Messa in questione della legge della caduta tendenziale del saggio di profitto

La teoria marxiana del valore, nella parte in cui è affermata la legge della tendenziale caduta del saggio di profitto (Sp=Pv/C+V) e la sua influenza sul sorgere di crisi, presenta gravi difetti. Innanzitutto, Marx assume erroneamente la costanza del saggio di plusvalore (Spv=Pv/V) durante la crescita della partecipazione del capitale costante (C) al capitale totale (C+V). Egli lo fa perché non riesce ad individuare altra fonte di crescita del saggio di plusvalore che un aumento della intensità di lavoro od un’estensione degli orari di lavoro od un declino dei salari. (Ai fini di semplificazione, supporrò che gli ultimi tre parametri sian costanti, come del resto fa Marx stesso.) Cit.: “Assume, furthermore, that the length and intensity of the average working-day, and the level of wages, and thereby the proportion between necessary and surplus-labour, are given.” (Das Kapital, Vol. III, Part III, Chap. 13.) Egli, dunque, non considera affatto la crescente perfezione dei mezzi di produzione fonte di valorizzazione del lavoro vivo (L=V+Pv). Tale valorizzazione trova però dei limiti nella limitata capacità della borghesia di assorbire il valore prodotto (W=C+V+Pv), la quale si traduce nella limitata capacità del saggio di plusvalore di crescere. Ma ancorché la crescita del saggio di plusvalore non incontrasse tale ostacolo, l’accumulazione di plusvalore sarebbe inibita. Quindi, in un sistema chiuso, non soltanto il rendimento degli investimenti, cioè il saggio di profitto, ma anche la possibilità stessa di investire si imbatte in pesanti ostacoli. E nel mentre che la caduta del saggio di profitto può essere annullata grazie ad una svalutazione del capitale costante, possibilità ammessa da Marx stesso, i limiti che la accumulazione di plusvalore incontra in un sistema chiuso non possono affatto essere superati. Ciò poiché qualcun altro deve consumare parte della frazione di beni e servizi prodotti corrispondente al plusvalore (Pv=L-V) affinché il capitalista possa accumulare il plusvalore non impiegato nel consumo della restante parte di tale frazione di beni e servizi. Tale altro soggetto deve necessariamente situarsi all’infuori del sistema e in un’epoca in cui il modo di produzione capitalistico abbraccia l’intero pianeta non vi può più essere. Prima, l’esportazione di beni e servizi in paesi precapitalisti consentiva persino una crescita consistente del saggio di plusvalore. Dunque, mentre la caduta del saggio di profitto, laddove si verifichi, esaspera la crisi dell’accumulazione capitalistica, a determinare la crisi non è (stata) alcuna tendenza a siffatta caduta. La determina invece la saturazione del mercato mondiale, in congiunzione con il sottoconsumo e l’anarchia produttiva, questi ultimi due fenomeni essendo congeniti al modo di produzione capitalistico. Finalmente, qualsiasi tentativo di aumentare il consumo da parte dei lavoratori in un mercato capitalistico integrato a livello globale condurrebbe o ad un calo del plusvalore totale o a sovrapproduzione ancor più esasperata oppure a entrambe le cose, la crisi dell’accumulazione non potendo essere superata in nessuno dei tre casi.

Forum: 

Ciao,

per questa vecchia questione, ti rimando alla nostra abbondante pubblicistica, in particolare ai vari numeri di Prometeo.

Smirnov

Salve Smirnov,

M'hai dato una risposta assai poco utile, per non dir altro. Magari un giorno riuscirò a finire di leggere tutti i numeri di Prometeo, ma per il momento non sarebbe male se tu mi potessi indicare precisamente dei singoli articoli in cui a tuo avviso i più importanti argomenti a sostegno della legge della caduta tendenziale del saggio di profitto sono presentati in maniera chiara e piuttosto esaustiva. In tal caso ti sarei molto grato. Per ora, però, rimango poco contento della risposta.

Saluti internazionalisti.

PS: Leggerò senz'altro volentieri tutti gli articoli che mi avrai indicato, in caso tu lo faccia (e purché non si tratti di più di dieci articoli), ma se essi non mi risulteranno sufficientemente atti a confutare i miei argomenti, insisterò perché mi si fornisca una risposta non preconfezionata.

Ciao Ossu,

allora, alcuni articoli, non più di dieci, sulla questione li trovi nei n. 11/1987 (La crisi permanente), n. 12/1988 (Considerazioni e verifiche...), n. 2/1991 (Capitale produttività...). Inoltre, puoi leggere l'articolo di Mattick, La crisi permanente, che è la versione lunga del primo articolo che ti ho segnalato; anche questo lo trovi sul sito.

Non so cosa intenda per "risposta preconfezionata", ma, dal mio punto di vista, c'è poco da aggiungere a quanto abbiamo scritto (e, prima di noi, altri) su questa diatriba. Come forse saprai, non seguiamo la Luxemburg, riguardo a questa faccenda, a differenza di altri organizzazioni che si richiamano alla sinistra comunista, in particolare dell'area francofona (quanto a origini). Oggi c'è chi vuole integrare le due visioni (saturazione dei mercati/scomparsa di mercati non capitalistici e caduta del SMP), ma dal nostro punto di vista, seguendo Marx, è il secondo aspetto decisivo nella crisi del capitale.

Di nuovo,

Smirnov

Scusa, dimenticavo: se ti interessa c'è anche questo:

leftcom.org

Ciao Smirnov,

Grazie degli articoli indicati. Ne sto leggendo ancora il primo, ma quello intitolato "Capitale, produttività etc." (Prometeo 2/91) non appare al cliccare sul titolo, pare che ci sia un problema tecnico.

Saluti.

Ciao Ossu,

grazie per la segnalazione: vedremo di risolvere il problema quanto prima.

Ciao,

Smirnov

Non ho letto ancora tutto quello che Smirnov m'ha raccomandato (intendo farlo), ma ho letto abbastanza per capire di essere stato in errore. La tesi di Rosa Luxemburg, secondo la quale la produzione capitalistica non può espandersi in assenza di mercati non-capitalistici, non è soltanto inconciliabile con la teoria di Carlo Marx, ma è empiricamente confutata e logicamente assurda. So che anch'io ho sostenuto cose simili, ma è meglio rettificare il proprio pensiero tardi anziché mai. Io non mi rendevo conto del fatto che solo quel capitale fisso che riproduce la scala di produzione attuale è rappresentato da C nella formula W=C+Pv+V, e che quindi il profitto (Pv) può esser impiegato anche per acquistare ulteriore capitale fisso e non soltanto per il consumo individuale. So che questa cosa è abbastanza facile da capire e che il sostener il contrario ha da parer un'assurdità, ma se i militanti esperti della cci possono asserir cose simili, mica mi si può rimproverare tanto quest'errore. Ora, per quanto riguarda la mia critica (che ora mi sembre alquanto presuntuosa) dell'affermazione di Marx che ho citato, essa deriva dalla mia incomprensione d'allora della esatta causa della caduta tendenziale del saggio di profitto. Non conoscendo allora la teoria marxiana che assai superficialmente, io non sapevo che costui ricollegasse le relazioni tra i prezzi delle varie merci alla quantità di lavoro sociale medio impiegata nella loro produzione, il che ora non soltanto mi appare logico, ma sono anche a conoscenza della conferma empirica di questa tesi. A causa di questo difetto di conoscenza non riuscivo a capire perché egli ipotizzasse anche una crescita del rapporto C/L e non soltanto del rapporto C/V.

Nel frattempo ho incontrato un articolo assai interessante: leftcommunism.org (FR) o leftcommunism.org (EN). Forse anche l'articolo leftcommunism.org (FR) potrebbe interessarvi.

L'interpretazione della crisi offerta da questo gruppo recentemente fuoriuscito dalla cci è assai simile alla vostra (che è sostanzialmente quella di Mattick il padre e in ultima analisi quella di Marx) nonostante i compagni di Controversie si sforzino alquanto a sottolinearne la differenza dalla interpretazione mattickiana. Io non tale differenza fo fatica a notar checchessia di essenziale. Vorrei sapere quel che ne pensate. A me rallegra assai il fatto che loro abbiano trovato il coraggio di rivedere le assurde posizioni della Corrente Comunista Internazionale sulle cause della crisi capitalistica (posizioni che io condividevo in misura considerevole sino a poco tempo fa). Pare che, inoltre, abbiano messo in discussione la teoria dualista del periodo di transizione (=consigli proletari accanto ad uno Stato ostile alla rivoluzione), anche quella solidamente radicata nella cci. Tutto questo mi pare assai incoraggiante poiché sembra dimostrare che le teorie più assurde non possono aver lunga vita che in ambienti chiusi in se stessi e restii ad affrontare la realtà.

PS: grazie ancora Smirnov per le utili indicazioni.

ERRATUM CORRIGE: Al posto di "Io non tale differenza fo..." volevo dire "Io IN tale differenza fo...".

Vediamo se ho capito. Il saggio medio di profitto diminuisce in rapporto all'aumentare della composizione organica del capitale e cioè mano a mano che la capacita' produttiva dell'operaio (capitale variabile), grazie all'ausilio di tecnologie (capitale fisso) sempre più sofisticate, viene aumentata. Questo fenomeno e' dovuto alla impossibilita di diminuire oltre un certo limite la parte del tempo di lavoro che l'operaio dedica a produrre ciò che egli consuma, in parole povere per riprodurre il proprio salario, cosicché gli investimenti tecnologici diventano sempre più grandi per ottenere profitti proporzionalmente sempre minori, tentando di far produrre all'operaio quantità maggiori di beni che contengono però una minore quantità di lavoro e di valore.All'aumentare dello sfruttamento corrisponde paradossalmente una diminuzione proporzionale del profitto. La diminuizione progressiva dei profitti genera concorrenza ( non il contrario ), che accelera il processo di composizione organica del capitale che porta alla diminuizione dei profitti, entrando così in un orbita cieca fino a che cessano i presupposti per la valorizzazione del capitale ed e' la crisi. La crisi non deriva quindi da una produzione eccessiva ma dalla impossibilita capitalistica di valorizzazione dei prodotti, ricercare le cause della crisi nella sovrapproduzione o nel sottoconsumo significa scambiare un problema di produzione con uno di distribuzione. L'accumulazione capitalistica non si riduce al semplice accaparramento di moneta, bensì anche e soprattutto al possesso di merci nella forma in cui servono alla valorizzazione, all'accumulazione ed allo sfruttamento, che possano cioè tornare utili al processo di accumulazione e quindi produzione alla ricerca del profitto che le merci generano, quindi in base al saggio di profitto, per cui il saggio di profitto genera la saturazione dei mercati ancora prima che siano effettivamente esauriti.

Secondo me una crisi non ha mai una causa unica. In particolare questa che stamo vivendo ha cause molto più complesse del meccanismo illustrato (che pure c'è).

Certo "le parti non possono mai spiegare il tutto".....

le assurde posizioni della Corrente Comunista Internazionale sulle cause della crisi capitalistica (posizioni che io condividevo in misura considerevole sino a poco tempo fa). Pare che, inoltre, abbiano messo in discussione la teoria dualista del periodo di transizione (=consigli proletari accanto ad uno Stato ostile alla rivoluzione), anche quella solidamente radicata nella cci. Tutto questo mi pare assai incoraggiante poiché sembra dimostrare che le teorie più assurde non possono aver lunga vita che in ambienti chiusi in se stessi e restii ad affrontare la realtà.

Ti è possibile illustrare brevemente questo passaggio?

Ho chiesto al Compagno Ossu di volermi chiarire più in dettaglio il passaggio del suo scritto.

Ora, a partire dalla sua affermazione "teorie più assurde non possono aver lunga vita che in ambienti chiusi in se stessi e restii ad affrontare la realtà", una diagnosi inoppugnabile nel caso in oggetto e che condivido totalmente, è importare capire che cosa spinge determinate persone o gruppi politici a cambiare la loro precedente analisi della crisi: un'analisi diversa determina un indirizzo di lavoro diverso, va da sè, e se porta ad abbandonare la teoria dualista, a mio modestissimo parere, si tratta di una involuzione grave. Il compagno Ossu, che forse conosce più a fondo la realtà di quel gruppo, può darci elementi più fondati di valutazione.

La crisi ha perlomeno il vantaggio di mettere alla prova ogni convinzione, ogni idea, ogni proposta, ogni supposizione, ogni linea, ogni strategia, ogni tattica, ma questo é lavoro di marxisti. La vita dei gruppi politici sembra seguire una legge: o sei nconsonanza con la fase storica in cui sei immerso oppure rischi di trovarti da un'altra parte, nell'inutile nel migliore dei casi.

Vorrei sottolinearvi quella che mi sembra un evento importante, che va nella direzione giusta e cioè l'iniziativa degli Amici di Spartaco e di Battaglia Comunista a Milano. Credo che la direzione di lavoro politico sia quella indicata nel volantino con cui hanno promosso l'iniziativa. E' una base politica sulla quale è possibile anche impiantare un discorso unitario nel campo proletario, spero che questo evento abbia sufficiente successo da essere notato nell'ambiente proletario e, in ogni caso credo che nei contenuti vi sia un indirizzo da perseguire con ostinazione.Saluti.

Compagno Anonimous,

In questo periodo ho troppi impegni per poter discutere seriamente su checchessia. Perciò mi limito a "sfogliare" quel che viene scritto in questo sito. Fra circa due settimane avrò molto più tempo libero e potrò con molto piacere parlare o scrivere su questo argomento, e fin d'ora m'impegno in tal senso.

Saluti internazionalisti.

La posizione di ossu altro non è che quella della Luxemburg e va incontro agli stessi problemi e alle stesse sviste.

Innanzitutto, Marx assume il saggio del plusvalore come costante non perché ritenga che questa sia la situazione reale, ma solo per procedimento di analisi scientifica. E' infatti pratica comune (e obbligata) nell'analisi dover fissare considerare variabile solo uno dei fattori di un modello, per studiare la sua influenza causale sull'intero sistema; se tutto variasse contemporaneamente, non si capirebbe più niente. Quello che tu pensi sia un inezia, il declino dei salari (o meglio, la caduta del valore della forza-lavoro) è conseguenza dell'aumentata produttività ed è una controtendenza che Marx tiene in considerazione, come tutte le altre. Forse faresti meglio a considerare con più cautela un gigante del pensiero come Marx, uno che ha speso una vita nello studio del capitalismo e che, di certo, non si è impantanato in queste sciocchezze.

La caduta del saggio del profitto non può essere annullata, a meno di non annullare la tendenza all'aumento della composizione organica e, cioè, far girare la storia all'indietro. Può al massimo essere rimandata la catastrofe economica, se si riesce a mettere in atto una qualche controtendenza.

Questa storia del sottoconsumo io non capisco come sia sopravvissuta così a lungo. PV è composto da r+ac+av, rispettivamente reddito del capitalista, fondo per l'accumulazione di strumenti, fondo per l'accumulazione dei salari. Supposto che il capitalista non sia bacato in zucca e che spenda ac e av in quanto assolutamente necessario (dunque l'accumulazione come condizione necessaria affinché guadagni almeno r per lui), ac+av sono soldi che si intascano altri capitalisti: che le merci le compra un capitalista o un proletario, non cambia nulla, se non nel fatto che nel primo caso si abbassa quello che potremmo definire il saggio del reddito del capitalista o vero saggio del profitto. Questo fatto ha conseguenze enormemente importanti (cioè viene a mancare l'incentivo alla produzione per un r troppo basso, con il conseguente collasso economico), ma non implica per nulla la necessità di mercati di sbocco extra-capitalistici: il produttore di mezzi di produzione che vende merci per ac, ad esempio, vende nel mercato interno ai compratori di ac, gli altri capitalisti. Idem per av e, ovviamente, per r (che è come v).

A mio avviso la concezione luxemburghiana è piuttosto rozza; il motore del capitalismo è, comunque, r, reddito speso in consumo per il capitalista. Che poi il nostro amico borghese può decidere di sacrificarne un po' (cedendolo ai suoi colleghi capitalisti produttori di mezzi di produzione e beni per proletari) nella speranza che tale investimento accresca il suo capitale attraverso l'accrescimento della produzione, è un conto. Ma può sempre benissimo contrarre tali investimenti (anche la produzione, se la crisi è grave) e stare addirittura in una teorica situazione vicina alla riproduzione semplice. Egli continuerà comunque a usare i suoi soldi come capitale fintanto che il reddito da capitale sarà comunque soddisfacente.

La prova empirica dell'errore della concezione luxemburghiana è il fatto che da più di un secolo il mondo è privo di zone non capitalistiche, tuttavia ciò non ha impedito al capitale di accrescere comunque il suo plusvalore e il suo dominio, per quando supremo (cioè decadentemente imperialistico). E a causa di chi? Proprio di quelle controdendenze a quella legge della caduta del saggio del profitto (causate dalla IIWW) che, secondo ossu, è solo "accessoria" alla crisi.

Tre cose, due nel merito ed una nel metodo.

1) "da più di un secolo il mondo è privo di zone non capitalistiche", già, ma come la mettiamo con la legge dello scambio disuguale e con i dislivelli si sviluppo?

2) stante la progressiva scomparsa degli strati sociali intermedi tra proletariato e borghesia, i proletari possono acquistare tutte le merci che producono?

Infine, mi perdoni il compagno nessuno, ma mi risulta indigeribile il tono. Il compagno Ossu ha esposto un suo pensiero e lo ha fatto senza alcuna pretesa di pronunciare verità assolute ma per confrontarlo con quello degli altri compagni, serenamente, senza enfasi missionaria. Si discute tra compagni, almeno qui, anche per capire se i nostri presupposti teorici funzionano ancora ed in che modo. Ciò che volevi dire potevi dirlo altrimenti.

Quanto alla "rozzezza" della Compagna Rosa Luxemburg ........

@Anonymous:

1) legge dal nome molto altisonante, che non conosco. Presumo si tratti della questione che nazioni più sviluppate tengono "sotto ricatto" nazioni meno sviluppate costringendole ad accettare termini di scambio più svantaggiosi per loro, in virtù di vari fattori. Questa questione, sebbene rilevante, ricade semplicemente nella teoria del valore: accadono continuamente squilibri e divergenze tra prezzo di mercato e valore delle merci, dovute a tutti i motivi di questo mondo. Non solo è normale, ma è fondamentale che accada perché non esiste altro mezzo per redistribuire il lavoro sociale nel capitalismo, società priva di un piano organico di produzione. Tuttavia, nel lungo periodo, ogni extra-profitto tende a scomparire e i termini di scambio si avvicinano al valore, al prezzo d'equilibrio (tanto per fare citazioni: Rubin, "Saggi sulla teoria del valore di Marx"). Cosa che infatti è avvenuta, tendenzialmente, in molti paesi (basti pensare cos'era l'america latina a inizio del 900 e cos'è oggi).

2) l'ho già detto sopra, è ovvio che non possono in quanto v è minore del valore della merce. Tuttavia il plusvalore non è buttato al vento, ma è speso in merci: beni di consumo (reddito del capitalista e accumulazione per salari) e mezzi di produzione (accumulazione per capitali). Plusvalore non speso è semplicemente denaro tesoreggiato, non dissimilmente dai due soldi che il proletario prova a mettere via ogni mese per fa fronte a spese improvvise.

Io mica ho condannato a morte il compagno ossu, ho soltanto replicato. Poi è ovvio che se uno si presenta con un certa "sicurezza", la risposta non potrà che essere altrettanto determinata.

Più che altro sono in dovere di scusarmi con ossu perché non ho letto, in seguito, della sua rettifica. Pertanto il mio intervento è inutile.

Riguardo alla Luxemburg, io parlo di rozzezza della sua concezione della teoria marxiana, peraltro assai condivisa (vedi sostanzialmente la CCI). Il suo valore umano e politico, così come la sua appartenenza al campo proletario, non sono da me mai stati messi in discussione.

@Anonimo

Se ci è possibile, vorrei separare nettamente il lavoro teorico della Compagna Rosa Luxemburg dalla CCI: questo accostamento mi sembra improponibile.

Ora, il meccanismo da te illustrato è vero e funziona, ovviamente, ma questa spiegazione non mi sembra esaustiva. Secondo me bisogna considerare la complessificazione dell'economia nel frattempo intervenuta.

Secondo me è avvenuto un salto qualitativo dei meccanismi di sfruttamento del mondo (e dei proletari). Sono mutate sia le architetture sociali, sia la forma stessa del capitale, divenuto capitale finanziario internazionalizzato, ed in quanto tale in grado di sfruttare anche, oggi principalmente, l'interezza dei paesi del mondo tramite, ad esempio, il meccanismo del debito pubblico. A ciò corrisponde la liquefazione progressiva degli strati sociali interposti tra proletariato e borghesia in una vasta massa proletarizzata la cui definizione sociale è data dal rapporto col capitale finanziario.

Posta in altri termini, la questione potrebbe essere: che cos'è il moderno proletariato? Così posta la domanda rimanda proprio all'analisi della Luxemburg la quale, sia detto di passata, non contraddice affatto quanto tu spiegavi. Ti saluto e ti ringrazio per la risposta.

@Anonymous (penso ti riferissi a me nel tuo ultimo intervento):

Sulla questione della sovrapproduzione per mancanza di mercati extra-capitalistici e tutte le cose di cui stiamo discutendo, a me pare invece che la CCI sposi abbastanza la tesi della Luxemburg (almeno per come la sua tesi è passata alla storia). MI è parso di leggere più volte dal loro sito che la causa della crisi, alla fine, è quella. Per il resto, sinceramente, non so.

Il mio intervento non aveva l'ambizione di spiegare come funziona il processo di circolazione del capitale, ma solo di rispondere ai compagni che pensano che esista sovrapproduzione cronica per il fatto che una massa di merci non è acquistabile dagli operai; se gli operai potessero acquistare tutto, dove starebbe il profitto del capitalista? Se hai dei dubbi che per caso desideri pormi, ti ascolto volentieri.

La mia opinione è che non è avvenuta alcuna modificazione sostanziale nel modo di produzione capitalistico. Il fatto che il capitale si è autonomizzato totalmente e si è distaccato quasi del tutto dalla gestione della produzione (proprietà vs. management), non cambia nulla nel fatto che la classe borghese (impersonificata ora soprattutto in banche e azionisti, piuttosto che in padroni e padroncini) si appropria di una quota di beni e servizi prodotti dalla classe produttiva (il proletariato) solo in virtù dei rapporti di proprietà. Oggi è solo evidente anche ai ciechi che la borghesia è una classe totalmente parassitaria, la cui unica attività è tagliare cedole e appropriarsi di dividendi; il Capitale si è distaccato persino dalla sua classe borghese, diventando una potenza autonoma (appunto il famigerato capitalismo finanziario).

Ma tutto questo fa parte del normale volgersi del capitalismo, prossimo alla sua dissoluzione in quanto totalmente, inconfutabilmente, parassitario e ostacolo alle forze produttive.

Il proletariato è sempre quello di prima: la classe produttrice e sfruttata. Il punto è che, oggi, il proletariato comprende anche quella parte di persone conifigurabili sia come "esercito di riserva", sia come "sovrappopolazione relativa". Cioè i miserabili come me. Ma in sostanza nulla è cambiato, proprio perché il capitalismo è irriformarbile nei suoi rapporti di produzione.

@ Anonimo

Caro compagno Anonimo,

naturalmente sono d'accordo su moltissime cose che affermi, ma, per "riquadrare" il ragionamento dal mio punto di vista, chiedo:

la crisi ha una causa unica? esiste oppure no uno sbilancio tra produzione e capacità dei mercati di assorbirla? e questo differenziale, se c'é, è effetto o concausa della crisi? e se è concausa, quanto insiste sull'andamento della crisi rispetto alle altre cause?

Il proletariato, penso, non soltanto si è dilatato fino ad assorbire progressivamente ceti medi, ma la tendenza è verso quella polarizzazione cui accennavi anche tu, tra proletari e tagliatori di ceole, come diceva il vecchio Engels. Ma da qui non ne deriva affatto un immediato suo rafforzamento in quanto mancano elementi identitari. La sua stessa morfologia viene mantenuta artatamente in condizione di dispersione (grazie ai sindacati, tra l'altro) perché questa è una condizione oggi divenuta indispensabile per per il capitalismo. Siamo tutti esercito di riserva e siamo tutti, in qualche modo, sovrappopolazione relativa.

Un'altra questione importante è l'attuale rapporto tra capitalismo e scienza e tecnica. Il capitalismo già da molti decenni, si trova nelle condizioni di negare gli sviluppi della scienza e della tecnica (applicate solo in parte e solo in campo militare). Ti saluto.

@ Anonymous

Compagno quando scrivi ""Un'altra questione importante è l'attuale rapporto tra capitalismo e scienza e tecnica. Il capitalismo già da molti decenni, si trova nelle condizioni di negare gli sviluppi della scienza e della tecnica (applicate solo in parte e solo in campo militare)"", non e che ci tieni anche te nascosto qualche cosa? ; )

Compagni,

Innanzitutto, chiedo scusa per il lungo ritardo nel rispondervi a dispetto della promessa che ho fatto.

Re: GCom on Mar, 2012-03-20 21:02

“... all'aumentare della composizione organica del capitale e cioè mano a mano che la capacita' produttiva dell'operaio (capitale variabile), grazie all'ausilio di tecnologie (capitale fisso) sempre più sofisticate, viene aumentata.” A mio avviso, non è così semplice la cosa. La composizione organica del capitale (in termini di valore, cioè C/L) non aumenta necessariamente con l’aumento della produttività del lavoro, giacché quest’ultima genera allo stesso tempo due controtendenze, in quanto determina l’aumento tanto del C/V (composizione del capitale in termini di quantità materiale) quanto del saggio di plusvalore (o di sfruttamento, cioè pv/V). Quindi, la tendenza del saggio di profitto a calare incontra la tendenza dello stesso a mantenersi (o se vogliamo, a crescere). Per cui, non è possibile prevedere il momento in cui il saggio di profitto inizierà a calare effettivamente, ma una volta avvenuto questo, non agisce che una sola delle due tendenze, cioè quella prima, per cui il calo del saggio medio di profitto è inarrestabile sino ad una svalutazione del capitale fisso, attraverso un regresso nell’attività di produzione (e di scambio), sufficientemente importante da ripristinare la profittabilità degli investimenti, cioè da ripristinare un saggio medio di profitto abbastanza alto perché l’accumulazione capitalistica possa ripartire.

CONTINUAZIONE

“La diminuizione progressiva dei profitti genera concorrenza ( non il contrario ), che ...” “L'accumulazione capitalistica non si riduce al semplice accaparramento di moneta, bensì anche e soprattutto al possesso di merci nella forma in cui servono alla valorizzazione, all'accumulazione ed allo sfruttamento” Spesso si mistifica l’idea stessa di accumulazione di capitale, che poi non è altro che un’espansione del controllo su mezzi di produzione. In ultima analisi, l’accumulazione di capitale, altro non è che l’espansione della produzione stessa, in quanto nel capitalismo le condizioni oggettive di produzione assumono la forma di capitale. Nel capitalismo ogni cosa è merce, ma l’accumulazione di beni e servizi di consumo non ha nulla a che fare con l’accumulazione capitalistica (o di capitale); anzi, essa potrebbe corrispondere ad un’incapacità di realizzare il plusvalore estratto, e quindi, di portare a compimento l’accumulazione di capitale. Quest’ultima, al livello globale corrisponde semplicemente all’aumento della (scala di) produzione sociale, mentre al livello del singolo capitalista (che è oggidì una mera astrazione) ad un aumento del controllo su (parte de)lla produzione sociale, cioè alla capacità di usalla per ulteriore accumulazione capitalistica. La moneta e i vari titoli di credito non sono che dei mezzi simbolici che permettono (o si ha la speranza che essi possano permettere) un dominio immediato oppure differito su parte della produzione sociale. Certo, essi servono anche per consentire alla borghesia un certo consumo di beni e servizi, ma questa funzione è ovviamente secondaria. Se comprendiamo in questo modo l’accumulazione capitalistica, allora ci pare chiaro che la concorrenza sia un aspetto essenziale, imprescindibile del modo di produzione capitalistico, piuttosto che conseguenza del prevalere di una delle sue tendenze. Vale a dire che la concorrenza sia determinata dal fatto che il “capitale” non investito in attività che crei ulteriore capitale, non è affatto capitale, in quanto l’accumulazione di capitale corrisponde ad un espansione della produzione sociale. Cioè, la borghesia cerca costantemente di ottenere ulteriore profitto (a scapito dei concorrenti), poiché il profitto altro non è che la capacità di estrarre ulteriore profitto (pare roba da matti ma è così), e non invece la banconota, il titolo di Stato o il libretto di risparmio che uno si mette in tasca, ancorché così sembri al singolo capitalista o a chi comunque ragiona dal suo punto di vista. Abusando di un termine religioso, si potrebbe affermare la consustanzialità della concorrenza e del modo di produzione capitalistico.


Re: Anonymous on Ven, 2012-03-23 22:49 e Anonymous on Sab, 2012-03-24 12:37

““le assurde posizioni della Corrente Comunista Internazionale sulle cause della crisi capitalistica (posizioni che io condividevo in misura considerevole sino a poco tempo fa). ... Tutto questo mi pare assai incoraggiante poiché sembra dimostrare che le teorie più assurde non possono aver lunga vita che in ambienti chiusi in se stessi e restii ad affrontare la realtà.” / Ti è possibile illustrare brevemente questo passaggio?”

Cercherò ora di illustrare l’assurdità della posizione della CCI sulle cause della crisi. Come ho già scritto, l’accumulazione capitalistica al livello globale corrisponde all’espansione della scala di produzione sociale cioè alla cosiddetta riproduzione allargata del capitale. Del resto, è una cosa che si capisce anche intuitivamente. La riproduzione semplice non dà alcuna accumulazione capitalistica visto che i capitalisti in quel caso si limitano a mantenere il funzionamento di quello che già c’è. Ora, il nucleo principale della tesi di Luxemburg consiste nell’affermazione che – senza un mercato (o una zona da sfruttare altrimenti) esteriore all’area dominata dal modo di produzione capitalistico – non vi possa essere un’espansione né del valore né della scala di produzione attuale, cioè che la riproduzione del capitale non possa andare oltre il valore già presente. Conseguentemente, la sottomissione dell’intera superficie terrestre al dominio del capitale precluderrebbe ogni ulteriore accumulazione capitalistica. L’assurdità di questa teoria è dismostrabile tanto logicamente che empiricamente. Logicamente, non c’è bisogno di mercati esterni al mondo capitalistico al fine di una riproduzione allargata del capitale, in quanto a ciò basta l’estrazione di plusvalore, il quale per lo più viene usato per tale allargamento, rimanendo il consumo borghese un uso accessorio (e d’entità relativa esigua) del plusvalore estratto. Cioè, ci basta il capitalismo stesso. Ora, a Rosa Luxemburg non è rimproverabile che questo errore logico, in quanto lei morì prima di vedere un nuovo ciclo di accumulazione capitalistica. Dico questo assumendo che si sia d’accordo sull’inesistenza di aree esterne al dominio capitalistico al più tardi a partire della Prima guerra mondiale. Né Rosa né la CCI hanno espresso dubbi su questo. Ora, a differenza di quanto si può sostenere a proposito di Rosa Luxemburg, i compagni della CCI hanno assistito ad un immenso sviluppo delle forze produttive ed a due giganteschi cicli di accumulazione capitalistica. Nondimeno, continuano ad asserire (per avvalorare la teoria luxemburghiana) che a partire dalla Prima g. m. non ci sia più accumulazione capitalistica. Il che vale a dire che non c’è più estrazione di plusvalore, cioè che nonostante il trascorrere di quasi un secolo, questi idioti di borghesi non si sono ancora resi conto della scomparsa (avvenuta un secolo fa) della ragion d’essere del loro sfruttamento del proletariato, nonché della loro competizione tra di loro stessi. Sarebbe solo una vecchia abitudine, essendo a parer della CCI ogni accumulazione di capitale nell’epoca contemporanea – un semplice, ma ben celato inganno. Ecco l’assurdità empirica della loro teoria.

Per quanto riguarda la mia asserzione su una delle proprietà degli ambienti chiusi in sé stessi, mi riferivo semplicemente alla mia ipotesi che, ove la CCI fosse meno monolitica, meno ostile nei confronti nel rimanente campo politico proletario e meno pronta a soffocare ogni dissenso, prima o poi a qualcuno verrebe in mente di mettere in questione talune delle loro tesi di certo non brillanti.

“Ora, a partire dalla sua affermazione "teorie più assurde non possono aver lunga vita che in ambienti chiusi in se stessi e restii ad affrontare la realtà", una diagnosi inoppugnabile nel caso in oggetto e che condivido totalmente, è importare capire che cosa spinge determinate persone o gruppi politici a cambiare la loro precedente analisi della crisi: un'analisi diversa determina un indirizzo di lavoro diverso, va da sè, e se porta ad abbandonare la teoria dualista, a mio modestissimo parere, si tratta di una involuzione grave. Il compagno Ossu, che forse conosce più a fondo la realtà di quel gruppo, può darci elementi più fondati di valutazione.” No, io non conosco bene né la realtà interna della CCI né quella del gruppo che edita il sito web Controverses. Qui pare che tu m’abbia malinteso in quanto io ritenevo (e ritengo) assurda proprio la teoria dualista del periodo di transizione. Poi, forse per ‘teoria dualista’ intendiamo rispettivamente cose assai diverse, per cui ora cercherò di spiegarmi al proposito. Secondo la Corrente Comunista Internazionale, nel periodo di transizione, a canto agli organi di massa del proletariato insorto vi sarà una struttura parallela che sarà il residuo dello Stato precedentemente esistente e sarà ostile al proletariato ed al progresso della Rivoluzione (per il fatto di essere appunto uno Stato). Il proletariato rivoluzionario, per ragioni non ancora rivelate dalla CCI, non solo tollererà questa struttura, ma parteciperà al suo funzionamento, in quanto a canto ai consigli (soviet) del proletariato ci saranno anche consigli generici cui parteciperanno tutti e i quali faranno qualche cosa che sinceramente non son ancora riuscito a capire cosa sia. E questi soviet prettamente proletari non governeranno affatto, ma eserciteranno una sorta di pressione politica sullo Stato che rimane sempre ostile come prima. A qualcuno pare necessario aggiungere un commento a tutto questo?

“La crisi ha perlomeno il vantaggio di mettere alla prova ogni convinzione, ogni idea, ogni proposta, ogni supposizione, ogni linea, ogni strategia, ogni tattica, ma questo é lavoro di marxisti. La vita dei gruppi politici sembra seguire una legge: o sei nconsonanza con la fase storica in cui sei immerso oppure rischi di trovarti da un'altra parte, nell'inutile nel migliore dei casi.” Son d’accordo, ma credo che ciò valga anche per i “non marxisti”; a mio avviso, quel che le generazioni presenti stanno per vivere sarà una lezione pratica non meno eloquente di qualsiasi elaborazione teorica del passato.

“Vorrei sottolinearvi quella che mi sembra un evento importante, che va nella direzione giusta e cioè l'iniziativa degli Amici di Spartaco e di Battaglia Comunista a Milano. ...” Potresti inviarci un link relativo a questa iniziativa?


Relativamente alla discussione che segue (tra i compagni Anonimous e nessuno), le risposte del compagno nessuno mi paiono generalmente assai soddisfacenti. Avendola letta, mi rendo conto che gran parte di quel che ho scritto è una mera ripetizione di qualche cosa che il compagno nessuno ha spiegato abbastanza chiaramente, ma giacché ho scritto quel che ho scritto, lo pubblico. Comunque, ora mi soffermerò un poco sull’ultimo post del compagno Anonimous.

“la crisi ha una causa unica? esiste oppure no uno sbilancio tra produzione e capacità dei mercati di assorbirla? e questo differenziale, se c'é, è effetto o concausa della crisi? e se è concausa, quanto insiste sull'andamento della crisi rispetto alle altre cause?” Parlando in maniera molto, ma molto generale, la crisi ha un’unica causa e questa consiste proprio nel modo di produzione capitalistico, cioè nel motivo di tale produzione, nell’accumulazione capitalistica. Come ho scritto nella mia risposta al compagno GCom, ma forse non ribadito a sufficienza, la cosiddetta realizzazione del profitto (cioè, lo scambio di prodotti contenenti il plusvalore) è uno dei passi indispensabili dell’accumulazione capitalistica, nella stessa misura in cui lo sono lo sfruttamento di forza lavoro oltre il valore dello stipendio (che avviene prima) e l’impiego effettivo di nuovi mezzi di produzione nella produzione sociale (che avviene dopo). A mio avviso, l’incapacità dei mercati di assorbire la domanda non può essere che un problema momentaneo della produzione capitalistica. Innanzitutti, si tende sempre a produrre quello che si può ragionevolmente prevedere di poter vendere. In secondo luogo, il capitalismo ha finora dimostrato di esser capace di creare ulteriore domanda negli ambiti più inaspettati e per i prodotti più inaspettati. In terzo luogo, ai tempi post-crisi, una volta che il capitale fisso è sufficientemente svalutato (in seguito a maggiori regressi nell’attività di produzione, cui da un secolo fa s’accompagnano maggiori progressi nell’attività di distruzione), e quindi, una volta che la produzione è ridivenuta sufficientemente profittabile, il capitalismo non ha mai avuto difficoltà a generare sempre maggiore domanda. Tralaltro, basterebbe alzare gli stipendi per generare ulteriore domanda in quanto un rialzo degli stipendi di per sé non influisce negativamente né sulla crescita della massa di profitto, né sul saggio di profitto. Anzi, nel periodo in cui la produzione si espande, è una “concessione” inevitabile. Solo una volta che la crescita del saggio di profitto ha cominciato a rallentarsi, maggiori investimenti nel capitale variabile cominciano a diventare controproducenti (s’intende – per il capitale). Quindi, io non credo che durante il periodo ascendente del ciclo d’accumulazione capitalistica un’inadeguata capacità di assorbimento della produzione possa rappresentare altro che un ostacolo momentaneo. Del resto, effimere recessioni avvengono assai frequentemente tanto nei periodi in cui il saggio di profitto cresce che in quelli in cui è stagnante o inizia a calare (permettendo comunque ulteriore accumulazione capitalistica). Ciò nonostante, un temporaneo intasamento del mercato potrebbe persino essere determinante ai fini del definitivo prevalere di una delle due controtendenze di cui sopra, entrambe determinate dalla crescita della produttività del lavoro umano. Comunque, la principale causa dell’inizio del periodo discendente del ciclo di accumulazione (cioè quello che si apre allorché il saggio di profitto smette di crescere) rimane sempre la crescita della produttività in quanto causa costante ed ineliminabile, a differenza dei problemi con la creazione della domanda che sono fortuiti ed effimeri.

Una volta che la tendenza del saggio di profitto medio a calare è finalmente prevalsa, s’ha un’inarrestabile reazione a catena, poiché la caduta protratta del saggio medio di profitto, a prescindere dalla reazione del capitale, comporta un costante aggravamento dell’accumulazione capitalistica. Infatti, se diminuiscon gli investimenti nella produzione, la produzione non si espande ad un ritmo sufficientemente veloce da permettere l’accumulazione ottimale di capitale (cioè tale da poter consentire l’investimento del plusvalore apparentemente estratto); in assenza di sufficiente accumulazione capitalistica, s’aggrava tutto ulteriormente. Se gli investimenti continuano allo stesso ritmo, ci vuole una sempre maggiore crescita del saggio di plusvalore (sfruttamento) e quindi si tagliano gli investimenti nel capitale variabile (una maggiore disoccupazione, salari diretti più bassi, salari indiretti più bassi (meno tasse)). Se diminuiscono gli investimenti nel capitale variabile, allora sì che la domanda si restringe, il che inibisce l’espansione della produzione, e quindi, l’aggravamento dell’accumulazione capitalistica. L’impossibilità di una ottimale accumulazione capitalistica effettiva comporta sempre di più accumulazione fittizia, cioè titoli di credito, titoli derivativi ecc. e quindi s’arriva lì dove siamo.

“Il proletariato, penso, non soltanto si è dilatato fino ad assorbire progressivamente ceti medi, ma la tendenza è verso quella polarizzazione cui accennavi anche tu, tra proletari e tagliatori di ceole, come diceva il vecchio Engels. Ma da qui non ne deriva affatto un immediato suo rafforzamento in quanto mancano elementi identitari. La sua stessa morfologia viene mantenuta artatamente in condizione di dispersione (grazie ai sindacati, tra l'altro) perché questa è una condizione oggi divenuta indispensabile per per il capitalismo. Siamo tutti esercito di riserva e siamo tutti, in qualche modo, sovrappopolazione relativa.” Ma tutta questa grande disoccupazione è allo stesso tempo segno di una attuale e non affatto effimera debolezza del capitale. Non solo perché è segno della sua relativa incapacità di riprodursi, ma anche per il fatto che il dominio del capitale non sia fondato su forza pura, ma presupponga anche la sua capacità di assicurare almeno la mera sussistenza della classe dominata.

“Un'altra questione importante è l'attuale rapporto tra capitalismo e scienza e tecnica. Il capitalismo già da molti decenni, si trova nelle condizioni di negare gli sviluppi della scienza e della tecnica (applicate solo in parte e solo in campo militare). Ti saluto.” In teoria, il capitale potrebbe mostrare una certa tendenza ad ostacolare il progresso tecnologico, in quanto naturalmente preferisce un lavoratore che deve lavorare dalla mattina alla sera ad un lavoratore che con pochissimo lavoro ripetitivo riesce ad assicurare la propria esistenza. Quest’ultimo sarebbe sempre schiavo del bisogno, in quanto la borghesia nel suo insieme manterrebbe sempre il monopolio assoluto sui mezzi di produzione sociale, ma lo sarebbe in misura minore. La borghesia però ha già trovato una soluzione per consentire allo stesso tempo tanto una debolissima posizione dei lavoratori nella lotta di classe quanto la possibilità di rivoluzionare costantemente i mezzi di produzione. La soluzione è duplice e consiste in una sempre maggiore ipertrofizzazione dei settori non produttivi accompagnata da una vera e propria manifattura di bisogni sociali relativi al consumo.


Infine, vorrei toccare brevemente la questione del capitale finanziario. Nella misura in cui esso è capitale, altro non è che controllo su parte della produzione sociale. Poco importa che tale controllo avvenga tramite un diritto reale giuridicamente sancito come tale, per lo più sotto forma di partecipazione sociale ad una società commerciale, oppure per il tramite di titoli di credito o di scambio di vario tipo. Nella misura in cui un aumento del cosiddetto capitale scritturale (ivi compreso il capitale-moneta) non corrisponde ad un aumento del valore della produzione sociale, tale primo aumento non è accumulazione capitalistica effettiva, ma una semplice promessa di accumulazione futura. Forse al posto dell’espressione “capitale fittizio” sarebbe meglio usare al proposito l’espressione “capitale futuro incerto”, riservando la prima a quella porzione del capitale scritturale che in futuro dovrà esser annullata.


Giunto alla fine del commento, devo ammettere di non esser convinto in egual misura di ogni cosa che ho scritto. Pertanto, ogni osservazione critica relativa a questo mio commento non è solo benvenuta, ma anche da me fortemente auspicata.

Saluti internazionalisti.

Paun Oslić (Un ossu)

Saluti a te compagno un ossu. Grazie per i tuoi commenti, prima di risponderti devo approfondire...

Un ossu ha scritto

Nella misura in cui un aumento del cosiddetto capitale scritturale (ivi compreso il capitale-moneta) non corrisponde ad un aumento del valore della produzione sociale, tale primo aumento non è accumulazione capitalistica effettiva, ma una semplice promessa di accumulazione futura. Forse al posto dell’espressione “capitale fittizio” sarebbe meglio usare al proposito l’espressione “capitale futuro incerto”, riservando la prima a quella porzione del capitale scritturale che in futuro dovrà esser annullata.

Mi sembra perfetto. Ma il capitale scritturale e cosi grosso bisognarebbe il valore della produzione sociale da decenni (ho visto una previsione di quasi un secolo!) per liquidare i debiti attuale. Mi sembra che il sistema non ha troppo spazio di manovra

@ compagno ossu Il plus valore usato come capitale e' accumulo di capitale.La funzione del capitale di generare plus v e' determinata dalla produzione di plus v che esso stesso e' in grado di garantire.Una parte di plus prodotto viene trasformata in capitale, specificatamente in mezzi di produzione o ri-produzione, ossia una parte eccedente di plus lavoro viene utilizzata per fornire mezzi di produzione in quantità maggiore del capitale anticipato, questo per garantire la produzione di plus v da trasformare in capitale.E' dunque una costante sovrapproduzione, capitalistica, un surplus di lavoro, che consente l'accumulo del capitale, merci che portano in se i presupposti del capitale futuro. In ultima analisi direi che la concorrenza viene generata dal fatto che il capitalista, per rientrare del capitale anticipato, sia ovviamente interessato alla parte di giornata lavorativa non pagata, al plusvalore relativo, che cresce con lo sviluppo della capacita produttiva. Salvo poi cambiare la composizione organica del capitale e imbattersi prima o dopo nella caduta tendenziale de saggio di profitto. Saluti

Salve compagno GCom.

“Il plus valore usato come capitale e' accumulo di capitale.” Son d’accordo.

“La funzione del capitale di generare plus v e' determinata dalla produzione di plus v che esso stesso e' in grado di garantire.” M’è poco chiaro questo. A mio avviso, la funzione del capitale di generare plusvalore è determinata da una proprietà intrinseca del lavoro umano, che è la sua capacità di creare ulteriore valore d’uso, che tale uso sia consumo individuale o impiego industriale o puramente commerciale. Poi, l’estrazione di un plusvalore mercantile da parte dei controllori del capitale deriva dallo sfruttamento di tale lavoro.

“Una parte di plus prodotto viene trasformata in capitale, specificatamente in mezzi di produzione o ri-produzione, ossia una parte eccedente di plus lavoro viene utilizzata per fornire mezzi di produzione in quantità maggiore del capitale anticipato, questo per garantire la produzione di plus v da trasformare in capitale.” Concordo.

“E' dunque una costante sovrapproduzione, capitalistica, un surplus di lavoro, che consente l'accumulo del capitale, merci che portano in se i presupposti del capitale futuro.” Credo che, infatti, sia così, solo che normalmente il termine “sovrapproduzione” viene usato quando ci si vuole riferire all’impossibilità di realizzare parte del plusvalore, cioè di vendere tutto quanto è stato prodotto, mentre qui potremmo parlare semplicemente di produzione eccedente il livello di produzione ‘di partenza’, cioè il capitale investito come hai detto più in alto.

“In ultima analisi direi che la concorrenza viene generata dal fatto che il capitalista, per rientrare del capitale anticipato, sia ovviamente interessato alla parte di giornata lavorativa non pagata, al plusvalore relativo, che cresce con lo sviluppo della capacita produttiva.” Se i capitalisti si limitassero a un mero rientro nel capitale anticipato, non ci sarebbe punto concorrenza. La concorrenza è intrinseca al capitale in quanto gli è intrinseca la tendenza ed espandersi, giacché espandersi in questo caso significa acquisire ulteriore capacità di espansione, equivalendo il capitale alla capacità di generare ulteriore capitale.

“Salvo poi cambiare la composizione organica del capitale e imbattersi prima o dopo nella caduta tendenziale de saggio di profitto.” Come suggerisce il compagno Cleishbotham, ormai ci s’è imbattuti.

Saluti.

Buondì un ossu.

non e' che abbia qualcosa di meglio da proporre, ma il meccanismo dell'espansione -intrinseco- mi e' ostico.

adesso mi leggo un po' di Accumulazione e vediamo..

saluti compagni

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