La Sinistra Italiana di fronte alla guerra

La Seconda Guerra Mondiale, estremo episodio della crisi capitalistica maturata nel terzo decennio del secolo e del corrispondente sviluppo dei contrasti interni della società borghese, trova la sua premessa politica, coerentemente alla evoluzione storica più sopra delineata, nella organica convergenza delle due forme di difesa di classe espresse dalla democrazia e dal fascismo e nell'essenziale apporto dato alla mobilitazione della classe operaia dalla politica dell'Unione Sovietica e dal nazional-comunismo.

E poiché la mancata risposta rivoluzionaria alla soluzione capitalistica del conflitto si tradusse di fatto nella mobilitazione pressoché integrale della classe lavoratrice sotto la falsa bandiera della “crociata democratica”, la forza dominante della guerra (ai fini della difesa più salda e conseguente degli interessi di classe della borghesia e dell'inquadramento del proletariato nel meccanismo dell'economia bellica) doveva fatalmente essere non il fascismo, ma la costellazione dei partiti della democrazia ed in particolare i partiti dell'opportunismo operaio.

Questa diagnosi poteva essere fatta, nel corso del conflitto, solo da una forza di classe che, in tutto il periodo precedente, avesse marxisticamente analizzato e denunciato le evoluzioni della politica della democrazia e del fascismo e la radicale trasformazione subita dal regime sovietico, e fosse rimasta non solo estranea ma decisamente avversa ai blocchi, ai fronti unici e a tutti i compromessi di cui quel periodo fu costellato. Era perciò nella dialettica della storia che la Sinistra Comunista, concluso il suo ciclo di frazione allo scoppio del conflitto, si costituisse durante il suo corso in Partito esprimendo nella continuità delle sue posizioni la risposta di una sia pur esile avanguardia rivoluzionaria alla guerra e il permanere di una frattura di classe nel cuore stesso della evoluzione capitalistica.

Solo in virtù del suo allacciamento ad una continuità di posizioni critiche e di battaglia assunte nel periodo decisivo della degenerazione della Internazionale Comunista e della preparazione della guerra, il Partito Comunista Internazionalista poté denunciare senza esitazioni nella economia di guerra e nel conflitto medesimo il portato della crisi del capitalismo decadente; rifiutarsi di aderire alla campagna ideologica che, da una parte e dall'altra, tendeva a rappresentare il secondo massacro mondiale come un urto di ideologie o addirittura di classi ed a far coincidere la vittoria di uno dei due contendenti con gli interessi immediati e finali del proletariato; denunciare nel partigianesimo una delle più sottili e rovinose manovre per aggiogare il proletariato alla guerra impedendogli di porre contro di essa il suo problema di classe; solo l'impiego intransigente del metodo marxista poté permettere al Partito, spazzando la cortina fumogena dell'antifascismo, di indicare nella democrazia, nei suoi partiti e nell'America le forze egemoniche del conflitto, quelle che avrebbero dominato con la loro potenza la scena politica, economica, sociale del dopoguerra, e prevedere il sempre più stretto inquadramento della Russia nel fronte internazionale capitalistico.

E questa diagnosi, che la Sinistra compì sola in Italia e pressoché sola all'estero, differenziandosi nel modo più netto da qualsiasi corrente intermedia (anarchismo, trotskismo e formazioni politiche minori), fu accompagnata da una azione pratica conseguente e da una incessante propaganda per lo schieramento dei proletari non sul fronte della guerra fascista o democratica, ma su quello del sabotaggio di entrambe, della diserzione dei campi di battaglia, della preparazione dei quadri politici per la trasformazione della guerra imperialistica in guerra civile, e contro l'inganno della guerra democratica e di liberazione nazionale. Tale azione pratica poté, per le particolari condizioni storiche dell'Italia e per la più accentuata tensione dei contrasti di classe, irradiarsi in una cerchia non indifferente di proletari, in particolare nelle fabbriche. Ma il controllo capitalistico della situazione internazionale era così saldo, la sua capacità di manovra così sicuramente garantita dalla strapotenza economica degli Stati Uniti, dall'inserimento della Russia nel quadro mondiale borghese e dalla sua gigantesca presa sulle masse, che le sorti del conflitto erano irrimediabilmente segnate. La sua fine non poteva che concludersi, in tutti i paesi vinti, nel pacifico si erano del resto già pienamente costituiti nel corso della guerra. Il Partito non si fece né alimentò illusioni in questo senso, previde alla fine del conflitto l'aprirsi di una situazione storica apertamente reazionaria, e si preparò a dire in essa la sua dura e coraggiosa parola così come aveva saputo dirla contro tutto e contro tutti in piena guerra mondiale.

I primi contatti nel Nord Italia

La presenza di piccoli gruppi di compagni, richiamantisi alla continuità storica delle posizioni teoriche e politiche della Sinistra Italiana fino allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, è segnalata in Italia già dalla prima metà del 1942. Operanti nella parte settentrionale della penisola, in Lombardia e in Piemonte, questi primi militanti internazionalisti attorno ai compagni Onorato Damen e Bruno Maffi, con centro principale a Cantù, facevano riferimento politico ed organizzativo nella abitazione dello stesso Damen, e quindi a Milano.

Fu questo un periodo di incubazione del Partito, protrattosi fino al 25 luglio del 1943, e durante il quale si fissarono le linee principali della valutazione teorica e della condotta politica che avrebbero caratterizzato la vita del Partito. Si trattava, innanzitutto, di...

smantellare la impalcatura propagandistica della guerra come crociata ideologica; denunciare l'avvenuta degenerazione dello Stato operaio russo e della Terza Internazionale; rispondere a questi fatti capitali della storia contemporanea con la riaffermazione della necessità di un Partito di classe, nascente sulle basi teoriche che avevano presieduto all'inesorabile taglio di Livorno-1921.

Dal Rapporto politico-organizzativo al Convegno di Torino, 1945

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Quando, nel 1942, si operò al Nord per riannodare le fila del movimento rivoluzionario, sia in Italia che nel resto d'Europa si assisteva per la prima volta, dopo anni di immobilismo, ad una intesa ripresa della lotta di classe.
A parte gli scioperi alla Fiat dell'ottobre del 1942, e le massicce manifestazioni operaie del 1943 contro la guerra e del sempre crescente fenomeno della diserzione, vanno aggiunti gli scioperi del gennaio del 1944 a Milano e Torino, l'imponente manifestazione (sciopero generale) dei minatori in Belgio, degli operai tessili di Manchester, di quelli addetti alla produzione bellica nell'aeronautica di Country e di manifestazioni analoghe nel Nord della Francia, a Lione e Tolone. Nella stessa Germania si dovettero organizzare delle squadre di SS per scovare i disertori che si rifugiavano nei quartieri popolari diroccati dai bombardamenti.
Se il partito nacque solo nel 1942 e non prima, non fu dovuto a tentennamenti o a carenze di chiarezza politica, ma soltanto al fatto che i compagni che operavano in questa direttiva erano, sino al giorno prima, ospiti delle galere fasciste e fu uno sforzo non indifferente operare i primi contatti nella più assoluta clandestinità, chiusi nella morsa della polizia fascista e delle provocatorie denunce e minacce del partito di Togliatti.

Dalla Introduzione ai Resoconti del Convegno di Torino-1945 e del Congresso di Firenze-1948

Gli scioperi del Marzo 1943

Il 5 marzo 1943, all'officina 19 della Fiat-Mirafiori di Torino, gli operai incrociano le braccia e danno il via a una serie di improvvise fermate del lavoro, che investiranno via via le altre fabbriche della città. Microtecnica, Fiat Grandi Motori e Lingotto, Savigliano, Riv Westinghouse e altre. Nei giorni successivi, nonostante centinaia di arresti fra gli operai, quasi tutti gli stabilimenti del capoluogo piemontese risultano bloccati dagli scioperi che si allargano ormai anche in provincia.

Gli operai sono esasperati da una situazione economica e sociale sempre più insopportabile, sia per i disagi e le sofferenze provocate dal prolungarsi della guerra e della dittatura fascista e sia per il super-sfruttamento a cui sono sottoposti nelle fabbriche in cambio di salari da fame. L'agitazione si pone come suo obiettivo il pagamento a tutti i lavoratori di una indennità di sfollamento pari a 192 ore; il caroviveri; l'aumento delle razioni alimentari; la liberazione dei compagni arrestati e il diritto di avere una “vera rappresentanza di fabbrica”. Sono queste le richieste avanzate in un manifesto del 14 marzo, firmato da “Il Comitato operaio”.

Gli operai comunisti sono molto attivi, e in questa fase il Pci si sforza di tessere una propria rete organizzativa clandestina, e di reclutare quanti più elementi possibile e quindi politicamente controllabili nella prospettiva della caduta del fascismo e del passaggio a un regime democratico. Opera non facile per i dirigenti nazional-comunisti, soprattutto a causa di quello che viene ripetutamente denunciato come un eccessivo “spirito di settarismo” presente sia nei più vecchi militanti che fra le più giovani leve.

Per il momento, i maggiori responsabili del Pci preferiscono tatticamente non imprimere alcuna motivazione politica agli scioperi, e si preoccupano solo di una riuscita delle agitazioni attorno a parole d'ordine esclusivamente economiche. Regola che varrà anche per gli scioperi a Milano dal 23 al 28 marzo, quando scendono in lotta i lavoratori della Breda, Magnaghi, Falk, Pirelli-Bicocca, Ercole Marelli, Borletti, Olap, Face-Bovisa (al canto di Bandiera Rossa gli operai reagiscono ai carabinieri), Caproni, ecc.

Tutto l'apparato nazional-comunista si sta impegnando nell'incanalare la protesta operaia verso un movimento unitario interclassista; un Fronte nazionale nel quale possano trovare posto, accanto al Psi e al Partito d'Azione, anche le correnti monarchiche antifasciste e gli stessi oppositori interni al regime.

Una linea politica che doveva fra l'altro rassicurare gli alleati anglo-americani di Stalin, messi in allarme dagli “scioperi e tumulti dell'Italia settentrionale”, e diffidenti, assieme alla borghesia italiana, sulle reali intenzioni del Pci e della politica russa verso l'Italia. E da Radio Mosca, Mario Correnti (Togliatti) nei suoi “Discorsi agli italiani” tace in pratica sugli scioperi di marzo e si limita a propagandare la nascita di un movimento popolare antifascista per la pace, capace di trascinare con sé, in un “vasto Fronte nazionale”, la classe dirigente, l'esercito, la grande borghesia e i circoli monarchici.

Dopo i tracolli subiti nel corso delle varie svolte politiche e tattiche imposte da Mosca e dalla segreteria di Togliatti, l'organizzazione nazional-comunista stava riorganizzando in Italia il proprio gruppo dirigente secondo una precisa direttiva: evitare violenti contrasti sociali e tendenze rivoluzionarie nella classe operaia; condurre una politica moderata e di conciliazione nazionale, animata dalla collaborazione stretta con le forze militari anglo-americane, e impegnata nella guerra ai tedeschi come un alleggerimento verso il fronte russo.

Dopo aver espulso dalle proprie fila ogni possibile opposizione di sinistra con una spietata caccia ai “banditi” trotzkisti-bordighisti, il Pci ha iniziato da tempo una sua opera di penetrazione e di reclutamento di nuovi quadri ideologici e politici nell'ambiente universitario dei Littoriali fascisti, specie negli anni 1937-38.

Approfittando delle dissidenze al fascismo e degli orientamenti liberal-democratici che qua e là si sviluppavano nella atmosfera goliardica di quelle “gare culturali” imposte dal regime, vengono stabiliti dei contatti clandestini con i giovani Amendola, Pintor, Trombadori, De Grada, Guttuso, L. Lombardo Radice, Alicata, Ingrao e altri, che affluiranno tutti nel nuovo centro dirigente picista.

Ma oltre alle nuove e future rappresentanze dello stalinismo nella sua versione italiana, e alle quali la patriottica cultura borghese ha dedicato in seguito le riconoscenti onoranze celebrative, anche la Sinistra Comunista si stava muovendo dalle carceri fasciste, dai luoghi di confino e dalla più assoluta clandestinità. I primi gruppi internazionalisti, già in formazione agli inizi del 1942, stabilivano i loro difficili contatti, stretti nella morsa della polizia fascista e delle provocazioni e denunce del partito di Togliatti. Sarà così possibile, fin dalle agitazioni del marzo 1943, assicurare una presenza, pur se debole, degli internazionalisti a Torino e provincia (un centinaio di compagni) e a Milano, che fin da allora si poteva ritenere il centro del Partito comunista internazionalista in formazione. Testimonianze più “ufficiali” segnaleranno in seguito la attiva partecipazione dei militanti della Sinistra Italiana nelle lotte operaie del triangolo industriale al Nord Italia:

Gli internazionalisti sono relativamente forti ad Asti, e si mostrano attivi negli scioperi del marzo 1943.

G. Vaccarino, Aspetti della Resistenza in Italia

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Nel Casalese scioperano le maestranze del cementificio di Morano sul Po e di Ozzano Monferrato dell'Unione Cementi Marchino. Particolarmente vivaci nella zona piccoli gruppi di comunisti internazionalisti, capeggiati da Mario Acquaviva.

G. Pansa, Guerra partigiana tra Genova e il Po

Impiegato nella ditta Tazzetti di Casale, dove gli internazionalisti saranno in maggioranza nella Commissione Interna, il nostro stimato dirigente sarà trucidato dagli sgherri di Togliatti nel luglio del 1945.

Va ricordato che già nel gennaio del 1943 gli operai della Waj Assauto di Asti avevano improvvisato per tre ore una manifestazione di protesta davanti ai sindacati fascisti, e il 10 marzo avevano bloccato la fabbrica. Il 9 marzo erano entrati in sciopero i lavoratori della Ferriera Ercoli; seguivano gli stabilimenti meccanici Cendola e Tribulzio, la Miana, le Vetrerie e le lavoratrici della Saffa. Furono denunciati al Tribunale militare 9 operai e 12 operaie.

I segnali di una ripresa della lotta di classe si erano fatti dunque evidenti agli inizi del 1943, dopo due decenni di feroce reazione borghese e di incontrastato dominio del fascismo. Cominciava la ricostruzione del programma rivoluzionario per il comunismo e del partito internazionalista del proletariato.

I 45 giorni del governo Badoglio

Il crollo delle sovrastrutture fasciste dello Stato borghese, il 25 luglio del 1943, fu la conseguenza diretta delle disfatte subite in campo militare e di una situazione sociale che vedeva pericolosamente aumentare la pressione delle proteste di classe.

La posizione degli internazionalisti è, di fronte agli avvenimenti, chiara e precisa, come appare da un volantino dell'agosto 1943 lanciato a Torino:

La borghesia, la monarchia, la Chiesa - creatori e sostenitori del fascismo che buttano oggi Mussolini in pasto al popolo per evitare di essere travolti con lui, e che assumo vesti democratiche e popolaresche per poter continuare lo sfruttamento e l'oppressione delle classi lavoratrici - non hanno nessun diritto di dire una parola nella crisi attuale. Questo diritto spetta esclusivamente alla classe operaia, ai contadini e ai soldati, eterne vittime della piovra imperialista.

E il primo numero di Prometeo clandestino (novembre 1943) così inquadra la situazione:

La crisi scoppiata fulminea sulla scena politica italiana dopo vent'anni di regime fascista, ha posto in luce la gravità del malessere sociale che investiva ormai in pieno non solo la responsabilità di questo o quell'uomo politico, questo o quell'organismo, ma il sistema intero nella sua classe dirigente, nelle sue istituzioni e nella sua struttura economica e politica.

Dopo i grandi scioperi spontanei del marzo 1943, nella seconda metà di agosto si assiste a un'altra vasta ondata di proteste nelle fabbriche del Nord. Già nelle ultime giornate di luglio e nella prima settimana di agosto si sono contati ufficialmente quasi un centinaio di morti nelle violente repressioni poliziesche contro gli operai in sciopero e i manifestanti; quasi 300 i feriti e un migliaio gli arresti. Accettando l'invito del governo Badoglio, nazional-comunisti, socialisti e cattolici riorganizzano dall'alto la Confederazione del Lavoro fascista, epurandone i dirigenti ma sfruttando il potente meccanismo di controllo delle relazioni industriali instaurato dal fascismo stesso.

Quando la tendenza delle lotte operaie va verso il superamento di obiettivi puramente economici e aziendali, e mentre l'apparato statale interviene con un controllo burocratico delle prime Commissioni Interne spontaneamente ricreatesi, gli internazionalisti fanno propaganda per la cessazione immediata della guerra e lanciano la parola d'ordine della creazione e generalizzazione dei Consigli di Fabbrica. Dal canto loro, i socialisti con Buozzi e gli stalinisti con Roveda, entrambi nominati da Badoglio a dirigere gli ex-sindacati fascisti, “collaborano democraticamente” dopo che il governo - in perfetta continuità col precedente regime e nonostante lo scioglimento del partito fascista - ha dato ampia dimostrazione delle proprie capacità di repressione “in casi di aperta ribellione ai poteri costituiti”.

In seguito il Pci farà proprie le spontanee richieste operaie per la ricostruzione delle Commissioni Interne (in alcune fabbriche si chiedevano Consigli Operai e Soviet italiani) con la preoccupazione di mantenerle nei limiti di un ruolo esclusivamente sindacale, oltre che legalitario.

Sul n. 3 (gennaio 1944) di Prometeo clandestino, così il costituito Partito Comunista Internazionalista commentava gli avvenimenti:

Dopo vent'anni di terrore fascista, Badoglio, nel tentativo di salvare monarchia e capitalismo rovesciando con un colpo di bacchetta il putrido e traboccante vaso del fascismo, non ha potuto frenare l'ondata spontanea che spingeva il proletariato verso una ripresa di vita. Così le Commissioni Interne - fatto compiuto all'indomani del rovesciamento di Mussolini, riconosciute da Badoglio ma tosto burocratizzate da Buozzi e Roveda allo scopo di incanalare nel letto della legalità borghese l'ondata rivoluzionaria - hanno espresso sia pure limitatamente e sporadicamente, la volontà di procedere oltre.

La pressione delle masse popolari per la fine della guerra, e le tendenze spontanee in senso “estremista” che si manifestavano nelle fabbriche durante i 45 giorni del governo Badoglio, si scontrano con la linea politica moderata del Pci. Il suo centro dirigente, dopo aver circoscritto e disciplinato formalmente la ricostituzione delle Commissioni Interne imposte dai lavoratori, fa proprio l'armistizio dell'8 settembre per dare il via ad una mobilitazione nazionale contro l'esercito dell'invasore tedesco. Il costituito Comitato di Liberazione, il 9 settembre chiama...

gli italiani alla lotta e alla resistenza per conquistare all'Italia il posto che le compete nel consesso delle libere nazioni.

Per il Pci e per gli alleati antifascisti - preoccupati di “salvare l'onore italiano” - la guerra continua:

Oggi, per i figli d'Italia, c'è un solo fronte: quello contro i tedeschi e la quinta colonna fascista. Alle armi! ...

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La borghesia italiana, avventuratasi imprudentemente in un conflitto intercontinentale di gigantesche proporzioni, vistasi militarmente perduta, timorosa di un vigoroso risveglio della lotta di classe, fu costretta ad abbandonare la camicia nera ormai lacera ed inservibile per un estremo tentativo di salvezza. Con l'armistizio dell'8 settembre 1943, grazie ad un rapido e “machiavellico” voltafaccia, il nostro capitalismo operava l'ultimo tentativo di salvaguardare (almeno in parte) i suoi interessi sul piano della contesa tra stati borghesi, schierandosi in cobelligeranza col blocco dei vincitori. Né questo basta. I circoli capitalisti e finanziari italiani compresero perfettamente che soltanto spalleggiati e protetti dagli imperialismi trionfanti avrebbero potuto validamente resistere agli eventuali moti rivoluzionari, sia con la forza, sia polarizzando il malcontento della classe verso l'occupante tedesco e le residue organizzazioni fasciste e promuovendo una sedicente lotta di liberazione, durante la quale fu per essi assai facile rifarsi una verginità “democratica” dopo il più che ventennale connubio con i totalitarismi. Il proletariato, cui difettava una coscienza politicamente avvertita, non comprese la manovra borghese e l'intrigo che il capitalismo ordiva ai suoi danni gettandolo nella lotta per la “liberazione”. Il partigianismo proletario deve essere considerato come il tentativo istintivo e confuso dei lavoratori di tornare sul terreno di una conseguente lotta di classe attraverso una manifestazione di forze rivoluzionarie tendenti a schiacciare il nemico borghese.
Tali conati generosi, dettati anche dalle precarie condizioni di vita della classe, non erano il risultato di una approfondita e realistica analisi della situazione storica nazionale e internazionale, analisi che condussero a termine solo sparuti gruppi di marxisti rivoluzionari distaccati generalmente dalle grandi masse causa la profonda crisi politica della III Internazionale e la stagnante situazione reazionaria che solo allora andava lentissimamente evolvendosi. Il partigianismo fu così sfruttato e potenziato dalla classe dominante offrendo ai lavoratori un motivo plausibile per dimenticare nell'ubriacatura della “Unione Sovietica” la via maestra della conquista del potere, per fraternizzare col nemico di classe, per spianare la strada con la ricostruzione di un nuovo stato borghese e per la vittoria di un imperialismo sull'altro. Nonostante le sue manovre e gli sforzi propagandistici, il capitalismo non avrebbe avuto la possibilità di salvarsi e consolidarsi se gli fosse mancato l'appoggio entusiasta e incondizionato dei partiti dell'opportunismo e del tradimento.

Da Il proletariato e la Seconda Guerra Mondiale in Battaglia Comunista novembre 1947

Le prime commissioni interne

Pochi mesi dopo, e ancora sulla questione delle Commissioni Interne, il Comitato Centrale del costituito Partito Comunista Internazionalista così si esprimeva:

Il C.C., esaminata la situazione di carattere sindacale e in particolare il problema relativo alla nomina delle Commissioni Interne di fabbrica, riafferma che per il partito, che esprime gli interessi di classe del proletariato, non esiste un problema sindacale a sé stante avulso dagli interessi e dall'attività politica della classe operaia; riconosce nelle Commissioni Interne un organo di classe che esprime gli interessi e la volontà delle maestranze alla sola condizione che sia loro concesso di vivere e di operare in senso strettamente classista; ritiene che nella situazione attuale, la libertà di elezione di questi organismi è resa illusoria dal mancato riconoscimento della libertà di discussione e propaganda da parte dei diversi partiti politici e che, d'altra parte, le Commissioni Interne, una volta elette, non sono messe in condizione di poter svolgere attività classista, perché inserite in sindacati autoritari che vivono al di fuori e contro la volontà operaia; delibera di impartire ai compagni operai istruzioni perché, nel periodo preparatorio della votazione, svolga intensa attività fra le maestranze degli stabilimenti illustrando il punto di vista su esposto: la demagogia del fascismo repubblicano, pressato dalla situazione di grave disagio, permette una parvenza di libera votazione di organi di fabbrica che vengono svuotati di ogni contenuto classista ed inseriti nei sindacati coatti.
dal n. 3 di Prometeo, gennaio 1944

All'ordine del giorno del C.C., che prendeva atto del tentativo fascista - dopo il suo ritorno al potere - di appropriarsi a sua volta dei riproposti organismi di fabbrica, seguiva un commento sugli ultimi fatti.

Dopo vent'anni di terrore fascista, Badoglio, nel tentativo di salvare monarchia e capitalismo rovesciando con un colpo di bacchetta il putrido e traboccante vaso del fascismo, non ha potuto frenare l'ondata spontanea che spingeva il proletariato verso una ripresa di vita. Così le Commissioni Interne - fatto compiuto all'indomani del rovesciamento di Mussolini, riconosciute da Badoglio ma tosto burocratizzate da Buozzi e Roveda allo scopo di incanalare nel letto della legalità borghese l'ondata rivoluzionaria, hanno espresso sia pur limitatamente e sporadicamente, la volontà di procedere oltre.
Ora il fascismo repubblicano, giocando la sua ultima carta demagogica, non ha la forza di arginare la volontà proletaria e mantiene le Commissioni Interne, promettendo libertà di votazione agli operai e di manovra agli eletti come rappresentanti autentici degli interessi dell'operaio di fronte al padrone sfruttatore.
Dal punto di vista del nostro partito è chiaro che, dovunque esistano organi sorti dalla libera volontà degli operai, sotto qualunque regime essi funzionino, noi non possiamo essere assenti. Ma la presenza attiva di questi organismi è condizionata, anzitutto, alla possibilità che la votazione si verifichi in effettive condizioni di libertà. Ora, la “libera elezione” delle Commissioni e la “libera espressione della volontà dell'operaio” presuppongono - a nostro parere - l'intervento attivo del Partito giacché la classe operaia esiste e acquista coscienza di sé solo in quanto questo partito è manifestamente attivo; soltanto allora l'operaio è presente in questi organi non solo fisicamente, ma anche politicamente.
Se noi, dunque, non potevamo disapprovare a priori l'ingresso nelle attuali Commissioni Interne per le ragioni di semplice rancore antifascista che ispirano ai sei partiti del Fronte Nazionale il loro boicottaggio, le condizioni in cui queste Commissioni sorgevano e dovevano svolgere la loro attività escludevano che potessero funzionare come liberi organi di classe. Se nel periodo badogliano combattevamo la burocratizzazione delle Commissioni Interne e perciò contrapponevamo loro degli organismi tipicamente di classe, “i Consigli di Fabbrica”, oggi combattiamo il principio stesso su cui si sono volute impiantare le Commissioni Interne.
[...] L'attività dei compagni di base e dei Gruppi di fabbrica deve dunque essere oggi impostata sulla svalutazione delle Commissioni Interne come organi burocratici del fascismo e sulla rivendicazione di organi creati in un atmosfera di libera espressione, che metta in grado la classe operaia, nei limiti in cui ciò è possibile, di potersi scegliere i veri rappresentanti dei suoi interessi contingenti e storici.
Spetterà ai nostri organismi di fabbrica di farsi promotori di quella attività di difesa degli interessi operai, che per noi non può mai essere separata dalla lotta alla guerra, fascista o democratica che sia.