L'approccio alla questione partito

Ancora oggi la questione si pone; non nei termini del passato tra marxisti ed anarchici, tra consiliaristi, sindacalisti, e bolscevichi; in maniera più sottile, quasi sfumata, ma non per questo meno pericolosa. All'interno della stessa "sinistra comunista" la questione partito è ancora all'ordine del giorno.

Nel buio tunnel della controrivoluzione, inteso non soltanto come trionfo dello stalinismo in Russia, ma soprattutto come stravolgimento delle strutture portanti della dottrina rivoluzionaria, anche il ruolo e la funzione del partito di classe hanno subito il peso della revisione.

In discussione non è il partito in quanto tale, ma il suo rapporto con la classe, l'unicità della sua funzione politica nella lotta di classe, la sempre aperta questione della coscienza e la sua permanenza nelle fasi cosiddette controrivoluzionarie, ed infine la tattica come concreta espressione del suo essere politico.

La categoria partito ha dovuto subire, al pari di molte altre, il peso della critica da destra e da sinistra, in senso meccanicistico o idealistico, non tanto come singolo oggetto di studio e di ripensamento, quanto come appendice di un processo controrivoluzionario che ha investito le fondamenta del neo nato stato proletario dell'ottobre russo.

Non poche forze politiche, nello sforzo di comprendere a posteriori le cause principali che hanno favorito, se non determinato, la sconfitta della rivoluzione russa, si sono aggrappate all'operato del partito bolscevico durante, e soprattutto dopo, la presa e la gestione del potere.

C'è chi ha visto nella scarsa centralità del partito, troppo condizionata da fattori "estranei" quali i soviet, in particolare se non operai, una delle fondamentali concause che ha favorito l'ideologia revisionista prima e quella controrivoluzionaria poi, e chi, affrontando la questione dal polo opposto, ha creduto di vedere nella struttura stessa di partito, nel suo centralismo decisionalmente totalitario e nel suo presunto sostituzionismo, le inevitabili premesse al processo di degenerazione.

Giuste le preoccupazioni, non altrettanto le conclusioni. Che negli anni venti e trenta (per i ritardatari non esistono limiti di tempo) le avanguardie dovessero dare una analitica soluzione al cammino della Russia, rientrava assolutamente nei compiti prioritari, sia per l'aspetto socioeconomico interno, sia per il ruolo che la repubblica dei soviet eventualmente poteva ancora giocare, da un punto di vista rivoluzionario, su scala internazionale.

La prima, grandiosa esperienza rivoluzionaria, che aveva consentito al proletariato russo di creare le condizioni politiche del passaggio al socialismo attraverso l'irrinunciabile forma di governo della sua dittatura, come primo momento rivoluzionario di un auspicato processo internazionale, andava mostrando i segni di un progressivo logoramento.

Dare del fenomeno, allora come oggi, una corretta interpretazione, era ed è la condizione perché, da una sconfitta, anche se grave, si possano creare le condizioni di una futura vittoria del proletariato mondiale.

Invece, molto spesso, si è incappati nell'errore di confondere i modi e i tempi del processo degenerativo con le cause che l'hanno posto in essere.

Il primo, grande scoglio su cui si arenò l'esperienza rivoluzionaria bolscevica fu l'isolamento internazionale aggravato da una situazione economica interna particolarmente arretrata. L'impossibilità di costruire le dorsali della nuova società nel chiuso dell'esperienza nazionale, la pressante preoccupazione di risolvere in qualche modo i più elementari problemi di sussistenza fisica, e l'opportunistica aspettativa di resistere all'accerchiamento capitalistico internazionale anche a costo di rinunciare sempre di più alle istanze della stessa rivoluzione, funsero da fecondo terreno all'ideologia e alla prassi controrivoluzionarie.

Più l'isolamento e l'accerchiamento serravano la loro morsa attorno all'esperienza bolscevica, e più il tarlo della controrivoluzione trovava alimento nelle strutture stesse del potere rivoluzionario, negli organismi di gestione dello stato, nel rapporto tra il partito e la classe e nel partito stesso.

Era fatale che nella contraddizione tra una sovrastruttura rivoluzionaria e proiettata verso soluzioni socialiste ed una struttura economica ancora basata sulle categorie economiche capitalistiche, in presenza di una cornice internazionale che andava consolidandosi in modo assolutamente negativo, la seconda condizione avrebbe avuto nettamente la meglio nei confronti della prima bloccandola sulla soglia del primo gradino e non permettendole di passare al secondo, quello della realizzazione socialista. Ed era oltretutto fatale che, perdurando l'isolamento, il consolidamento della base produttiva, sempre compreso nelle categorie economiche capitalistiche, anche se a livello di gestione statale, avrebbe finito per condizionare, erodere, ed infine travolgere, le stesse sovrastrutture politiche uscite vittoriose dalla rivoluzione.

Anche il partito fu travolto. Anzi, l'inizio della sconfitta politica partì proprio da li, come inevitabile riflesso di una situazione interna ed esterna sfavorevole ed inamministrabile all'infinito. Chi ritiene che le cose sarebbero andate altrimenti solo a condizione che vi operasse un altro tipo di partito, ancora più centralizzato e meno condizionato da fattori non "puramente classisti" o, al contrario, più aperto alle istanze delle varie componenti sociali, a seconda delle analisi e delle propensioni, altro non avrebbe fatto che affrontare il toro per la coda invece che per le corna. Chi ritiene che sia nella concezione leninista del partito la, o una delle chiavi di interpretazione, della sconfitta della rivoluzione russa, ha imboccato la strada della confusione politica e della revisione di uno dei cardini fondamentali della lotta di classe.

Non è nella estremizzazione idealistica di un partito puro ed incontaminabile, né in quella volgarmente pragmatica di un partito aperto ad ogni sorta di compromesso tattico che consiste la garanzia del successo di una rivoluzione. Ma queste strade sono state disastrosamente percorse anche nel campo della "sinistra comunista".

Ancora una volta la cattiva digestione degli accadimenti russi, post fase rivoluzionaria, ha comportato per molti la confusione tra cause e modi di essere del processo controrivoluzionario, innescando la pericolosa presunzione che fosse nella ridefinizione di che cosa è il partito, del suo ruolo e del suo rapporto con la classe nella gestione del potere, la soluzione, se non di tutti i mali che hanno afflitto il movimento operaio internazionale, almeno di quelli più importanti.

Che cosa è il partito

Nelle tesi sul compito del Partito Comunista nella rivoluzione proletaria approvate dal secondo Congresso della Internazionale Comunista, tesi veramente e profondamente ispirate alla dottrina marxista, si assume come punto di partenza la definizione dei rapporti tra Partito e classe, e si stabilisce che il Partito di classe non può comprendere nelle proprie file che una parte della classe medesima, mai tutta, forse mai neppure la maggioranza.

Un partito vive quando vivono una dottrina ed un metodo di azione. Un partito è una scuola di pensiero politico e quindi una organizzazione di lotta. Il primo è un fatto di coscienza, il secondo è un fatto di volontà, più precisamente di tendenza ad una finalità.

Riportiamo questi due brevi, sintetici, ma estremamente chiari passi di Bordiga sulla questione partito, anche se non ne condividiamo tutti le implicazioni, soprattutto quelle espresse successivamente, quanto perché irrinunciabili punti di partenza.

La domanda: che cosa è il partito, prima ancora di configurarsi come questione politico-programmatica, si riferisce, nel suo contenuto, al rapporto con la classe. In altri termini il partito, proprio perché organismo politico della lotta di classe, supremo custode degli interessi immediati, ma soprattutto storici della classe operaia, ne deve contenere la stragrande maggioranza o solo una parte? È possibile che la parte possa rappresentare gli interessi del tutto, o è vera la formulazione contraria?

Uscendo dal labirinto dei bizantinismi politici, storicamente la questione si è posta nella distinzione tra partito di quadri e partito di massa.

Sotto l'impulso politico dell'esperienza bolscevica e della Terza Internazionale, tra la fine degli anni Dieci e l'inizio degli anni Venti, sono sorti quasi tutti i partiti comunisti, come avanguardie rivoluzionarie della classe operaia, ovvero come ristretta rappresentanza del mondo proletario, come partiti di quadri. A parte l'aspetto meramente genetico, per cui la stragrande maggioranza dei nuovi partiti, provenienti dal seno delle vecchie organizzazioni socialdemocratiche, legate alla Seconda Internazionale, che ambivano presentarsi come organismi di massa, si sono posti, per una sorta di contrapposizione politica, come "minoranze" rivoluzionarie nei confronti della "maggioranza" riformista, la tesi di un organismo di quadri rispondeva meglio alla dialettica dei fatti che alle propensioni idealistiche delle ambizioni, e soprattutto, corrispondeva all'unico episodio genuinamente rivoluzionario: la rivoluzione bolscevica.

Dottrina e metodo di azione, come presupposti di fattori di coscienza e volontà, non possono essere che bagaglio di una minoranza, di una parte della classe. È nella prassi idealistica concepire la possibilità dell'acquisizione di una coscienza totale, come conquista graduale dello "spirito" e quindi della totalità della classe.

La storia ha sufficientemente mostrato come coscienza, dottrina e metodo derivino dalla esperienza della lotta di classe, ma anche come solo in certi momenti ed a certe condizioni la classe possa aderire ad un programma politico.

Il predominio economico e politico della borghesia è sempre tale da inibire la possibilità della crescita della coscienza all'interno della totalità della classe. Troppe sono le determinazioni che scompongono i fattori di coscienza. La frase di Lenin secondo cui l'ideologia dominante è l'ideologia della classe dominante non è una astrazione verbale, una definizione adatta alle citazioni, ma l'efficacissima sintesi di uno stato di cose reali, ieri come oggi. Per cui la coscienza ed il programma, pur essendo un bagaglio storico di tutta la classe, in quanto somma e sintesi di aspetti episodici e parziali, sono un patrimonio politico operante solo per una parte di essa. Proprio per questa ragione il partito è la parte più avanzata e cosciente della classe che ne unifica le esperienze, ne canalizza gli sforzi, e che contemporaneamente, ne supera i limiti.

La concezione idealistica che pretende di identificare il divenire politico della classe come autonomo processo di acquisizione della coscienza, non può concludere che attribuendo al partito compiti marginali e secondari che di volta in volta sono l'accelerazione della lotta di classe, l'organizzazione delle lotte economiche, o una sorta di "quartier generale" dell'esercito proletario, negando il suo ruolo primario, quello di insostituibile strumento politico della lotta di classe, in quanto sintesi di dottrina, metodo, coscienza e determinazione di lotta.

È pur vero che questi fattori si possono individuare nella classe, ma in modo parziale e discontinuo, emergenti nelle fasi ascensive delle lotte, praticamente inesistenti o distorti nei periodi di completo assoggettamento o di sconfitta. Solo nel partito tutti questi elementi possono esprimersi congiuntamente ed avere continuità nel tempo. Solo all'interno dell'avanguardia politica si riuniscono in sintesi e vengono tatticamente e strategicamente ordinate tutte le istanze che provengono tumultuosamente dalla lotta di classe, molto spesso sopra e contro la spontaneità economicistica, il settorialismo ed il corporativismo.

Un appiglio e a cui l'idealismo vecchio e nuovo si aggrappa pur di non recedere dalla sua impostazione sulla questione della coscienza e dell'autoemancipazione del proletariato, è fornita da questo semplice sillogismo: come è possibile la costruzione di un nuovo ordine economico e sociale, la realizzazione di un progetto politico basato sulla scomparsa delle classi, se il soggetto di questo mutamento rivoluzionario, il proletariato, non è cosciente delle sue finalità? O la rivoluzione proletaria, come la costruzione del comunismo sono il frutto di un accidente storico, tanto improbabile quanto casuale, oppure la coscienza dell'atto politico deve essere patrimonio della classe, di tutta la classe e non di qualcosa che sta all'esterno.

Innanzitutto va rilevato come l'impostazione idealistica si ostini a considerare la classe ed il partito come due categorie diverse, addirittura estranee. La prima come oggetto il secondo come fattore politico complementare ma estraneo alla classe, in quanto apportatore "dall'esterno" di un qualcosa che non appartiene interamente alla classe, la coscienza, e per questo diverso da essa. Per cui, se la rivoluzione prima, ed il socialismo poi, sono fattori di coscienza e volontà, o sono patrimonio della classe o non sono. Nel momento in cui diventano attributi del partito, si configurerebbe agli occhi di questa impostazione una sorta di processo in cui il fattore coscienza non esisterebbe o sarebbe al di fuori del soggetto rivoluzionario.

Ma il partito, nella concezione dialettica, è una parte della classe, non una sua appendice più o meno importante o, addirittura, un corpo estraneo. Sono gli stessi elementi della classe, quelli più coscienti, più politicamente attrezzati e determinati che vanno a comporre i quadri del partito, al pari di transfughi dell'altra classe, a condizione che facciano proprio il programma rivoluzionario del proletariato. È dal seno stesso della classe che si schiuma la sua avanguardia, ecco perché le infinite modalità del rapporto partito classe, come la stessa questione della coscienza, o viene vista come intimo rapporto dialettico tra due modi di essere e di esprimersi della stessa classe, oppure si bizantineggia su di un sopra e un sotto, su di un interno ed un esterno, favoleggiando hegeliani processi di maturazione dell'io classe. Ecco perché solo attraverso la sua avanguardia, ovvero il partito, la classe può e riesce ad esprimersi in maniera cosciente ed unitaria.

La classe nel suo mutevole esprimersi, dovuto alla sudditanza economica e politica nei confronti della borghesia, attacca e si ritrae, conquista e viene sconfitta, pone in essere innumerevoli istanze, sempre parziali e limitate e molto spesso contraddittorie. In alcune fasi storiche della propria esistenza irrompe sulla scena sociale con forza e violenza sospinta dalle condizioni obiettive e non certamente da un preciso programma.

La concezione dialettica non si è mai illusa che la coscienza maturasse automaticamente all'interno della classe per aspettarsi un moto rivoluzionario. Se il partito bolscevico e Lenin avessero atteso il compiersi di questo processo, non solo sarebbero andati incontro ad un mare di difficoltà, ma la stessa rivoluzione d'ottobre non avrebbe visto la luce né nel 1917 né nei decenni successivi.

Il problema è sempre stato un altro: legare la spontaneità dei settori o della stragrande maggioranza della classe con l'aspetto programmatico della sua minoranza politica. In altri termini è solo con la presenza del partito che le istanze settoriali possono diventare generali, che le rivendicazioni economiche possono uscire da questo primitivo quadro per assumere aspetti politici, che il contenuto contingente di una lotta, di un settore della classe, può inquadrarsi in una visione strategica.

Il partito di quadri, la sua limitatezza quantitativa, non dipendono da una scelta elitaria, bensì sono proposti dal reale svolgersi della lotta di classe, che nel suo determinarsi sino all'evento rivoluzionario, deve subire i condizionamenti del dominio economico e politico della borghesia, che ne spezza e isola le lotte, che contrappone gli interessi di categoria a categoria, e soprattutto che ne offusca la coscienza sino al punto da rendere sempre più confuso e lontano l'obiettivo storico.

È utopistico, oltre che politicamente sciocco, pensare che il partito di classe possa, in una situazione particolarmente favorevole, quale quella rivoluzionaria, unificare nelle sue strutture tutta la classe o la sua parte numericamente più consistente. Ciò non accadrà mai se non nelle masturbazioni cervellotiche delle categorie mentali dell'idealismo, ma dovrà accadere che il partito, nelle fasi dello scontro frontale, abbia dietro, e non dentro, larghissime masse perché si possa sperare in una soluzione rivoluzionaria.

La concezione del partito di massa, in alternativa o in opposizione al partito di quadri, inizia a farsi strada nelle prospettive politiche della Terza Internazionale, e di conseguenza nella tattica dei partiti comunisti, in coincidenza dell'inizio del processo di revisione politica che ha avuto luogo, nella sempre più isolata Russia, a partire dal 1921. È possibile riscontrare in questa fase come l'elaborazione teorica del partito di massa altro non sia stata che la logica quadratura del cerchio sulla base dei fronti unici, come primo momento di riabilitazione della socialdemocrazia e del governo operaio e contadino in funzione di un progressivo allonanamento, e non soltanto terminologico, dalla dittatura del proletariato.

Se l'obiettivo "tattico" non era più la rivoluzione proletaria per l'abbattimento dei governi borghesi, ma una sorta di "alleanza tattica" con la socialdemocrazia per un governo di ibrida coalizione con lo scopo, non ancora dichiarato, di organizzare attorno alla Russia governi che non fossero ostili alle "realizzazioni" interne, ne conseguiva che a poco o nulla sarebbero serviti dei partiti, politicamente agguerriti, ben attestati su posizioni rivoluzionarie, ma incapaci di rappresentare una forza condizionante nei confronti delle istituzioni borghesi. Molto meglio e con risultati più celeri, sarebbero serviti al nuovo scopo partiti di massa, più duttili nella fase tattica, più articolati ed attenti alle istanze interclassiste, ovvero partiti di massa che potessero far sentire la loro voce non soltanto nelle piazze ma anche negli istituti tradizionali del potere borghese. Ne discendeva che, tanto maggiore era il peso politico condizionante quanto più larghe erano le fasce sociali che all'interno dell'organizzazione partito trovano posto. Se la rivoluzione internazionale tardava, tanto valeva consolidare quanto di rivoluzionario esisteva in Russia. Poco contava per i futuri "becchini" della rivoluzione, che le stesse conquiste dell'ottobre si sarebbero salvaguardate e potenziate solo a condizione di favorire altri episodi rivoluzionari. O la Russia usciva dall'isolamento o si sarebbe accartocciata su se stessa senza possibilità di scampo.

Ma ormai la nuova strada era stata tracciata e non rimaneva che percorrerla sino in fondo, e su questa strada non c'è assolutamente posto per quegli stessi partiti di quadri che pochi anni prima erano nati nella prospettiva rivoluzionaria.

La trasformazione di partiti di quadri in partiti di massa non fu dovuta ad una diversa impostazione tattica suggerita dalle difficoltà del momento, pericolosissima di per sé, ma non irreversibile, quanto alle modificazioni dell'obiettivo strategico.

Una volta sancita, alla faccia dell'internazionalismo proletario, la possibilità della costruzione del socialismo in un solo paese, l'aspetto strategico a cui tendeva la Terza Internazionale si ridimensionava ad una sorta di cintura di salvataggio attorno alla Russia. Ovvero, nel momento in cui la prospettiva della rivoluzione internazionale scandeva sempre più a livelli di sostegno delle necessità di un "socialismo domestico", sempre meno si sentiva l'esigenza di avanguardie rivoluzionarie, e sempre più si invocava la necessità di partiti di massa.

Mutati, e radicalmente, gli obiettivi, bisognava adeguare anche i mezzi operativi. Non era possibile perseguire la creazione di governi di sinistra che fungessero da cuscinetto politico alle deboli strutture russe senza attrezzare la Terza Internazionale con gli strumenti idonei.

L'approccio idealistico alla questione partito

È proprio a partire dal problema della coscienza che si determinano le varie posizioni sul ruolo e sulla funzione del partito.

Secondo la più pura interpretazione idealistica, essendo la coscienza un fenomeno interno alla totalità della classe, come pura categoria spirituale, come fattore irreversibile di autocoscienza, superiore alle forme di condizionamento sociale, la necessità del partito cessa automaticamente di essere o ne viene enormemente limitata.

Se fosse nelle possibilità della totalità della classe concrescere con gli avvenimenti, superare di volta in volta, nel corso delle lotte, le divisioni interne, gli aspetti meramente rivendicativi, dare unicità, e prospettive politiche sempre più avanzate alle proprie istanze, ma soprattutto se fosse globalmente in grado di elaborare un programma rivoluzionario ed una tattica conseguente, il partito non solo non servirebbe, ma diventerebbe una struttura la cui ingombrante presenza, nel corso della lotta di classe, finirebbe per condizionare negativamente, o peggio, per inibire il progressivo evolversi della coscienza e delle sue possibili conquiste politiche.

Per cui gli unici organismi che possono assolvere a compiti organizzativi e politici sono quelli che spontaneamente sorgono nel corso delle lotte come cosciente atto realizzatore sia delle istanze tattiche immediate che di quelle strategiche. L'eventuale presenza di una organizzazione partitica, all'interno di queste istituzioni ne stravolgerebbe la natura di classe, ne condizionerebbe l'assetto politico, apportando, oltretutto, i germi della controrivoluzione.

Consiliaristi ed anarchici di ogni tendenza, che di questa impostazione hanno fatto una sorta di dogma, non solo strabuzzano gli occhi quando sentono parlare di partito, ma con il "senno" di poi, arrivano ad attribuirgli le responsabilità del fallimento della rivoluzione russa.

Pur senza arrivare a queste estreme conseguenze, e senza assumere in toto il metodo e le condizioni che di fatto hanno posto i movimenti anarchici e consiliaristi al di fuori e contro le posizioni marxiste rivoluzionarie, pur rimanendo nel campo del cosiddetto partitismo, molto spesso l'idealismo cacciato dalla porta si riaffaccia alla finestra. Un esempio è fornito da quei raggruppamenti che giurano e spergiurano sulla insostituibile necessità del partito di classe, ma nei fatti ne mediano il compito, relegandone l'apporto ad una funzione di fiancheggiamento più teorica ed astratta che operativamente efficace. Oppure come puro involucro di ideologie, facitore di tattiche da tavolino, geloso custode dei "sacri principi", e proprio per questo incapace di inserirsi nei meccanismi della lotta di classe che, a dispetto delle metafisiche aspettative dell'idealismo, si presentano sempre in modo complesso, contraddittorio, a volte insidioso, mai lineare, né tantomeno puro.

Quante volte la storia ha mostrato come la classe possa superare, nella sua spontaneità, l'attendismo messianico di posizioni politiche massimalistiche, più adatte all'osservazione dei fenomeni sociali che al loro condizionamento politico verso obiettivi avanzati.

Nel primo caso il partito si configura come elaboratore di slogans tanto generici quanto ininfluenti quali la generalizzazione delle lotte, la trasformazione delle lotte economiche in lotte politiche, oppure invocare la necessità della radicalizzazione senza intervenire nelle "pieghe" della lotta stessa, e soprattutto senza dotarsi di quegli strumenti di raccordo con la classe, al di fuori dei quali ogni parola d'ordine, ogni indicazione politica rimane lettera morta.

Una simile posizione eterea, che volutamente si pone ai margini del tumultuoso percorso della lotta di classe, deriva fatalmente dal presupposto idealistico che comunque, o la classe autonomamente sviluppa la propria coscienza rivoluzionaria scegliendo tattiche e stabilendo programmi strategici, e allora al partito non resta altro compito che favorirne lo sviluppo mantenendosi ad una distanza di sicurezza, oppure non esistono altre alternative, ovvero non c'è niente da fare.

In un quadro del genere il ruolo dell'avanguardia politica viene svilita ad acceleratore delle lotte più come assunto di definizione che come reale punto di riferimento, a quartier generale della classe più che a sintesi politica. Il risultato è l'incapacità di concrescere con le successive istanze delle lotte, di darsi gli strumenti idonei da un punto di vista operativo per stabilire un rapporto dialettico tra la spontaneità della lotta e le sue finalità politiche. In altri termini queste concezioni partitistiche obbligano le avanguardie a lavorare ai margini della lotta di classe, nelle sbavature periferiche, dove è più facile essere travolti che condizionarne politicamente il corso.

Nel secondo caso il partito si presenta come una struttura mummificata che si alimenta con la codificazione dei suoi meccanismi interni, che sopravvive, quando ci riesce, all'alternarsi delle fasi "esterne", attingendo più alle proprie risorse interne che alla linfa politicamente vitale proveniente dalla lotta di classe.

Se è vero che un partito rivoluzionario non può definirsi tale che a condizione di aver sistemato un enorme bagaglio di acquisizioni politiche, di aver affinato e reso operante un metodo di analisi, di essere riuscito a stabilire linee tattiche in conformità con la prospettiva strategica è anche vero che si è in presenza di una pura finzione organizzativa se poi tutto questo rimane allo stato potenziale senza esprimersi in "atti" o rimandando l'atto a situazioni obiettivamente più favorevoli.

Un primo effetto che ha colpito tutte quelle organizzazioni che si sono uniformate alla concezione del partito custode-attendista, come istintiva reazione ad un lungo periodo controrivoluzionario sulla scena internazionale, è rilevabile dal fatto che, più teorizzavano e praticavano il non intervento perché inutile, data la situazione, o addirittura controproducente, e più coltivavano la concezione del partito sulla base di ipertoni valutativi di tipo metafisico.

Più il partito veniva estraniato e si isolava dalla lotta di classe, più le sue caratteristiche peculiari subivano gli effetti deformanti della proiezione all'infinito delle stesse. Paradossalmente, così come nella prima ipotesi idealistica il partito risultava essere una appendice, un accessorio esterno all'evolversi della lotta di classe, così nella seconda il partito finiva per configurarsi come un "primo motore immobile" le cui connotazioni andavano alla assoluta infallibilità, al più meccanico ed ottuso centralismo, alla trascendentale ipotesi di negatore delle contraddizioni interne in quanto prefigurazione del socialismo.

Entrambi gli approcci idealistici, sia della sottovalutazione che della ipervalutazione della strutturaruolo-partito, pre, durante e post rivoluzione derivano, in senso restrittivo o estensivo, da un errato metodo di approccio, dalle lezioni non digerite sino in fondo della rivoluzione russa, e da politicamente pesantissimi decenni di controrivoluzione, per cui gli sforzi di sparute avanguardie, che in qualche modo hanno resistito lottando contro corrente, nel loro sforzo di rivisitazione o di salvaguardia delle strutture portanti della dottrina rivoluzionaria, hanno potuto subire, in parte o in tutto, il peso della revisione.

Il resto hanno fatto l'isolamento e le difficoltà di stabilire rapporti consistenti e duraturi con la classe.

Molto spesso l'isolamento volontario e/o imposto dalle condizioni obiettive, ha accentuato questi atteggiamenti estremizzando sia la passività che il suo opposto: l'attivismo.

Anche se può sembrare assurdo e contraddittorio, le facce dell'idealismo possono essere differenti, diverse le forme di espressione anche se il contenuto di metodo rimane sempre lo stesso. L'eccesso di attendismo che delega solo ed esclusivamente alla situazione esterna la soluzione di tutti i problemi, si equivale al volontarismo cieco e velleitario che pensa di ottenere tutto presto e subito. Quest'ultimo atteggiamento conserva in tutto e per tutto la matrice idealistica, solo che si colloca dall'altra estremità.

Se il partito è sintesi di dottrina e di azione, nella versione attivistica l'accento viene posto sul contenuto del secondo sostantivo. In questa versione l'idealismo esce dai confini normali di una attività confacente alle istanze imposte alla situazione, per sfociare in un volontaristico attivismo, "sempre e comunque", che astraendosi dalle condizioni obiettive, punta sul fattore partito come momento scatenante di rivendicazioni economico-politiche, come "inventore" di lotte, come soggettività cosciente in grado di scardinare i contorni del quadro sociale, indipendentemente, o addirittura contro,le più elementari leggi della determinazione.

Un simile atteggiamento, oltre a non rientrare nei canoni del buon senso, stravolge la corretta interpretazione dialettica tra situazione economica e lotta di classe, tra masse ed avanguardie, e finisce per spalancare le porte ad una pratica opportunistica nel momento in cui le aspettative vengono puntualmente vanificate dalla realtà dei fatti che, lo si voglia o no, è molto più forte di qualsiasi approccio idealistico alla lotta di classe. Più la resistenza esterna è grande, o quantomeno non suscettibile di essere forzata, per cui l'attivismo mulescamente non fa altro che sfasciarsi la testa contro il muro, più gli slanci organizzativi si vanificano in iniziative di rilancio delle lotte destinati al fallimento, e più queste avanguardie si inseriscono nella prospettiva di cedere sul piano politico pur di perseguire un obiettivo che in entrambi i casi è destinato al fallimento dalla forza della negatività dei fatti.

Quante volte, soprattutto nelle fasi di ristagno della lotta di classe si è assistito da parte di presunte avanguardie, a precipitose marce indietro politiche, sia nelle applicazioni della tattica che nella ridefinizione di "nuovi" obiettivi strategici, pur di dare soddisfazione al proprio attivismo con "concreti" legami con il mondo del lavoro.

Così come si pensava di trovare la soluzione rivoluzionaria dietro ogni angolo di strada, cosi nella fase di ripensamento si sono scoperte le "riforme rivoluzionarie", nuovi ambiti di intervento, perché no, borghesi, facendo del presunto e comunque incompreso "assenteismo" operaio la giustificazione ad ogni sorta di contorsioni ideologiche opportunistiche.

In questo senso l'amo è sempre pronto a ricevere l'abboccata. Se il tono delle lotte ed il livello di coscienza della classe sono bassi, quasi inesistenti, ecco che l'attivismo volontaristico, pur di non rinunciare ai propri schemi antidialettici, si appiattisce politicamente su quel livello di coscienza che al contrario dovrebbe contribuire ad elevare oppure, estrema ratio, ritorna sui suoi passi, parte completamente per la tangente, cercando di violentare a tutti i costi la realtà esterna.

L'opportunismo, nella versione economicistica e codina e l'ottuso velleitarismo nella versione terroristica, sono le conseguenze opposte, ma ancora una volta di medesima radice, che ultimamente si sono espresse sia nella versione italiana che europea, al di là di differenze di modo e tempi che vanno considerati marginali.

In conclusione l'approccio idealistico, in qualsivoglia delle tre versioni considerate, indifferentista, esterna e volontaristica, limita o stravolge il ruolo delle avanguardie politiche, o riducendole ad una appendice della lotta di classe, o a fattore culturale, mitico e comunque esterno alle esigenze del proletariato, o ad esasperato attivismo, con tutti i rischi dell'opportunismo riformistico di ritorno, nella versione volontaristica.

L'approccio meccanicistico alla questione partito.

Il meccanicismo si è sempre proposto, nelle analisi dei fatti e nella conseguente operatività dell'intervento, in modo da interpretare riduttivamente le leggi della dialettica svilendole a banali rapporti tra causa ed effetto. Tolto il filtro tra una situazione economica determinante ed il mondo della volontà, anche nel momento di esprimersi del primo, il secondo fattore subisce sì i tempi e i modi ma mediati da un infinità di altri corollari. Altrimenti il classico rapporto tra struttura e sovrastruttura appare per essere un rapporto meccanico tra causa ed effetto molto più vicino alle leggi degli esperimenti chimici di laboratorio che al determinismo dialettico.

Nell'approccio meccanicistico se storicamente si determina la situazione A non può verificarsi che la situazione B, oppure, capovolgendo i termini di questa interpretazione meccanica del divenire sociale, la conclusione B si verifica solo a condizione che A si sia già espressa.

Qui il richiamo sembra essere, da un punto di vista metodologico, più improntato alla scuola aristotelica che a quella marxista, ciò nonostante nella storia del movimento operaio più volte l'interpretazione meccanicistica si è sovrapposta o addirittura si è sostituita alla interpretazione dialettica, con la dichiarata presunzione di rappresentarne, in tutto e per tutto, lo spirito nel più corretto dei modi.

È marxisticamente evidente che eventi rivoluzionari, lotte di classe, guerre civili o comunque avvenimenti sociali che vedano il muoversi di milioni di uomini, non cadono giù dal cielo, ma sono il frutto di situazioni economiche tanto più determinanti quanto maggiore è la loro intensità e diffusione.

Uno dei pilastri attorno ai quali si è sempre espressa la dottrina marxista rivoluzionaria, che ha in un sol colpo sbarazzato il campo dalle ambizioni del socialismo utopistico come dalle velleitarie istanze dell'attivismo ottuso, dimostra come ogni grande movimento sociale sia contemporaneamente atto condizionante e condizionato da un "prius" economico i cui meccanismi contraddittori finiscono, prima o poi, per mettere in moto interessi inconciliabili che sono alla base di ogni assestamento o rivolgimento sovrastrutturale.

Forse non tutte le crisi economiche hanno innescato guerre civili o lotte di classe ma certamente non c'è mai stato sommovimento sociale che non fosse originato dall'ingigantirsi delle contraddizioni nel mondo della struttura. In più l'analisi dialettica ha sempre tenuto in grande conto, sempre all'interno delle leggi del determinismo economico, le condizioni di partenza, il livello politico iniziale della lotta di classe, le acquisite capacità della borghesia di amministrare e quindi diluire nel tempo il peso e le conseguenze delle proprie crisi e la reattività della soggettività operaia, se esprimentesi con o senza la sua avanguaria politica.

Esattamente il contrario di quanto avviene nella analisi dell'idealismo volontaristico e del meccanicismo. Nel primo caso la lotta di classe ed il ruolo della sua avanguardia non vengono legate alle condizioni obiettive ma velleitariamente gonfiate dalle aspettative attivistiche, come se fenomeni quali la disponibilità alla lotta, l'insorgere di istanze anticapitalistiche, coscienza dei mezzi e dei fini, siano più le conseguenze di un atto di autonoma volontà al di sopra o addirittura al di fuori dei "bruti fattori economici", che riflesso di questi ultimi.

Basta volere per ottenere o quantomeno per creare le condizioni favorevoli allo scontro di classe. Le rivendicazioni economiche, con le istanze politiche, esistono sempre e comunque in riferimento ai rapporti di produzione capitalistici per cui, indipendentemente dal livello di maturazione delle contraddizioni economiche è sempre possibile concepire il ruolo del partito essenzialmente come promotore di lotte, come esempio di coscienza operativa, come soggettività condizionante anche quando il sistema non si esprime in crisi devastanti, anche quando il livello della lotta di classe è molto basso. Anzi il volontarismo è costretto, quanto più le condizioni obiettive si presentano in modo sfavorevole, a radicalizzare le proprie istanze sino a violentare la realtà apparendo inevitabilmente come una avulsa propensione rivoluzionaria che non sa e non può tradurre il programma politico in concrete acquisizioni di lotta sociale.

Nel secondo caso il tutto viene delegato all'evolversi della condizione obiettiva. Le crisi pongono in essere il terreno favorevole al nascere o all'intensificarsi delle lotte di classe, la concomitanza dei due fenomeni, e solo questa, è il segnale per l'intervento del partito o addirittura per la sua nascita, che altrimenti sarebbe velleitaria, pericolosa, se non addirittura controproducente.

Sia pure a livelli differenti, l'approccio meccanicistico, nelle fasi controrivoluzionarie, nega l'esistenza di uno spazio politico al muoversi di una avanguardia a meno che quest'ultima non si comporti politicamente come tale, ovvero che si limiti ad un circolo di osservatori e commentatori delle vicende sociali senza porsi il problema di intervenire negli spazi, anche se angusti, dello scontro di classe. Sino a che dal mondo della determinazione economica non si manifestano sollecitazioni, non c'è nulla da fare, la parola d'ordine è "tutti a casa in attesa di tempi migliori".

È evidente che il "tutto e subito" e il "non c'è niente da fare" come presupposti teorici all'iperattivismo e all'attendismo sono rispettivamente la conseguenza di una visione estensiva o restrittiva della corretta interpretazione dialettica della funzione della categoria partito nel complesso corso della lotta di classe. È altrettanto evidente che le due tendenze, proprio perché derivanti dalla medesima ed originaria impostazione, contengono degli elementi di validità, ma non per questo, quando pongono l'accento unilateralmente o sulle condizioni soggettive o oggettive, continuano a rimanerne all'interno.

L'approccio meccanicistico, per quanto riguarda il problema del partito, limitandone la nascita e l'intervento solo nel momento in cui, sulla spinta delle crisi economiche, il livello di determinazione e di coscienza della lotta di classe ha avuto modo di esprimersi a livelli così alti da porre concretamente la questione dell'assalto finale o della conquista del potere, nega implicitamente il suo ruolo di avanguardia, di collettore politico delle infinite spinte parziali e settoriali della classe operaia. O sono le condizioni obiettive che scatenano la lotta di classe e ne determinano prima o poi le stesse finalità tattico-stratetiche, sino a sospingerla alle soglie del potere (al massimo si propone il partito come acceleratore secondario ed accessorio di quanto spontaneamente, o se si preferisce, meccanicamente si determina), oppure la crisi ed il conseguente rilancio della lotta di classe, sono condizioni necessarie ma non sufficienti per una soluzione rivoluzionaria.

È proprio il partito, la sua presenza politica che permette alla spontaneità della classe di indirizzarsi verso obiettivi politici, di trasformare un moto di rivolta in rivoluzione, altrimenti, come infinite volte è successo, le lotte operaie, nate settorialmente ed operanti in ordine sparso, non possono che accartocciarsi su loro stesse senza spostare di un centimetro i rapporti di forza con l'avversario di classe. Ma la condizione è che il partito deve coesistere e concrescere con le condizioni obiettive ed il conseguente evolversi della lotta di classe, altrimenti un partito dell'ultima ora, che si mettesse in moto, o peggio ancora che demandasse il suo nascere a dopo che la oggettività economica e la soggettività politica si fossero ampiamente espresse, rischierebbe quantomeno di essere scavalcato dagli avvenimenti, sempre ammesso che l'attendismo abbia il tempo materiale, nella situazione "ad hoc" per proporsi come avanguardia.

Nella storia della lotta di classe non sono certo mancate le crisi economiche, profonde e devastanti, né il proletariato ha mai cessato di essere il potenziale soggetto rivoluzionario; chi molto spesso è mancato è stato proprio il partito: o perché preventivamente sconfitto dalle forze della controrivoluzione, o perché non sufficientemente maturo da un punto di vista politico, o perché espressione attendista di un "poi" più favorevole, che nel momento in cui si è determinato lo ha colto di sorpresa, impreparato a svolgere un ruolo di guida, e soprattutto incapace di stabilire nello spazio di "ventiquattro ore" quei legami con la classe, i soli che possono permettere di giocare un ruolo politico.

Cosi come la classe ha bisogno del suo partito per esprimersi politicamente in senso rivoluzionario, così il partito ha bisogno del suo contenuto di classe per essere ed agire. Un proletariato che andasse allo scontro frontale con l'avversario di classe senza guida politica sarebbe destinato alla sconfitta. Analogamente un partito staccato dalla classe, ovvero staccato dal suo contenuto sociale, potrebbe essere il più corretto custode della dottrina rivoluzionaria, potrebbe essere la più perfetta macchina politica, ma fatalmente risulterebbe ininfluente ai fini di una soluzione finale. Proprio per non incappare in quest'ultima situazione, le avanguardie si devono sforzare di stabilire contatti con la classe anche nelle fasi meno favorevoli. Con una facile sintesi potremmo dire che il proletariato ed il partito avranno, nelle situazioni favorevoli, il destino che sono riusciti a costruirsi nelle fasi controrivoluzionarie.

Al contrario il meccanicismo, trattando il rapporto partito-classe alla stregua di un fenomeno fisico, soggiacente alle leggi della casualità, non solo inibisce al partito di costruirsi la sua lenta e difficile vita organizzativa, nelle fasi che precedono l'insorgenza rivoluzionaria, ma contemporaneamente castra il proletariato del suo insostituibile strumento politico.

Lo schema: crisi - ripresa della lotta di classe - nascita del partito, è contemporaneamente limitativo della impostazione dialettica e pericolosamente impotente nell'annodare quelle infinite fila che provengono dalla lotta di classe, se non postulando teoricamente, come assioma astratto, che sarebbe sufficiente uscire allo scoperto solo quando la situazione lo consente, e risolvere in quello spazio temporale, molto spesso breve e di difficile rilevazione, tutta quella serie di rapporti tra classe e partito che sono il presupposto per uno sbocco rivoluzionario.

Il ruolo del partito nella lotta di classe

Innanzitutto i rivoluzionari, le avanguardie e più propriamente il partito di classe non scelgono né il momento né le condizioni del loro intervento. Entrambi vengono determinati dall'evolversi delle contraddizioni economiche e dalle ripercussioni sociali. È ovviamente la società borghese che nel suo manifestarsi determina ed impone alla classe e alle sue avanguardie, non solo il terreno, ma anche i modi dello scontro. Basti pensare oggi al sistematico, scientifico attacco della borghesia internazionale al proletariato, sulla base della ristrutturazione tecnologica in tutti i settori più importanti della produzione. La lotta contro la cassa integrazione, i licenziamenti, il contenimento del costo del lavoro nelle varie formulazioni, il supersfruttamento per chi in fabbrica c'è rimasto: la stessa lotta per la riduzione dell'orario di lavoro, è nata sul terreno imposto dalla borghesia. La crisi economica, il "restringimento" del mercato, la guerra commerciale e finanziaria, ne scandiscono i tempi.

Così come ieri la fase di espansione economica e di "larghi" spazi di mercato consentiva margini rivendicativi compatibili, nel quadro delle "briciole" del processo di accumulazione capitalistica montante.

Solo la ripresa della coscienza di classe, coadiuvata dalla operante presenza del partito di classe, consente di arginare prima e di superare poi il condizionamento della borghesia.

Ma rifiutare un terreno di lotta perché infido, di difficile penetrazione politica, perché meglio amministrato dal capitale, significa creare tutti i presupposti perché in situazioni teoricamente più favorevoli si sprechino tutte le modalità di aggancio all'evolversi della situazione reale.

In secondo luogo il partito non è soltanto un fattore di dottrina e volontà, ma è anche lo strumento politico della lotta di classe. Benché la terza connotazione sia implicita nelle prime due, non sempre le deformazioni idealistiche e meccanicistiche ne tengono debitamente conto.

Quando si definisce il partito strumento politico della lotta di classe, lo si intende come necessità e linea di tendenza nell'arco storico caratterizzato dalla permanenza dei rapporti di produzione capitalistici, e non riferito ad un particolare aspetto o momento della lotta di classe. Il termine lotta di classe esprime un concetto che deterministicamente deriva da condizioni antagoniste e inconciliabili tra borghesia e proletariato, sulla base dell'altrettanto inconciliabile ed antagonistico rapporto tra capitale e lavoro, e non da un suo particolare aspetto o momento. Per cui il livello della lotta di classe può ovviamente variare a seconda del grado di sviluppo delle contraddizioni economiche, dalla presenza di crisi, dalla capacità di gestione della borghesia, dal livello di coscienza della classe operaia, dalla sua combattività, ma mai cessare, così come non deve venire meno il suo punto di riferimento politico.

Che la borghesia riesca a prendere il sopravvento nei confronti del proletariato, o attraverso il mistificante ruolo della socialdemocrazia, o attraverso una azione politica di aperta repressione, instaurando leggi eccezionali, limitando o annullando i cosiddetti diritti civili e democratici, decapitando lo stesso proletariato delle sue espressioni più rappresentative, non sta a significare che la lotta di classe non esiste più o si esprime ad un livello cosi basso da non rendere necessaria una qualche sorta di opposizione, sia pure in fase clandestina, ma significa soltanto che lo scontro vede, in questi momenti, una vittoriosa offensiva da parte della borghesia, ed una momentanea ritirata da parte del proletariato.

Non per questo le sparute minoranze, che eventualmente fossero riuscite a sfuggire alle maglie della repressione, hanno il diritto di teorizzare e di praticare l'auto-eliminazione per il semplice fatto che la lotta di classe "non c'è", e che quindi "non c'è niente da fare". Anzi, potremmo dire che la futura ripresa della lotta di classe sarà condizionata anche da quanto le sparute minoranze hanno saputo fare politicamente nelle fasi apertamente controrivoluzionarie.

È compito della borghesia comprimere economicamente e politicamente la classe operaia, recidendone la testa pensante, separandola dal suo partito, contrapponendosi ad ogni istanza economica e politica. Non sono certo i rivoluzionari, per pochi o tanti che siano, per tanta o poca incidenza che possano avere nel decorso della lotta di classe, che devono dare una mano alla borghesia nel suo lavoro di repulisti, autocliminandosi politicamente, completando un lavoro che gli organismi di repressione dello stato sono riusciti a svolgere solo parzialmente. Il rinunciare anche solo ad un lavoro di lenta ricucitura, di infiltrazione nei piccoli spazi che comunque consente anche il più repressivo degli stati, è la condizione indispensabile (ma non certamente sufficiente, questo lo diciamo per i creduloni di ogni risma) per una più celere ripresa della lotta di classe in tempi più maturi.

Là dove, anche se minime, esistono delle possibilità di organizzazione e di lavoro politico, per le avanguardie è necessario lavorare controcorrente, non solo per riannodare il filo rosso, non solo per conservar-re immacolati i "sacri principi" dai processi di degenerazione, ma anche per sforzarsi di essere un punto di riferimento politico, debole fin che si vuole, nei confronti di una lotta di classe che non cessa di esistere anche se si esprime a livelli bassi o bassissimi.

Il partito, proprio perché non è una cosa differente della classe, ma di questa ne è una parte, la più avanzata e cosciente, e ne rappresenta la prospettiva politica in qualsiasi fase dello scontro con l'avversario di classe, non deve cessare di svolgere il proprio ruolo, pena l'auto-eliminazione.

I partiti e le avanguardie possono anche scomparire, ne è una testimonianza palese il periodo in cui revisionismo e controrivoluzione hanno falcidiato il campo rivoluzionario a partire dalla seconda metà degli anni venti. Ma una cosa è soccombere, combattendo nello scontro di classe, alle forze della controrivoluzione, con tutto ciò che di negativo ne discende, ben altro è piegarsi alla situazione, teorizzando la necessità dell'assenza di un punto di riferimento politico per la classe sconfitta, in quanto superfluo o addirittura dannoso.

Da un simile approccio ne conseguirebbe lo slogan, riveduto e corretto: proletari di tutti i paesi unitevi, ma solo nei momenti in cui è all'ordine del giorno l'assalto rivoluzionario, negli altri, che sono la regola quotidiana, ognuno per sé, dio per tutti.

Alla domanda: su chi o che cosa dovrà fare conto la classe nel momento in cui l'esplodere delle contraddizioni capitalistiche la spingerà nelle piazze alla ricerca di una qualche soluzione ai suoi impellenti problemi e di una guida politica, che nel frattempo non si è espressa o si è eclissata, la risposta recita: ma sulla crisi stessa! E riecco il meccanicismo dell'equazione crisi-ripresa della lotta di classe-nascita del partito, come fenomeno spontaneo, naturale nel rapporto struttura-sovrastruttura.

Per una prima conclusione, l'approccio antidialettico, nella versione idealistica come in quella meccanicistica, non fa altro che superare i limiti superiore ed inferiore del corretto rapporto partito-classe nel perdurare dei rapporti di produzione capitalistici.

Il violentare la condizione obiettiva con ogni sorta di attivismo velleitario, o il soccombere alla stessa con un atteggiamento messianicamente attendista, hanno come risultato pratico l'impossibilità della creazione o del mantenimento di organici rapporti con la classe.

L'impostazione dialettica che vede nel partito elementi di dottrina, di metodo, di volontà, ma anche e soprattuttto di artefice politico dell'evolversi della lotta di classe, indipendentemente dai suoi livelli storici od occasionali, che non cerca di violentare la situazione esterna, ma ne subisce tatticamente i condizionamenti, che non si annulla nel "non c'è niente da fare", ma elabora una linea di intervento commisurata alle necessità della situazione specifica, non è la solita giusta via di mezzo tra due posizioni estreme, ma il loro superamento dialettico.

Un esempio concreto

Idealismo e meccanicismo, paradossalmente, non nascono né si sviluppano all'interno di sfere autonome e indipendenti, ma molto spesso entrano in sintonia mettendo in comune aree di analisi e di prassi che rendono più confuso il loro essere politico.

Attendismo ed astrattismo, concretismo e volontarismo, come sottocategorie politiche dell'idealismo e del meccanicismo, molto spesso si integrano e si confondono tra di loro.

Cinquant'anni di controrivoluzione, di isolamento delle sparute avanguardie, hanno fatto si che nella fase attuale, caratterizzata da una lenta e difficile ripresa della lotta di classe, sullo sfondo di una insanabile crisi economica internazionale, il rapporto partito-classe abbia subito ogni sorta di manomissione, anche nelle tradizioni politicamente più "sane".

Il fatto in più, la "novità" rispetto agli anni del secondo dopoguerra è rappresentata dalla situazione, per nulla meccanicistica, che a fronte di una crisi del sistema produttivo capitalistico mondiale, l'attesa ripresa della lotta di classe abbia tardato a manifestarsi per tempi ed intensità.

Sia per chi ha creduto di anticipare i tempi, sia per chi si è accorto con ritardo di quanto andava emergendo nel mondo della struttura, un decennio e più di crisi economica internazionale e di aspettative "deluse" hanno fatto sì che l'astrattismo ed il concretismo, ognuno rispetto alle proprie categorie di analisi, esasperassero le loro posizioni.

Nel primo caso si è voluto vedere in ogni episodio sociale, qualunque ne fosse la causa e i modi sovrastrutturali del manifestarsi, per definizione, un segno della ripresa della lotta di classe, con la conseguente prassi di emettere una serie di enunciati generici, quanto inoperanti, e perché privi di qualsiasi contenuto specifico e perché rivolti a lotte non ancora espresse se non nella testa di chi le invocava, o assolutamente non in grado di assorbire messaggi politici troppo "avanzati".

Nel secondo caso, la lentezza della lotta di classe ha indotto a prendere in considerazione la via delle "scorciatoie", andando come Maometto alla montagna, ma senza percorrere la strada maestra. Un po' come dire: se il problema è quello di legarsi alle masse, in un momento in cui, nonostante la crisi economica quest'ultime stentano a subire il richiamo politico delle avanguardie, occorre elaborare un approccio più duttile, e quindi efficace, anche se compromissorio, meno caratterizzato politicamente, sempre più codino verso lo spontaneismo delle lotte operaie.

Al di là delle differenze di metodo e di approccio, l'astrattismo ed il concretismo dimenticano, o nel migliore dei casi sottovalutano, che le avanguardie hanno come compito fondamentale il far crescere il livello politico delle lotte. Pur partendo dalle condizioni meno favorevoli, qualsivoglia sia il livello di partenza delle lotte, il ruolo delle avanguardie è quello di fare chiarezza, di spingere in avanti, anche se di poco, la coscienza di classe. Persino una sconfitta, patita sul terreno economico, può trasformarsi in una "vittoria" se ne discende una acquisizione politica. Quante volte per mancanza di una guida politica, o per cecità delle avanguardie, le lotte nate e morte sul terreno economico hanno ingenerato solo sconforto e disillusione, quante volte simili sconfitte hanno ulteriormente appiattito il livello e lo spirito di lotta dellaclasse operaia.

Il partito di classe è tale non solo perché fa proprie le rivendicazioni economiche e politiche della classe, non solo perché si pone alla testa delle lotte, non solo perché è nella classe e per la classe, ma soprattutto perché ne deve rappresentare la forza politica trainante, l'elemento propulsore che di lotta in lotta, di situazione in situazione, sposta l'asse politico verso obiettivi sempre più avanzati; ricevendo dalla situazione concreta della lotta di classe stimoli ed istanze, elaborandole tatticamente, per ritornare alla situazione come punto di riferimento politico più avanzato.

Proprio perché la lotta di classe è un processo e non un atto, o il partito concresce dialetticamente con l'evolversi delle situazioni, prendendo e formando, ricevendo impulsi e ritornando sugli stessi per condizionarli politicamente, oppure corre l'inevitabile rischio di astrarsi dalla lotta o di esserne travolto.

Essere nella lotta, essere con la classe operaia nel momento in cui si muove, è soltanto la condizione necessaria per esercitare un positivo ruolo di guida politica, ma non è per niente sufficiente. Accodarsi alle rivendicazioni economiche, non cercare di superare il quadro politico delle stesse per paura di non essere parte integrante del movimento, o di correre il rischio di non essere capiti, rinunciare a proporre alternative politiche più avanzate perché "tanto il livello politico della classe è quello che è", significa fare un po' di tutto, significa buttarsi nell'attivismo, rincorrere tutte le situazioni, essere fisicamente nel vivo delle lotte, avere l'illusione di essere nella classe e per la classe, ma assolutamente non significa svolgere un ruolo rivoluzionario.

Per quanto la cosa possa offendere la suscettibilità dei teorici dell'autocoscienza nella variegata gamma delle versioni anarchica, consiliarista, autonomista ecc., come i teorici del concretismo ad ogni costo, ancora una volta gli opposti si toccano, la spontaneità della classe ha il suo limite proprio nelle condizioni economiche che l'hanno posta in essere. Quando settori della classe operaia scendono sul terreno dello scontro diretto, non solo lo fanno settorialmente, ma con l'intento del soddisfacimento delle rivendicazioni economiche all'interno di un più generale quadro economico e politico soprattutto, che non vengono messi in discussione.

La necessità di generalizzazione delle lotte, il superamento, anche se puramente economico, delle compatibilità del sistema, la lenta trasformazione delle lotte economiche in lotte politiche, tutto ciò che da un punto di vista di elaborazione tattica è necessario per rendere operative le istanze delle varie fasi della lotta di classe, non sono un bagaglio insito nel concetto di spontaneità della classe. Se è vero che nella nozione di classe è implicita la presenza di un elemento unificante rappresentato dal medesimo supporto con cui la forza lavoro entra in contatto con il capitale e del quale subisce in ugual misura la necessità di valorizzazione, è anche vero che operano elementi disgreganti quali gli interessi di categoria, di livello o addirittura individuali, sui quali la borghesia ha saputo da sempre lavorare per dividere la classe operaia.

Il che non sta a significare che il livello della lotta di classe, intesa come fenomeno sociale spontaneo ed autonomo da condizionamenti politici, non possa crescere e superare i primi grandi ostacoli ma significa che non può superare una certa soglia politica, non può meccanicamente trasformarsi in rivoluzione politica per auto-trasformazione.

Senza crisi economiche non si hanno sommovimenti sociali, così come questi ultimi non possono approdare a soluzioni rivoluzionarie senza la presenza operante del partito di classe.

Il compito del partito consiste proprio nel superare lo spontaneismo particolaristico, l'economicismo che inevitabilmente ne rappresenta la molla iniziale; nell'unificare e generalizzare le lotte per poi cercare di dar loro una finalità politica, una caratterizzazione rivoluzionaria, sempre più estranea alle compatibilità economiche e politiche della società borghese. Tutto ciò è evidentemente un processo la cui intensità e durata dipende da infiniti fattori interni ed internazionali, ma comunque composta da atti politici strategicamente coerenti.

In altri termini, o la tattica, ovvero la soluzione dei problemi contingenti che di volta in volta la lotta di classe pone in essere spesso in maniera confusa e contraddittoria, si sforza di orientarsi verso il fine rivoluzionario, oppure quando il filo conduttore si spezza, si innesca il perverso meccanismo della dispersione, della frammentarietà con la conseguente inibizione ad una ulteriore crescita della coscienza rivoluzionaria.

Quante volte, pur esistendo le cosiddette condizioni obiettive favorevoli, la classe si è presentata allo scontro senza una guida politica, in ordine sparso, divisa da mille interessi ed ideologie a fronte di una borghesia sì debole e preoccupata, ma certamente più coesa ed operativamente unita. In questi casi le lotte sono nate e morte sul terreno economico senza mai mettere in discussione il quadro politico generale, senza generare apprezzabili progressi nel processo di crescita politico-rivoluzionaria, con la tragica quanto inevitabile conseguenza che tesori di determinazione e disponibilità alla lotta si sono consumati inutilmente su termini falsi e su prospettive inesistenti.

Un esempio concreto e recente è fornito proprio dalla lotta dei minatori inglesi.

Di questa lotta si è detto molto: se ne sono giustamente esaltate le caratteristiche uniche di durata e determinazione. Quello dei minatori è stato un impressionante esempio di lotta che non ha riscontri nella storia del movimento operaio inglese ed internazionale.

Altrettanto giustamente se ne sono indicati i limiti soprattutto politici, ma due aspetti non sono stati sufficientemente presi in considerazione dal "milieu" rivoluzionario, che di questa comunque grandiosa esperienza ha dovuto seguire gli sviluppi da impotente osservatore.

Il primo riguarda proprio la necessità della presenza del partito e quindi lo sforzo oggi assolutamente prioritario nel campo rivoluzionario di concentrare le energie al potenziamento e alla creazione di organismi partitici affinché futuri episodi di lotta, in Inghilterra come altrove, non si sviluppino al di fuori o senza una propria guida politica.

Il secondo si riferisce al ruolo che avrebbe dovuto giocare una avanguardia politica, ammesso che fosse presente ed in grado di operare, nella specificità della lotta dei minatori inglesi.

Del primo problema già abbiamo delineato i contorni. Va soltanto denunciato come, nel trascinarsi della crisi mondiale con relativi episodi di ripresa della lotta di classe, molte forze politiche non abbiano smesso le loro "attitudini frazionistiche" rimandando continuamente ad un domani lo sforzo di creazione del partito di classe, con tutti i limiti che un simile atteggiamento comporta.

Per quanto riguarda il secondo è bene mettere in rilievo gli aspetti fondamentali per dedurne le soluzioni tattiche migliori.

Innanzitutto va preso in considerazione il quadro economico dal quale ha preso le mosse la lotta dei minatori inglesi. Preoccupazione di per sé apparentemente inutile o scontata ma in realtà di fondamentale importanza per l'ulteriore sviluppo della lotta stessa.

In secondo luogo è necessaria la presa in considerazione di tutti i fattori economici, soggettivi, e i relativi rapporti di forza affinché una lotta di rivendicazione economica abbia possibilità di estendersi e soprattutto di uscire dall'isolamento.

Infine bisogna individuare quali fasi possano permettere l'inizio di quel lungo processo, sempre difficile, costellato di vittorie e sconfitte, da improvvise impennate e da altrettante precipitose ritirate, di trasformazione dei contenuti economici in acquisizioni politiche omogeneizzanti.

Il dato economico da cui è nata e si è sviluppata la lotta è la conseguenza di un enorme processo di ristrutturazione imposto dalla crisi, altrove come in Gran Bretagna, ma che in Gran Bretagna più che altrove ha visto una risposta di classe.

Come in altri settori dell'economia inglese il processo di ristrutturazione nelle miniere prevedeva la drastica diminuzione dei posti, la totale chiusura di quelli obsoleti, una riorganizzazione produttiva tecnologicamente avanzata con l'inevitabile conseguenza della distruzione di interi villaggi di lavoratori, la creazione di decine di migliaia di disoccupati e la fame per le loro famiglie. Le necessità di valorizzazione del capitale non hanno mai tenuto in considerazione il tenore di vita e di sopravvivenza della classe operaia nei momenti "buoni", figuriamoci nelle fasi di crisi. Anzi, in fasi come queste la disoccupazione e l'affamamento della classe operaia sono le condizioni di sopravvivenza del capitale.

Quando l'amministrazione Thatcher, congiuntamente con Mac Gregor, presidente della NCB (Associazione Nazionale Carboni) ha reso operativo il piano di ristrutturazione con la chiusura di centinaia di pozzi, i minatori inglesi si sono trovati nella condizione di rispondere ad un attacco della borghesia, partito dal suo organo di dominio politico, il governo, proprio sul terreno della mera sopravvivenza.

Ancora una volta la lotta ha trovato il suo fattore scatenante nelle condizioni economiche e, a partire da queste, per quasi un anno abbiamo assistito ad un grandioso episodio di scontro di classe. Il limite, a parte l'isolamento internazionale ed interno, si è palesato, in assenza di un partito di classe in grado di operare fattivamente nello scontro in atto, quando la risposta di classe, nata su di un terreno economico, sullo stesso è morta senza nemmeno iniziare a crescere politicamente.

Il primo passo avrebbe dovuto essere lo sforzo di generalizzazione della lotta dei minatori, obiettivo su cui tutti sono d'accordo. Anche l'astrattismo ha predicato che l'estensione della lotta dei minatori ad altri settori produttivi, la solidarietà del mondo del lavoro inglese prima e di quello internazionale poi, dovevano essere le condizioni del decollo del movimento stesso. Ancora una volta, un conto è dare delle indicazioni di massima sintetizzate in slogans più o meno efficaci, un altro è individuare i passi ed il terreno concreto su cui organizzare il trascrescere delle lotte stesse.

Per l'astrattismo il problema non si pone nemmeno. Un partito rivoluzionario ha solo il compito di aiutare dall'esterno la lotta, di facilitarne la necessità di dilatazione e di crescita politica senza andare oltre all'indicazione di massima per il semplicissimo motivo che il solito ed idealistico meccanismo dell'autocoscienza di classe è in grado di risolvere tutti i problemi. Ma le cose non sono mai cosi semplici.

Per i minatori era inutile ed ingenuo invocare una generica solidarietà basata su di un'altrettanto generica necessità di generalizzazione della lotta. Non si vince così l'isolamento, e soprattutto non si spianano gli ostacoli del corporativismo, del settorialismo o, peggio ancora, l'indifferenza della stragrande massa degli altri lavoratori. Occorre legare il concetto astratto di solidarietà a problemi concreti che riguardano tutto il mondo del lavoro come il mantenimento del posto di lavoro e la garanzia del salario, necessità che non riguardavano solo i minatori in lotta ma tutto il mondo del lavoro colpito più o meno duramente dal processo di ristrutturazione.

Invocare la solidarietà sulla difesa ad oltranza di alcune centinaia di pozzi tecnologicamente obsoleti, non solo era riduttivo ai fini delle stesse lotte dei minatori, ma certamente non era il terreno adatto su cui convogliare altre categorie di lavoratori.

L'approccio doveva consistere nel legare le rivendicazioni economiche come conseguenza di una comune causa: la crisi capitalistica con la sua perversa appendice, la ristrutturazione. Solo così, tatticamente, sarebbe stato possibile articolare un intervento che mirasse a creare un terreno comune tra occupati e disoccupati, tra lavoratori già colpiti dalla ristrutturazione e quelli che lo sarebbero stati tra non molto, tra chi era già in lotta e chi in lotta avrebbe dovuto scendere per difendere interessi comuni.

Solo così sarebbe stato possibile iniziare la riorganizzazione rivoluzionaria della classe operaia partendo dal dato economico reale, puntando alla generalizzazione della lotta, passando dalla solidarietà della massa operaia alla operatività tattica di obiettivi intermedi ma unificanti quali la garanzia del posto di lavoro, la continuità del salario per le vittime della ristrutturazione, l'adeguamento dei sussidi di disoccupazione commisurato al carico familiare, la diminuzione dell'orario di lavoro a parità di salario e di produttività.

Come è evidente i rivoluzionari non scelgono il momento ed i modi dell'intervento ma entrambi vengono imposti dalla situazione obiettiva su cui si è costretti a lavorare. Ma tutto ciò non è per niente sufficiente. Non basta essere con le masse nella lotta, non basta trovare tattiche rivendicative unificanti; il compito delle avanguardie rivoluzionarie è di andare oltre il dato economico, legato alla questione politica, in altri termini trasformare le lotte rivendicative in un primo momento di scontro politico come premessa del decollo del processo rivoluzionario.

Anche in questo caso i presunti automatismi della spontaneità e dell'autocoscienza di classe non hanno retto, ne è una lampante dimostrazione proprio l'esperienza dei minatori inglesi dove la lotta non solo non si è spostata dal primitivo punto di partenza, ma non ha nemmeno tentato di superare il quadro impostogli dalle organizzazioni sindacali.

Pur rimanendo ancora prevalentemente sul terreno economico, il passaggio al secondo livello dello scontro avrebbe dovuto trovare l'anello di congiunzione nella lotta alle cosiddette compatibilità del sistema. Ovvero le stesse rivendicazioni in materia di salario, occupazione e produttività non dovevano subire i limiti della compatibilità con le esigenze del processo di valorizzazione del capitale e del piano di riorganizzazione produttiva previsto dalla ristrutturazione. Solo così la lotta economica avrebbe creato da sé lo scontro politico contro tutte le forze della conservazione, dal governo ai sindacati, dalla magistratura alle forze di polizia. Lotta politica, in generale, significa lotta a quelle forze che detengono il potere e lo amministrano in nome delle necessità del capitale, indipendentemente dalle etichette di reazionarismo, democraticismo o progressismo, nella situazione specifica la lotta alle compatibilità del sistema e alle forze politiche significava scontro diretto con chi esercitava, ne gestiva o appoggiava la gestione sul territorio come in fabbrica, nei villaggi dei minatori come nei pozzi. Chi ha creduto di risolvere il problema lanciando lo slogan "via il governo Thatcher", riproponendo antichi vezzi sessantottini, ha fatto un buco nell'acqua.

Agli operai che da mesi erano in sciopero, che quotidianamente si scontravano con le forze di polizia nulla si aggiungeva in termini di chiarezza e di acquisizione politica, proponendo slogan come quello dell'allontanamento del governo Thatcher. Oltre che nei confronti del governo, il che era di per sé ovvio e già operante, la lotta doveva indirizzarsi contro i sindacati, contro le strutture più avanzate della conservazione, scese in campo per inseguire la rabbia operaia nella prima fase, per arginarla entro i limiti delle compatibilità economiche e politiche nella fase centrale, per amministrare l'inevitabile sconfitta nel tragico epilogo.

Il NUM ha egregiamente svolto questa funzione di ultimo argine, vegliando sulle sacre istituzioni in modo che non ne venisse messa in discussione l'esistenza, non solo, ma facendo in modo che la stessa idea non attecchisse tra i minatori. In più il NUM ha cavalcato la tigre in funzione laburista preparando il terreno per un'alternanza di governo o quantomeno per rendere dura la via al partito dei Conservatori.

Solo chi è abituato a prendere fischi per fiaschi ha creduto di vedere nel comportamento del NUM e del suo segretario Scargill una sincera vocazione operaia, anche se condotta su un terreno riformista.

La lotta dei minatori, nel momento in cui avesse creato le condizioni per la sua generalizzazione, per una maggiore radicalizzazione politica al di là e contro le compatibilità del sistema si sarebbe trovata contro non solo il governo conservatore appoggiato dal Labour Party, l'esercito e la magistratura, cosi prodiga in quei mesi di sentenze antioperaie, ma lo stesso schieramento sindacale con il NUM in testa.

Del resto è sufficiente rivedere in sintesi il comportamento delle varie organizzazioni sindacali per avere un quadro preciso di come si sarebbero svolte le cose nell'ipotesi di una trascrescenza politica delle lotte.

All'inizio della vertenza il mondo sindacale non ha potuto che dichiarare la propria incondizionata solidarietà ai minatori. Quando questa solidarietà si è trasformata in altrettanti episodi di sciopero come per i dipendenti pubblici di Shieffield e S. Helens, per i 9.000 di Liverpool che protestavano contro la incarcerazione dei 37 lavoratori della Cammel Larid, l'occupazione dei cantieri navali, lo sciopero di 24 settimane dei lavoratori delle DMSS contro i tagli della ristrutturazione accanto alle agitazioni in imprese minori e all'altro grande episodio di lotta dei dockers, si è assistito ad una precipitosa marcia indietro dei sindacati.

Il sindacato NACOD ritornava sui suoi passi per evitare uno sciopero legato alla lotta dei minatori anche quando i suoi membri avevano precedentemente votato a favore e a grande maggioranza per quello sciopero. L'altro sindacato, ISTC, sosteneva apertamente i convogli di carbone dei crumiri e aiutava a rompere i picchetti mentre I'EEPTU dava indicazione ai suoi membri di lavorare e di rompere questo sciopero "ingiustificato"! Il TUC rifiutava qualsiasi sostegno concreto e condannava i minatori per avere infranto la legge ed essersi scontrati con la polizia. Anche il partito laburista ovviamente ha chiesto ai minatori di sottomettersi alle leggi dei padroni e lasciava che la polizia procedesse contro i minatori. Fatale, dunque, che il trascrescere politico della lotta dovesse fare i conti con le organizzazioni sindacali, in quanto quinte colonne della conservazione borghese.

Ma come rompere l'accerchiamento? Non esistono ricette belle e pronte per qualsiasi tipo di cucina. Certamente, nella specifica situazione inglese, il percorso che avesse portato la lotta dei minatori inglesi fuori dalle compatibilità economiche e al di là delle maglie del sindacato, per una prima ed effettiva autonomia di gestione dei propri interessi di classe, doveva passare attraverso la creazione e il potenziamento dei comitati di sciopero che assumessero come base di partenza le rivendicazioni economiche precedentemente descritte e come primo obiettivo politico l'emancipazione dalla tutela sindacale.

In secondo luogo occorreva incrementare e favorire tutti quegli episodi, anche se rozzi e solo allo stato nascente, di dilatazione della lotta nel territorio, come primo importante momento di uscita dalla mera vigilanza dei pozzi.

Negli ultimi mesi della lotta alcuni episodi, prontamente boicottati dal sindacato e denunciati come irresponsabili dal partito laburista, si erano spontaneamente espressi. Nelle cittadine di Fitzwilliams e Malby come in molti villaggi dello Yorkshire, i minatori si sono impadroniti delle emittenti locali, hanno organizzato assalti alle centrali di polizia ed inscenato forme di manifestazione insurrezionali.

È di per sé evidente che all'interno di un processo di lotta di classe non sono le ricette o le tattiche elaborate a tavolino che possono risolvere i problemi, ma è altrettanto evidente che il compito di una avanguardia rivoluzionaria è di spingere sempre in avanti il livello dello scontro puntando a quegli obiettivi che non sempre la spontaneità delle masse è in grado di raggiungere.

Esattamente al contrario si è comportato il concretismo. Preoccupato più di aderire al movimento che di esserne l'avanguardia, scottato da decenni di isolamento, impossibilitato a svolgere un ruolo di guida, e per mancanza di lotte e per l'enorme difficoltà, in periodi di stagnazione, di fare "politica rivoluzionaria", il concretismo ha ritenuto opportuno aggredire l'ostacolo da tutt'altra parte.

Enunciando, come una sorta di giustificazione preventiva, che la rivoluzione è un processo lungo e tormentoso, che l'intervento delle avanguardie è valido solo se tiene conto del livello di partenza della lotta di classe, finisce per praticare il più pedissequo opportunismo subendo il livello politico della spontaneità delle masse e rinunciando di fatto a svolgere un ruolo di avanguardia nel cosiddetto processo della lotta.

Non è un caso che alcuni filoni del concretismo, di fronte all'episodio dello sciopero dei minatori inglesi, proprio assumendo come dato di fatto i contenuti dello sciopero ed il suo livello politico, non abbiano saputo dare altre indicazioni se non quelle di vago sapore sessantottino: "via il governo Thatcher".

Ben più grave l'approccio nei confronti del problema classe-sindacato. Pur partendo dalla giusta considerazione che i sindacati sono ormai degli organismi interamente borghesi e strutturalmente connessi alle necessità-compatibilità dei meccanismi di accumulazione del capitale, il concretismo è arrivato a difendere dagli "attacchi" del governo gli stessi organismi sindacali (NUM) ed il loro patrocinatore politico, il Labour Party!

E ciò per il semplice motivo che all'interno di queste organizzazioni c'è e si muove la classe operaia. Palese è in questo caso la confusione tra le necessità di operare politicamente là dove la classe si esprime, per il superamento dei "luoghi istituzionali" e degli ambiti politici che non le sono propri, ed il rimanere invischiati sul piano tattico-rivendicativo finendo per essere condizionati proprio là dove si andava per condizionare.

A meno che, per questi riformisti di ritorno, l'approccio alla questione sindacale ed il loro concretismo non siano le premesse pratiche ad una totale revisione politica nei confronti del ruolo del partito, della funzione della neo-socialdemocrazia, del rapporto partito-stratificazioni borghesi e, perché no, di una rilettura più elastica del Fronte unico, del "riformismo rivoluzionario" con tutti gli annessi e connessi del caso.

Fabio Damen

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.