei Palestinesi per la ritardata consegna di Hebron, agli interessi economici dei Coloni israeliani che mai avrebbero voluto la restituzione di un “loro” territorio alla amministrazione di Arafat. Il lungo diniego del governo Netanyahu al rispetto degli accordi di Washington si è prodotto a causa delle pressioni di tutta la destra israeliana, dei partiti religiosi e dei Coloni che rappresentano la base sociale di entrambe le istanze. Netanyahu, peraltro presidente voluto dalla stessa destra, dai partiti religiosi che dai Coloni, ha cavalcato la situazione cercando di bloccare l’esecuzione degli accordi, non soltanto su Hebron e sugli insediamenti dei Coloni nei territori occupati, ma su tutto il fronte di quel nuovo scenario politico che aveva mosso i primi passi con la storica firma di Rabin e Arafat nel settembre del 1993 sul prato della Casa Bianca, patrocinatore Bil Clinton, presidente degli Stati Uniti.

È a questo punto che si inserisce la terza ipotesi, quella delle pressioni americane, affinché il processo di “pace” nei territori occupati potesse superare l’ostacolo, facendo rientrare la rabbia palestinese e riproponendo un quadro generale della situazione sufficientemente calmo, o quantomeno amministrabile nel medio periodo. Gli Stati Uniti hanno fortemente voluto questi accordi. Dopo la fine della guerra del Golfo con la quale si erano assicurati il controllo dell’area petrolifera medio orientale legando a se i governi interessati e maggiormente interessanti, gli Usa non potevano tollerare che un dissidio “interno” alla questione palestinese, ma ricco di suggestioni e spinte su scala internazionale, potesse mettere in forse quella catena di alleanze sulle quali riposava, e riposa tuttora, il loro dominio. Non per niente dopo la guerra del golfo la Casa bianca, nell’enumerare i nemici dell’occidente e i compiti prioritari da assolvere, ha riproposto nella prima lista l’Iraq e l’Iran, e nella seconda il processo di pace tra palestinesi e lo Stato di Israele. Nel solo spazio di due anni, dalla conferenza di Madrid agli accordi di Oslo, la diplomazia americana era riuscita ad imporre ad Arafat (peraltro consenziente) e al suo omologo Rabin non solo la ormai storica firma ma anche l’impegno da ambo le parti di reprimere qualsiasi dissidenza interna, considerandoli responsabili degli estremismi all’interno delle rispettive competenze. Per Clinton, dunque, la sicurezza dei confini per Israele in cambio dell’amministrazione dei territori occupati per i Palestinesi, erano le condizioni per poter gestire al meglio gli interessi economici e strategici dell’area petrolifera.

Dopo la morte di Rabin, salita la destra al potere, in Israele si è tentato di puntare i piedi, di bloccare il processo di restituzione dei territori, anche se soltanto da un punto di vista amministrativo, o di rallentarlo il più possibile. Il che non avrebbe soltanto riaperto il fronte dell’intifada palestinese, ma creato tutte quelle tensioni nell’area che Clinton voleva assolutamente eliminare. Non per niente, dopo un anno di fasulle negoziazioni su Hebron, sulla presenza dell’esercito israeliano e sugli insediamenti dei coloni, la Casa bianca ha “invitato” a Washington Netanyahu e lo ha “convinto” a rispettare gli accordi firmati dal precedente governo facendogli sottoscrivere un protocollo d’intesa con Arafat.

Certamente Deri avrà avuto le sue buone ragioni per convincere Netanyahu a contrattare il voto del partito Shass, ma quella firma ci sarebbe stata lo stesso, lo voleva il governo americano, gli interessi attorno alla rendita petrolifera, il ruolo di prima potenza imperialistica degli Usa.

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.