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Home ›La guerra, l'economia, il proletariato. Annotazioni sull'economia di guerra
Introduzione
«Il raffronto tra questi dati rappresenta e fotografa le caratteristiche di quell'economia di guerra che oggi assume la forma di una vera e propria guerra ai salari»1.
Questo è quanto si leggeva in un documento del sindacato USB in vista della manifestazione del pubblico impiego indetta per il 1 giugno '24. I dati a cui si fa riferimento sono quelli relativi alle spese militari “nel nostro paese” nel 2023-24 e ai soldi stanziati dal governo per il rinnovo del contratto di categoria: rispettivamente, +12,5% e +5,5%. Al di là delle cifre, che evidenziano il diverso impegno finanziario, ciò che emerge, una volta di più, è l'incapacità dell'arcipelago riformista, in ogni variante, di capire le dinamiche del capitale e i suoi riflessi sulla società, dunque sulla lotta di classe. E' scontato che la borghesia destini le risorse a disposizione – o che spera di avere a disposizione – di gran lunga prima agli strumenti che rafforzano il suo dominio di classe e il suo posizionamento sullo scacchiere imperialista, così com'è scontato, almeno per noi, che la guerra al salario non è cominciata con l'attacco all'Ucraina, ma qualche decennio fa e questa guerra, più che mai in corso, è semmai il prodromo, l'annunciatrice delle carneficine che stanno insanguinando l'ex URSS, la Palestina, il Sudan, il Congo ed altre aree del mondo. Finora la guerra alla classe lavoratrice la sta vincendo la borghesia, tuttavia non sta vincendo quella contro se stessa, contro le contraddizioni ineliminabili del modo di produzione capitalistico. Sono contraddizioni che, mentre spingono ad aggredire le condizioni di esistenza del proletariato mondiale (a cominciare dal posto di lavoro... o di non lavoro), esasperano i contrasti tra i segmenti della borghesia internazionale, costretti a correre, lo vogliano o no, giù per la china che termina nel conflitto armato generalizzato.
Il capitale è entrato da tempo nella “modalità economia di guerra”
Nonostante siano passati due secoli e mezzo, nonostante i cambiamenti intervenuti, il capitale, nella sostanza, è sempre quello e, allora come oggi, a un certo punto del suo procedere va a sbattere contro quella che Marx ha definito la legge più importante del capitale ossia la caduta tendenziale del saggio di profitto: quando, da “semplice” tendenza diventa attuale, cominciano i guai per l'economia, il che significa per gli esseri umani – e, soprattutto adesso, anche per l'ambiente – costretti a vivere sotto il dominio del capitale. La fine del più lungo ciclo di crescita economica della storia del capitalismo, quello cominciato dopo la seconda guerra mondiale, grazie proprio alla distruzione di capitale in eccesso (forza lavoro - esseri umani - compresa) operata dal conflitto, è la conseguenza della caduta strutturale del tasso di profitto, il che ha spinto il capitale – vale a dire il suo gestore: la borghesia – a ricorrere agli strumenti “classici”, ma rapportati alla scala del capitalismo attuale, per pompare ossigeno nei polmoni sfiatati del capitale. Da qui hanno avuto origine le trasformazioni, ancora in atto, tanto nell'economia quanto nella società, a cominciare dai cambiamenti nella composizione e nella distribuzione territoriale della classe lavoratrice, del proletariato. L'attacco al salario in tutte le sue forme, lo smantellamento/ridimensionamento delle grandi concentrazioni operaie in “Occidente” e, di converso, la loro crescita negli anelli della cosiddetta catena mondiale del valore – le aree di insediamento delle delocalizzazioni – il dilagare della precarietà o sottoccupazione, del sottosalario, dello strapotere padronale sul posto di lavoro, sono parte della strategia diretta a ricostituire tassi di profitto adeguati, adeguati cioè agli investimenti richiesti dall'odierna composizione organica del capitale. Però, come abbiamo detto più volte, nonostante l'estorsione del plusvalore (lo sfruttamento) sia aumentata, non è sufficiente per far partire un nuovo ciclo espansivo di accumulazione su scala mondiale, ma più che sufficiente per peggiorare le condizioni di lavoro della classe lavoratrice, a cominciare dalla “metropoli” del capitale.
La letteratura sull'argomento, per lo più di stampo riformista, è abbondantissima e, tra questa, ogni rapporto dell'ILO2 non fa altro che confermare, nella sostanza, la “via crucis” che il proletariato mondiale è costretto a percorrere da alcuni decenni. Ultimo, in ordine di tempo, quello uscito all'inizio di quest'anno che registra, una volta di più, ancora una diminuzione del salario reale sotto i colpi dell'inflazione scoppiata tra il 2021 e il 2022 (ma ancora in corso, tra alti e bassi). Essa ha falcidiato il reddito del lavoro salariato/dipendente, già indebolito, per usare un eufemismo, dalla pandemia e solo parzialmente frenato nella sua caduta dalle imponenti misure di sostegno prese dagli stati per impedire il collasso del sistema e l'esplosione della lotta di classe in forme difficilmente governabili dal sindacalismo in genere e da quello “maggioritario” in particolare, variamente integrato nei meccanismi borghesi di gestione e controllo della classe stessa. A tale proposito, anche se questo ci porta (in apparenza) ad allontanarci dal discorso sulla guerra, è utile citare un passaggio del rapporto ILO, perché in poche parole, e probabilmente senza che i redattori ne abbiano piena coscienza, vengono indicati i nodi che il capitale e il sindacalismo, compreso quello “radicale”, non riescono a sciogliere. Eccole: «Durante i periodi di crescita debole della produttività, il reddito disponibile reale, i salari reali sono spesso esposti alle variazioni brutali dei prezzi. Posto che poche imprese hanno visto i loro utili accrescersi, la maggior parte dei lavoratori non è stata in grado di chiedere un aumento più importante della loro remunerazione, e si sono confrontati, assieme alle loro famiglie, a un'erosione accelerata del loro reddito disponibile»3.
Con un linguaggio diverso dal nostro, viene confermato che la produttività - che per il capitale significa sempre di plusvalore (ossia di lavoro non pagato), non di semplici “cose” - cresce troppo lentamente, tanto che i “benefici” per le imprese rimangono insoddisfacenti, restringendo in maniera decisa i limiti della contrattazione salariale – dove esiste – e anzi, diciamo noi, in base all'analisi dei fatti dell'ultimo mezzo secolo, le imprese, più che “dare” sono spinte a prendere, come si dice più indietro.
Poi, ovviamente, se la classe non lotta, perché intimidita e brutalizzata dalla borghesia, tenuta a freno da chi, formalmente, dovrebbe difenderne gli interessi, sia pure sul piano meramente economico (il sindacato), priva di qualsiasi riferimento politico classista, è ovvio che il padronato si prenda il dito, la mano e tutto il braccio, imponendo un livello di sfruttamento e di oppressione più alto di quello medio. Le lotte accanite, generose degli operai della logistica hanno – non ovunque, sia chiaro – portato quel settore di classe operaia a quella “media”; rilevare questo, non significa affatto guardare con sufficienza i sacrifici, spesso pesanti, affrontati dai facchini, ma ricordare, non da ultimo a chi li guida politicamente (per quello che conta), che non devono esagerare a loro stessi «il risultato finale di questa lotta quotidiana» e che «_Invece della parola d'ordine conservatrice: “Un equo salario per un'equa giornata di lavoro”. Gli operai devono scrivere sulla loro bandiera il motto rivoluzionario: “Soppressione del sistema del lavoro salariato”_»4. Parole che una parte del personale politico-sindacale alla testa degli operai della logistica conosce probabilmente bene, ma come un bambino potrebbe recitare a memoria un passo della Commedia dantesca, senza capire nulla di ciò che sta dicendo. Se invece lo si capisce, allora si entra e si rientra a pieno titolo nella categoria affollata dell'opportunismo antioperaio e antirivoluzionario...
La produttività di plusvalore – si diceva – sostanza del profitto o, per usare il linguaggio borghese, degli utili, della redditività del capitale, una redditività che molti analisti borghesi aperti e riformisti invece accertano e certificano, ma solo perché, ancora una volta, le lenti ideologiche indossate li rendono incapaci di comprendere fino in fondo i dati da loro stessi citati.
In effetti, dando un'occhiata superficiale a certi numeri, si potrebbe pensare che l'economia goda di ottima salute, anche se l'ILO, a dire il vero, accenna al fatto che la crescita degli utili riguarda solo una cerchia limitata di imprese, e tuttavia quei numeri colpiscono. Oxfam sostiene che i «vincitori di questo periodo di crisi [intende la pandemia, l'inflazione e le guerre in corso] sono le grandi multinazionali, per le quali, così come per gli individui super-ricchi, gli ultimi due decenni sono stati incredibilmente redditizi. Nella media del biennio 2021-2022 le più grandi corporation globali hanno registrato un aumento dell'88% dei profitti rispetto al periodo 2017-2020 [e i dati del 2023] mostrano come l'anno appena conclusosi sia destinato a superare ogni record, attestandosi come il più redditizio di sempre»5. Le corporation interessate a questa scorpacciata di profitti sono, va da sé, quelle energetiche, farmaceutiche, del lusso e della banca-finanza. E' questa la tipologia d'impresa a cui si riferisce l'ILO? Può essere, visto che il documento aggiunge: «i redditi d'impresa sono estremamente concentrati: appena lo 0,001% delle imprese più grandi incamera quasi un terzo di tutti i profitti societari globali». Senza scomodare il Lenin de “L'imperialismo” (anzi, sì) è la riprova del ruolo giocato dal monopolio nella nostra epoca, quella, appunto, dell'imperialismo. Ma se le imprese giganti hanno incamerato enormi profitti (i famigerati extraprofitti...), anche quelle meno grandi, in questo caso, nello specifico, quelle italiane, non se la sono passata male, stando a uno studio della Sapienza di Roma, sulla base di dati elaborati da Mediobanca. Sul Sole 24 ore, giornale della Confindustria, si legge: «I bilanci aggregati delle società industriali italiane medie e grandi […] dimostrano che soprattutto per effetto dell'inflazione il fatturato netto 2023 è stato superiore del 34% al 2019, altrettanto il valore aggiunto […] tra il 2020 e il 2023 […] la quota che va al costo del lavoro ha perso 12 punti percentuali e quella che remunera il capitale di rischio dei soci (utile netto) è aumentato di 14 punti percentuali. Il travaso di ricchezza dal lavoro al capitale è stato pazzesco. I soci hanno prelevato come dividendi l'80% degli utili netti e hanno lasciato il 20% come autofinanziamento di nuovi investimenti [che] sono stati solo per il 40% materiali nelle fabbriche e per il 60% finanziari in partecipazioni»6. Questa “propensione” a non reinvestire i profitti in quella che viene chiamata l'economia reale, ma per lo più nella finanza, non è però solo italiana, tutt'altro, perché caratterizza, nella nostra epoca, la vita del capitale, al di là della sua dislocazione geografica e, in gran parte, delle sue dimensioni, se è vero che «tra luglio 2022 e giugno 2023, per ogni 100 dollari di profitto generati da 96 tra le imprese più grandi al mondo 82 dollari sono fluiti agli azionisti sotto forma di dividendi o buy back azionari»7. D'altronde, «In un rapporto del 2021, la società di consulenza McKinsey calcola che il 77% dell'aumento del valore netto del bilancio mondiale – vale a dire sia attività finanziarie che attività reali – è da imputare all'incremento dei prezzi e della valorizzazione dei titoli obbligazionari e azionari. Solo il 23% dipende dalla creazione di nuove risorse reali»8; è appunto la cosiddetta finanziarizzazione della crisi.
Queste analisi uscite dalle “teste pensanti” della borghesia e del riformismo, sostanzialmente coincidenti, forse rallentano il discorso, ma proprio perché provengono dall'altra parte della barricata di classe9, confermano, una volta di più, che nelle epoche di crisi profonda e duratura, originata da saggi di profitto insoddisfacenti, i profitti realizzati solo parzialmente (persino molto parzialmente) vengono reinvestiti nel processo produttivo, proprio a causa dei bassi saggi di profitto attesi, ma vanno verso la speculazione finanziaria, che si sviluppa in maniera abnorme, cercando così di eludere la legge del valore ossia di saltare la fase produttiva, dove nasce il plusvalore. Ci si getta a capofitto nella ricerca del guadagno a breve e brevissimo termine, tramite giochi di prestigio finanziari che gonfiano artificialmente i “valori” delle merci (materiali e “immateriali”) esistenti e di quelle che devono ancora essere prodotte (il capitale fittizio), dando vita a bolle speculative che si ingrossano fino a quando, inevitabilmente, non scoppiano, con effetti pesanti sull'economia reale e, va da sé, sulla classe lavoratrice.
A questo si affianca l'aumento progressivo del debito (sia pubblico che privato) e del deficit statale, da quando, agli inizi degli anni '70 del secolo scorso, si è conclusa “ufficialmente” la fase ascendente del ciclo di accumulazione post-bellico. Lo stato è intervenuto e interviene massicciamente nel sostegno del capitale privato, facendo esplodere il debito pubblico – a spese della classe salariata, depredata del salario indiretto e differito – nel tentativo di posticipare quanto più è possibile la resa dei conti con le leggi di esistenza del capitale.
Lo stesso si può dire delle politiche monetarie messe messe in atto dalle banche centrali, prima durante e dopo la pandemia, di cui il cosiddetto “quantitative easing”10 è l'esempio più recente, più famoso e più usato. Ma né il debito né la politica monetaria statale a una scala tipica delle economie di guerra vere e proprie – per questo, si può affermare che il capitalismo è entrato da tempo in un'economia di guerra – hanno rianimato l'economia. La ragione è che invece di distruggere i capitali in eccesso – la sovraccumulazione – li tengono in vita, impedendo il risanamento, se così vogliamo chiamarlo, del capitalismo. Per quanto lo sfruttamento venga intensificato, per quanto l'ambiente venga saccheggiato e stuprato dalla ricerca affannata di materie prime al costo più basso possibile, l'economia non si riprende, la crescita del Pil, quando c'è, si mantiene bassa, il che contribuisce ad aumentare il rapporto col debito pubblico. Da soli, devastazione della natura e sfruttamento accresciuto, non bastano a far ripartire il motore inceppato del processo di accumulazione, per questo il rischio di una guerra generalizzata diventa sempre più reale. Indipendentemente dalla volontà delle borghesie, è l'inefficacia delle misure volte a rimettere in carreggiata la macchina capitalista a spingere verso questo tragico sbocco. Solo una guerra di questo tipo, con le sue immani distruzioni, è in grado di creare le condizioni perché il capitale possa ritrovare una redditività, o profittabilità, soddisfacente. Sempre ammesso che dopo una guerra simile possa esserci ancora vita sul Pianeta.
Una pessima aria: la corsa agli armamenti evoca le immani carneficine del passato
Il conflitto in Ucraina, a cui si aggiunge il tritacarne in Palestina e Libano, sono i campanelli d'allarme più vistosi che la borghesia sta spingendo il mondo verso la catastrofe, ma sono solo i passi più recenti in questa direzione.
Da anni gli stati – organismi della borghesia, comunque si presentino – hanno intrapreso una corsa agli armamenti che ricorda pericolosamente gli anni precedenti le due guerre mondiali. Vale poco dire – come si legge in certi ambienti “ultra sinistri” - che oggi le spese militari sono molto al di sotto dei livelli raggiunti durante la seconda guerra mondiale, la guerra di Corea o del Viet Nam: è una banalità, ma quello che conta è la piega presa dagli avvenimenti, la direzione in cui la crisi del capitale ci ha instradato. Quel giudizio da pedanti vale ancora meno se si considera che l guerre di Corea e del Viet Nam si svolsero durante la fase di “prosperità” economica (il boom), quando la borghesia dei principali schieramenti imperialisti disponeva di margini di manovra per ammortizzare i contrasti, che oggi non esistono. Il debito globale inarrestabile è, appunto, forse il segno più appariscente.
Le spese militari da oltre vent'anni crescono ininterrottamente e cresceranno ancora di più, sicuramente per i paesi europei membri della NATO, i quali, dal 2014, anno di occupazione della Crimea da parte dalla Russia, si sono impegnati ad aumentare le spese per la “difesa” (la solita ipocrisia) ad almeno il 2% del Pil; l'Italia non ha ancora raggiunto l'obiettivo, ma anche nella legge di Bilancio del 2025 c'è un corposo aumento dei fondi destinati alla guerra: si parla di 40 miliardi in più per i prossimi tre anni. Il governo, poi, da tempo chiede con insistenza che gli stanziamenti per la difesa siano scorporati dal Patto di Stabilità, che non abbiano vincoli di bilancio e quindi siano escluse dall'austerità, a differenza della sanità, della scuola, della protezione dell'ambiente ecc.
Ma a quanto ammontano le spese militari?11. Secondo il centro di Stoccolma, «La spesa militare mondiale è aumentata per il nono anno consecutivo raggiungendo il massimo storico di 2443 miliardi di dollari»12 e per la prima volta è salita in tutto il mondo. Va da sé che gli aumenti più decisi si sono visti in Russia (+24%) e in Ucraina (+51%), che hanno impegnato rispettivamente 109 e 64,8 miliardi di dollari (esclusi, per quest'ultima, gli aiuti da USA e UE). Somme di gran lunga inferiori rispetto a quelle della NATO (1341 mld, il 55% della spesa mondiale), degli USA (916 mld, +2,3%) o della Cina, “il secondo paese al mondo per spese militari”, dopo gli USA, che ha aumentato del 6% gli stanziamenti rispetto all'anno precedente, arrivando a 296 mld. Per inciso, sempre secondo il SIPRI, la crescita delle spese militari cinesi, ininterrotta da ventinove anni, ha dato alle borghesie dell'area la spinta per aumentare i propri stanziamenti nel settore, iscrivendo a pieno titolo i paesi dell'Indo-Pacifico alla corsa mondiale degli armamenti. E' evidente che questa corsa non è stata innescata dall'attacco all'Ucraina, anzi, se mai ha inasprito le tensioni e accelerato la decisione della Russia di invadere l'Ucraina per fermare l'espansione della NATO a Est e dimostrare che non si fa intimorire dal crescente impegno militar-finanziario dell'avversario. Ovviamente, non significa attribuire un'attenuante all'imperialismo di Mosca, ma sottolineare ancora una volta come la distinzione tra aggrediti e aggressori sia solo formale, in quanto ogni borghesia è ugualmente corresponsabile delle dinamiche imperialiste, essendo l'imperialismo non una politica tra le tante possibili del capitale, ma il suo modo di essere da un secolo e mezzo circa.
È evidente che se la spesa militare in aumento è uno dei fattori che contribuiscono alla crescita del debito pubblico, visto che gli stati sono gli acquirenti incomparabilmente più importanti delle armi, pagate con le imposte e i tagli ai servizi pubblici, è ovvio che si gonfi il portafoglio del cosiddetto apparato militar-industriale, in cui, per inciso i big three della finanza – Black Rock, Vanguard, Sate Street – occupano un posto di rilievo, così come in molteplici altre aziende di ogni parte del mondo. Le imprese di armi vedono salire gli ordini e il valore delle proprie azioni da una ventina d'anni se, sostiene un rapporto di Greenpeace, dalla “guerra al terrorismo”, cominciata nel 2001 con Bush figlio, «un'azione Lockheed Martin o di Northrop Grumman è passata da meno di 30 dollari ai 450 attuali […] Una di Rheinmetall valeva 10 euro ed ora ne vale oltre 300»13. Anche di fronte a questo crescente impegno finanziario degli stati per la “difesa”, il riformismo, per non smentirsi, mostra la propria incapacità di comprendere la natura del capitalismo e dello stato. La denuncia indignata del “boom armato” è sincera, ma il pacifismo non sa spiegarsi il motivo e se non sa dare spiegazioni del fenomeno, tanto meno può dare indicazioni politiche corrette per combatterlo. In un altro studio molto documentato di Greenpeace si legge: «Un tale aumento delle spese militari [indietro si riportano le cifre] e dell'acquisto di armamenti appare in netto contrasto con la stagnazione economica che contraddistingue i Paesi dell'Unione Europea in questi anni. Nel complesso dei Paesi UE della NATO, tra il 2013 e il 2023, il Prodotto Interno Lordo reale è aumentato del 12% […] l_'occupazione totale del 9% e le spese militari del 46%, quasi quattro volte di più del PIL_»14. In realtà, è proprio la stagnazione economica, espressione delle difficoltà del processo di accumulazione mondiale, a spiegare la “corsa agli armamenti” che, come si diceva, spinge pericolosamente le borghesie a gonfiare i muscoli nel confronto-scontro economico e che non può prescindere da un sostegno armato sempre più potente, vista l'impossibilità di risolvere i problemi sul piano meramente economico. Non conta niente lamentare – come fa Greenpeace – che un miliardo di euro investito dallo stato nella scuola, sanità, ambiente ecc., creerebbe quattro volte più occupati che lo stesso investimento nel settore militare: rivela solo l'ingenuità, per quanto sincera, del pacifismo. Sarà anche vero, ma posto che il miliardo deriva dalle imposte, quindi da un prelievo sul salario e sul plusvalore (evasione fiscale a parte...), quelle spese statali, benché necessarie, sono improduttive, dal punto di vista del capitale collettivo, esattamente come quelle per le armi, ma queste sono indispensabili per esercitare il dominio di classe sul proletariato e tenere a bada o aggredire le altre borghesie sullo scacchiere geopolitico, cioè degli interessi imperialistici contrapposti.
Falsi amici, veri nemici: le contraddizioni laceranti della borghesia
La cosiddetta delocalizzazione aveva fatto credere alla borghesia della “metropoli”, a cominciare da quella statunitense, di avere risolto i problemi sollevati dalla caduta del saggio di profitto, ma li ha solo rimandati e, allo stesso tempo, ne ha creato dei nuovi ossia lo sviluppo accelerato dell'imperialismo cinese, cresciuto parallelamente al suo apparato industriale, finanziato in maniera significativa dai capitali “occidentali” alla ricerca di masse e saggi di profitto molto più allettanti. Il risultato è che gli USA (e anche l'Europa) hanno indebolito il proprio settore industriale, ma senza retroterra manifatturiero forte, come negli anni '50 e '60 del secolo scorso, diventa più complicato esercitare il dominio imperialista economico, politico, militare. Un esempio clamoroso – a parte i disastri in Afghanistan, Iraq, Libia provocati dall'intervento americano – è stata la pandemia, quando i “paesi avanzati” hanno scoperto che non erano in grado di produrre a sufficienza i più elementari dispositivi sanitari, che la “catena del valore” si era troppo allungata e dispersa ai quattro angoli del pianeta, creando grossi problemi all'attività economico-industriale in patria. L'inflazione post-pandemica è dovuta certo alle strozzature nel commercio mondiale - conseguenza di quella dispersione produttiva - anche se un ruolo tutt'altro che secondario l'ha giocato la speculazione finanziaria, la stessa che, senza soluzione di continuità, ha alimentato l'aumento dei prezzi dell'energia, delle materie prime agricole e, a cascata, di tutte la altre merci, in seguito all'invasione dell'Ucraina. L'inflazione rafforzatasi con il conflitto tra i due paesi dell'ex URSS è la prima conseguenza diretta di un'economia condizionata dalla guerra sulla classe lavoratrice, in primo luogo, ma ha messo in difficoltà anche settori di piccola borghesia.
La guerra è stata anche uno schiaffo brutale sulle guance della borghesia europea, ricordandole il suo ruolo subalterno all'imperialismo a stelle e strisce, che l'ha umiliata, togliendole il mercato russo e i suoi idrocarburi a buon mercato, rovesciandole addosso una serie di problemi economici grossi come una casa; per esempio, la crisi dell'auto in Germania e in Francia – ma con ampie ricadute negative su altri paesi, non ultima l'Italia – che sarà pagata dalla classe operaia (riduzioni di salario e licenziamenti già prospettati), è in parte non piccola conseguenza diretta del conflitto. A questo proposito, è utile ricordare che mentre gli Stati Uniti, tramite la NATO, impongono all'Europa di aumentare il suo budget militare, come si è detto, allo stesso tempo saranno ancor più di adesso i principali beneficiari dell'aumento della spesa, visto che oltre il 50% delle spese in armamenti effettuate dai paesi europei finisce proprio nelle tasche dell'apparato militar-industriale a stelle e strisce...
Già da alcuni anni prima della pandemia, certi settori delle borghesie “occidentali”, di fronte all'aggressività commerciale e “geostrategica” della Cina, hanno teorizzato e lentamente cominciato a praticare il reshoring, cioè il rimpatrio di attività industriali. Cosa tutt'altro che facile, ma che, facile o no, sta diventando una scelta sempre più obbligata, per quanto oggettivamente complicata e di portata limitata, almeno nel breve periodo, per irrobustire gli strumenti indispensabili della politica imperialista. Oggi si parla di friend shoring, cioè di delocalizzare le fabbriche – se delocalizzazione deve essere – preferibilmente negli stati confinanti, ma soprattutto, geografia a parte, in quelli affidabili politicamente.
A questa pratica si accompagna il ritorno del protezionismo, con le conseguenti tensioni commerciali che alzano i prezzi delle merci e alimentano il bellicismo: come sempre, l'aumento dei costi delle merci che entrano nei processi produttivi “nazionali” verranno scaricati sul proletariato, il pagatore dei conti della borghesia. E, soprattutto, sempre per quei settori della borghesia, deve essere rafforzato, ancor più di quanto non lo sia già, il ruolo dello stato in quanto capitalista collettivo, in ogni forma, non esclusa quella del capitalismo di stato tradizionale, di gestore diretto di segmenti dell'economia15. Non a caso, il governo tedesco l'estate scorsa prospettava l'acquisto di quote societarie in alcune aziende di armamenti e la partecipazione, accanto al capitale privato, nella fondazione di imprese del settore militare16.
Non a caso il rapporto Draghi sulla competitività17, lucida analisi delle enormi lacune dell'imperialismo europeo, indica nella formazione di un vero stato la via da imboccare con decisione se la borghesia del continente non vuole essere condannata al declino economico e all'irrilevanza politico-militare nel teatro imperialistico mondiale. Se vuole emanciparsi dal ruolo di zerbino degli USA e conquistare un ruolo autonomo, c'è bisogno, dice Draghi, di 800 miliardi all'anno da investire nel sistema economico della UE. Di questa somma enorme una parte rilevante deve andare al settore militare, a scapito, se è necessario, delle risorse destinate al pallido “Green deal”, comunque pensato non tanto per il bene del Pianeta e degli esseri viventi che lo abitano, quanto per sostenere la concorrenza – anche e non da ultimo militare – con la borghesia americana e cinese, massicciamente assistite dai rispettivi stati. Esse ce l'hanno uno stato, la borghesia europea no. Per parafrasare Marx, Draghi sviluppa e sistematizza dal punto di vista della “borghesia in generale” prospettive già presenti in ambienti della borghesia europea, ma gli ostacoli innalzati dalle “molte borghesie” del vecchio continente non sono pochi e l'avvenire è quanto mai incerto: superare l'avidità e l'egoismo connaturati alla sua classe di riferimento è cosa molto complicata e di solito solo un evento o un processo traumatico come la guerra riesce a farlo. Certamente la joint venture creata tra la Rheinmetall – una delle più importanti fabbriche d'armi europee – e la Leonardo va nella direzione auspicata dal rapporto Draghi (e, prima di lui, Letta), ma rimane pur sempre un episodio singolo: altri importanti passaggi necessari per dotare la borghesia europea di un vero apparato statale – tra cui un debito comune o lo sviluppo dell'IA, fondamentale per le guerre del presente e ancor più del futuro – sono ancora di là da venire e non è detto che vengano mai18. E' vero che il 19 novembre 2024, alcuni ministri degli esteri europei (più quello del Regno Unito), riuniti a Varsavia, «Per la prima volta cinque Paesi (Ue) si sono pronunciati a favore di obbligazioni europee per finanziare la Difesa, è una vera novità [allo scopo di] rafforzare la sicurezza e la difesa dell'Europa, utilizzando tutte le leve a nostra disposizione, ivi compreso il potere economico e finanziario dell’Unione Europea, e rafforzando la base industriale europea»19, ma i tempi sono ancora molto lenti, forse troppo lenti per attrezzare la borghesia europea alle tempeste imperialiste presenti e future.
Solo il proletariato cosciente, organizzato, rivoluzionario può salvare il mondo
Ma se la borghesia ha i suoi problemi, incomparabilmente più grossi sono quelli in cui si dibatte il proletariato, sintetizzati dall'irrilevanza politica in cui è sprofondato da oltre quarant'anni.
La nostra pubblicistica abbonda di analisi sui motivi che hanno prodotto questa situazione, dunque qui non ci torniamo sopra, ci basti ricordare che la classe operaia (intesa in senso lato) è passata dalla padella dell'influenza socialdemocratica-stalinista alla brace della perdita della più elementare identità di classe, del fatalismo rinunciatario, del disorientamento, tanto da prestare orecchio anche alle sirene più oscurantiste del nemico di classe, alle espressioni più reazionarie della borghesia, cioè al fascismo in versione XXI secolo, comunemente chiamato sovranismo o populismo. Che sia sotto il controllo della socialdemocrazia vecchia e nuova20 o sotto l'abbaglio accecante del sovranismo, il proletariato, in quanto soggetto sociale di cui in qualche modo le forze politiche borghesi devono tenere conto, per controllarlo, oggi è allo stato di ameba, politicamente parlando, mero oggetto per il capitale. Le rare manifestazioni di vita sul piano della lotta di classe21 - in Italia soprattutto i settori operai con schiacciante presenza di proletariato immigrato – sono intrappolate e capitalizzate, come si è detto, da un sindacalismo “di base” indubbiamente molto più combattivo di quello maggioritario, ma che rimane pur sempre sul terreno del sindacalismo ossia dell'accettazione del capitalismo come orizzonte naturale.
Peggio, spesso il personale politico alla testa di quei sindacati radical-riformisti, a parole dichiara il proprio internazionalismo, di fatto inocula o tollera e fiancheggia ampiamente nei segmenti operai che dirige il nazionalismo, nella variante fascio-religiosa dello jihadismo islamista. Il riferimento è ovviamente alla galassia politica guidata dal SiCobas che non si vergogna, anzi!, di esaltare il massacro del 7 ottobre 2023 come uno dei più luminosi esempi di lotta degli oppressi e degli sfruttati.
Il dramma dei nostri tempi non è solo dato dall'attacco ininterrotto da mezzo secolo contro il proletariato mondiale, dalla catastrofe climatica in movimento – di cui l'ecatombe di Valencia è un tragico esempio - dalla corsa alla guerra generalizzata, ma anche e non da ultimo dall'assenza nella classe di un riferimento politico coerentemente anticapitalista, cioè comunista, che possa contrastare, e attaccare, un sistema sociale sempre più distruttivo. Il compito degli internazionalisti per cercare di invertire l'enorme regressione politica in cui è stata spinta la classe è gigantesco e i comitati NWBCW (No alla guerra imperialista, sì alla guerra di classe) sono un tentativo in tal senso22, che non va in alcun modo a oscurare l'obiettivo per cui è nata la Tendenza Comunista Internazionalista (come qualche critico ha detto): la creazione e lo sviluppo del partito comunista mondiale o Internazionale. Questa non è la bacchetta magica, ma lo strumento politico indispensabile della lotta di classe, se il proletariato non “vuole” continuare a essere oggetto di sfruttamento e di morte per il capitale.
CB
1In www.usb.it, pagina visitata il 27 maggio 2024.
2International Labour Organization-Organisation International du Travail agenzia dell'ONU, www.ilo.org.
3ILO-OIT, Impiego e questioni sociali nel mondo. Tendenze per il 2024 (in francese), pag. 23, scaricato nel gennaio 2024.
4Karl Marx, Salario, prezzo e profitto, Samonà e Savelli, 1970, pagg. 70-71.
5Rapporto Oxfam Italia, 15 gennaio 2024, oxfamitalia.org pag. 6.
6Riccardo Gallo, Quel travaso pazzesco di ricchezza dal lavoro al capitale, Il Sole 24 ore, 22 ottobre 2024.
7Rapporto Oxfam, cit., pag. 4. Il buy back è l'acquisto delle proprie azioni per farne aumentare il valore, fittizio aggiungiamo.
8Beda Romano, De Larosière: _«Crisi del capitalismo sconcertante. C'è un problema morale serio»_, Il Sole 24 ore+, 9 gennaio 2023.
9All'insaputa di Oxfam, si potrebbe dire, per il suo sincero umanitarismo.
10L'immissione di liquidità, cioè denaro, nel sistema tramite l'acquisto di obbligazioni, titolo, non ultimi quelli tossici, dal settore privato.
11Il SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute) usa l'espressione spese militari perché considera non solo quelle per gli armamenti, ma tutte quelle investite nella “difesa”.
12_La spesa militare globale aumenta in un contesto di guerre, crescenti tensioni e insicurezza_, in www.sipri.org, 22 aprile 2024.
13Francesco Vignarca, Lo sporco boom dei soldi armati, il manifesto, 6 gennaio 2024.
14_Economia a mano armata_, dossier di Greenpeace, reperibile sul sito www.sbilanciamoci.info, aprile 2024, pag. 20.
15A questo proposito, vedi leftcom.org
16Isabella Bufacchi, Così Berlino rafforza l'industria militare: Stato nelle aziende di armi, investimenti rapidi, Il Sole 24 ore+, 9 agosto 2024.
17Presentato ai primi di settembre 2024 alla commissione UE.
18E' curioso, ma non troppo, che anche il riformismo auspichi l'intervento massiccio dello stato nell'economia, che dovrebbe attenuare significativamente le disuguaglianze, promuovere la transizione verde ecc., grazie alla tassazione sui ricchi e ai tagli alle spese militari. Insomma, l'utopia riformista rimane un'utopia, il piano Draghi si colloca invece sul terreno della materialità, complessa, delle cose.
19Dichiarazione del ministro degli esteri polacco Sikorski, Il Sole 24 ore, 19 novembre 2024.
20I vecchi partiti comunisti pre-989 erano appunto un miscuglio di stalinismo e di socialdemocrazia.
21In altri paesi, c'è stato un certo risveglio in questi anni, ma il torpore, in linea di massima, rimane.
22Sulla natura dei comitati NWBCW, vedi leftcom.org
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