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Home ›LA BARBARIE INFINITA. LE CAUSE CHE HANNO PORTATO ALLA CRISI DEL MEDIO ORIENTE
Ripubblichiamo in un unico documento due contributi già apparsi sul sito, perché è stato aggiunto un nuovo aggiornamento sulla barbarie infinita in Medio Oriente.
Una delle domande che gli osservatori più accorti si sono posti dopo il tragico 7 ottobre e per tutto il periodo della devastante risposta bellica di Israele era ed è: “come è possibile che i servizi segreti di Tel Aviv non sapessero dell'attacco di Hamas?”. E’ immaginabile che il Mossad, lo Shin Bet ,che passano per essere i servizi segreti più efficienti al mondo, in grado di organizzare omicidi mirati ai capi militari di Hamas e degli esponenti politici degli Hezbollah, siano rimasti completamente all’oscuro di tutto? Come si spiega che questi Servizi siano persino riusciti ad uccidere il capo di Hamas a Teheran con una operazione chirurgica, sapendo in anticipo dove, quando e come fosse possibile portare a compimento una impresa che ha dell’impossibile? Per non parlare di un'efficienza meticolosa che è riuscita a manomettere, prima della consegna, una fornitura di cerca-persone acquistata da Hamas, per sfuggire alla individuazione dei suoi militanti. In particolare il Mossad ha da sempre monitorato, giorno e notte, gli spostamenti militari e politici dei suoi nemici nella Striscia di Gaza come nella Cisgiordania, pronto ad intervenire al minimo sospetto di un attentato suicida, figuriamoci di un attentato di quella portata che, verosimilmente, ha avuto mesi se non almeno un anno di gestazione.
La scioccante risposta è semplice: il Mossad e lo Shin Bet erano perfettamente a conoscenza di un sicuro attacco di Hamas ai danni di Israele. Supposizioni, dietrologia da strapazzo? No, ci sono le prove documentali che, una volta rese pubbliche, sono state minimizzate, ridotte a poco più di vaghe ipotesi infondate per poi metterle nel dimenticatoio, sottraendole alla stampa internazionale impedendone la circolazione.
Secondo una informativa di una nota emittente israeliana, la Channel 12 News, una fonte dello Shin Bet, operava da tempo nel territorio della Striscia di Gaza e, a tempo debito, stese un resoconto in base al quale denunciava che Hamas stava pianificando un attacco di notevole portata agli inizi di ottobre. Queste informazione arrivarono direttamente ad un agente superiore dello Shin Bet che, ovviamente, è rimasto nell’ombra. Ciò un paio di mesi prima dell’ottobre, in cui si specificava anche che l’attentato si sarebbe verificato nella settimana successiva allo Yom Kippur.
A novembre del 2023, l‘autorevole New York Times aveva lanciato la notizia che i responsabili del governo israeliano sapevano perfettamente che Hamas stava organizzando un poderoso attacco e che questa conoscenza risaliva quasi ad un anno prima del fatidico 7 ottobre. Con la stessa autorevolezza, il NYT cita un documento di 40 pagine che, pur non indicando il giorno preciso dell’attentato, specificava nel dettaglio come evitare le strutture difensive di Israele e quale doveva essere la tipologia dell’attacco . A posteriori, si è potuto verificare come in questa informativa si descriveva minuziosamente quello che poi è tragicamente avvenuto. Si parlava di un attacco dal mare con gommoni e barchini, dal cielo con deltaplani e con l’aiuto di droni, via terra con moto leggere e qualche pick up, con l'aggiunta di alcuni camion per portare nella Striscia più prigionieri possibile. Inconfutabile è la informativa del NYT che rivela l’esistenza di una circostanziata documentazione di 40 pagine chiamata “Jerico Wall” venuta in possesso dei Servizi israeliani.
Dieci giorni prima dell’evento, il capo dei Servizi egiziani Abbas Kamel, secondo più voci attendibili mai smentite dall’interessato, avrebbe avvisato i Servizi israeliani che, di lì a pochi giorni, ci sarebbe stato un attacco da parte di militanti di Hamas. Tenuto conto del contrasto tra il governo egiziano e tutte le forme di integralismo, dai “Fratelli musulmani” in giù , nemici per antonomasia di al Sisi, la notizia, che peraltro aveva fatto indisturbata il giro del mondo senza una qualsiasi reazione da parte dei Servizi israeliani, non poteva essere che veritiera. Non solo, ma lo stesso Netanyahu sarebbe stato personalmente informato.
Ovviamente sia lo Shin Bet che Netanyahu si sono ben guardati dal prenderli in considerazione, perché disturbava i loro piani. Il primo ha ammesso di esserne al corrente ma di ritenere che il referente era poco affidabile e che un piano del genere non poteva essere nel bagaglio tecnico-militare di Hamas. per cui hanno lasciato perdere! Il secondo, dopo il 7 di ottobre, ha spudoratamente negato di saperne qualcosa e di non essere mai stato avvisato, per evitare di essere ritenuto responsabile dell’attentato stesso e della cattura di 220 ostaggi. Come dire che se lo Shin Bet avesse preso in giusta considerazione le informative, avrebbe informato Netanyahu e agito preventivamente e tutto quello che è successo dopo non ci sarebbe stato. Ma le cose sono andate volutamente molto diversamente.
E allora perché, pur essendo a conoscenza dell’attacco, Israele ha lasciato fare? Anche in questo caso la risposta è semplice quanto cinicamente tragica. Un simile proditorio attacco contro civili inermi, massacrati come animali da macello, avrebbe presentato su di un piatto d’argento la possibilità a Netanyahu di mettere in atto una azione militare di “legittima” ritorsione già programmata: quella di riorganizzare i rapporti di forza in Medio Oriente a proprio vantaggio, senza che l’opinione pubblica mondiale, Stati Uniti per primi, potessero ostacolarla. Sul piatto d’argento c’era da giocare la vincente carta della “legittima difesa” dei sacri confini nazionali contro la cieca barbarie di Hamas, contro i suoi alleati sciiti, gli Hezbollah libanesi, gli Houthi yemeniti, i gruppi jihadisti presenti in Siria e Iraq. Il tutto in chiave anti-iraniana, perché da sempre nemico numero uno di Israele. Nemico sia per la supremazia politico-economica dell’area, sia perché Teheran ha intensificato, da qualche decennio, i finanziamenti e l'approvvigionamento di armi a tutta la galassia sciita, Hamas compresa. Comunque le rappresaglie erano già cominciate nei mesi precedenti sia da una parte che dall’altra.
Ma la madre di tutte le cause dello spaventoso episodio bellico nella Striscia di Gaza e in Libano rimane l’evento del 7 ottobre.
LE VERE CAUSE DELLA CRISI MEDIO ORIENTALE
Se è vero che da sempre il mondo arabo ha rifiutato l’esistenza dello Stato di Israele e predicato la sua distruzione (rifiuto della risoluzione 181 dell'ONU sulla nascita dello Stato sionista e le 4 guerre arabo-israeliane), è altrettanto vero che in tempi recenti molti Stati arabi ne hanno accettato di fatto e giuridicamente l’esistenza e l’invalicabilità dei suoi confini, primo fra tutti l’Egitto. Il risultato è stato che l’obiettivo della cancellazione di Israele dalla cartina geografica del mondo arabo è rimasto bagaglio politico dei nazionalismi jihadisti, primo fra tutti quello di Hamas. Per correttezza va però detto che pochi anni fa (2018), nel nuovo Statuto, non si accenna più esplicitamente alla distruzione dello Stato di Israele, anche se, nei fatti, la si continua a perseguire. In compenso Netanyahu, alla televisione sui canali nazionali riuniti, dopo il 7 ottobre in piena guerra contro Hamas, cartina alla mano, ha ribadito che Israele (Eretz Israel) va dalla sponda destra del fiume Giordano al mar Mediterraneo, lasciando zero spazio all'ipotesi di due popoli e due Stati o di qualsiasi altro soluzione negoziale. In pratica, i due nazionalismi, quello sionista e quello jihadista, predicano la stessa cosa e si comportano di conseguenza.
Mentre la vigliacca azione contro inermi civili (valenza 10) aveva per Hamas gli scopi di mostrare di essere l’unica forza in grado di punire Israele, e non la corrotta ANP di Abu Mazen, di gratificare lo sponsor iraniano e di sollevare il mondo arabo contro il suo nemico mortale, la tremenda risposta di Israele (valenza 1000) aveva ben altri scopi che andavano oltre la punizione di Hamas. Infatti, ha colpito la popolazione civile, ha allargato il fronte della guerra al Libano e alla Siria. Ha bloccato gli aiuti umanitari ai palestinesi di Gaza, non ha concesso alla Mezza Luna Rossa di soccorrere le vittime. Ha persino colpito volontariamente e ripetutamente le postazioni Unifil, perché non intralcino la progressione del suo disegno e non ci siano testimoni internazionali scomodi. Questo per di arrivare all’obiettivo superiore di un riordino dei rapporti di forza nel Medio Oriente dopo il 7 0ttobre. Riordino sulla base dei punti elencati sotto, non dichiarati pubblicamente ma perseguiti con la più feroce determinazione. Al riguardo, val la pena citare una dichiarazione congiunta di medici volontari americani nella Striscia, secondo la quale i morti tra la popolazione civile supererebbero le 90 mila unità, di cui un terzo di bambini, oggetto, tra l'altro, dei cecchini dell’esercito israeliano (fonte ISPI). .
Ecco i punti in questione:
1) Il primo e più importante punto è quello di creare le condizioni di fatto affinché si arrivi all’esodo (fuga) dei palestinesi da Gaza e dalla Cisgiordania, se non totale, almeno quantitativamente rilevante, e lasciare solo una piccola “riserva indiana” di facile controllo in terra di Palestina. L’auspicato esodo prevederebbe la penisola del Sinai come terra di accoglimento, ma al momento il progetto sembra essere di difficile attuazione per le reticenze dell’Egitto, che teme la presenza dello jihadismo in generale e quello dei Fratelli musulmani in particolare. Al riguardo al Sisi ha rifiutato un congruo pacchetto di miliardi di dollari offerto dal governo israeliano, giudicando il rischio nettamente superiore al presunto vantaggio rappresentato dall’ammontare dell’offerta economica. Per gli abitanti della Cisgiordania continua giornalmente l’erosione di territori e la distruzione delle abitazioni e dei campi coltivati con la violenza omicida dei coloni spalleggiati da guarnigioni dell’esercito. Assieme al Sinai, ci sarebbero, come luogo di “trasferimento”, la Giordania e la Siria che accoglie già centinaia di migliaia di profughi. Come le cose andranno a finire è tutto da verificare, ma il tentativo c'è e il governo israeliano ci sta lavorando pesantemente. Va da sé che un simile disegno, al di là delle effettive possibilità di realizzazione, non viene sbandierato ma nascosto dietro il “diritto di Israele di difendersi”.
2) Il secondo obiettivo, corollario del primo, è quello di annientare completamente tutti gli alleati di Hamas presenti nell’area (hashtag: non facciamo prigionieri). Ovviamente nel mirino ci sono gli Hezbollah palestinesi, al Nusra in Siria e analoghe organizzazioni in Iraq che, per il momento, rimane fuori dalle mire di Israele. Ci sono poi tensioni con il Qatar, che finanzia Hamas e con la Turchia, il cui presidente, in più occasioni, si è espresso in modo pesantissimo nei confronti di Netanyahu, definendolo “il nuovo Hitler”. Questi due ultimi paesi, che pur intendono giocare un ruolo determinante nel Mediterraneo contro le ambizioni egemoniche di Tel Aviv, non fanno parte della lista nera di Israele per il solo motivo che il Qatar è geograficamente lontano e ampliare ulteriormente il ventaglio dei teatri di guerra sarebbe un errore madornale. Con la Turchia non se ne parla nemmeno: uno perché non finanzia Hamas, due perché militarmente è la più forte potenza militare presente nel Mediterraneo dopo gli Usa. Per cui Israele si “limita” a colpire, oltre Hamas, il Libano con intensi bombardamenti su Beirut e sulla valle della Bekaa, ovvero i due maggiori tentacoli della repubblica degli ayatollah che, come si diceva, è il nemico più importante di Israele. Per perseguire tutti questi obiettivi, Netanyahu non solo ha deciso di uccidere Nasrallah il giorno dopo che si era pronunciato a favore di un cessate fuoco per ragioni umanitarie, ma si è spinto fino colpire postazioni ONU posizionate lungo la linea blu che separa il Libano da Israele, con tanto di ferimento di una decina di militari.
3) Corollario del punto 2, colpire duramente l’Iran, distruggere le sue centrali nucleari, anche se l'arricchimento dell’uranio necessario a costruire ordigni atomici è solo al 60%, quando sarebbe necessario che fosse al 90%. Sarebbe una azione preventiva che nelle prospettive di Israele deve essere necessariamente fatta per la sua sicurezza e per mettere definitivamente in ginocchio il governo di Teheran. Il piano prevederebbe anche la distruzione delle strutture petrolifere (pozzi, pipeline ecc.), dei centri militari missilistici e dei depositi di armi. Al momento Tel Aviv ha ricevuto “l’indicazione” da Washington di limitarsi all’annientamento delle strutture militari, ma non di quelle relative all'arricchimento dell’uranio e, tanto meno, di quelle petrolifere. Secondo gli analisti del Pentagono, l'Iran deve essere messo in ginocchio economicamente e militarmente, ma con avvedutezza. Per la costruzione della bomba atomica c’è ancora molto tempo, mentre per il petrolio iraniano, la cui esportazione va per il 90% in Cina, è meglio soprassedere per non svegliare “il cane che dorme” o che fa finta di dormire. L’attuale Amministrazione americana, come quelle a venire, sanno che i conti con la Cina si dovranno fare e saranno conti pesanti, da mettere in crisi sia il mondo orientale che quello occidentale. Ma vogliono essere loro a stabilire tempi e modi, per cui, al momento, tutti fermi aspettano gli sviluppi della crisi medio-orientale e il preannunciato attacco israeliano all’Iran, tenendo in debita considerazione il fatto che, pur non intervenendo in prima persona nel conflitto tra Hamas-Libano e Israele, Russia, Cina e Turchia e, con una valenza più bassa, anche Qatar, India e Brasile si sono pronunciati a favore dei palestinesi. Le bocce sono ferme, ma la partita deve ancora cominciare.
4) Non da ultimo c'è l’annoso problema del gas-petrolio, emerso a partire dal 1990. Una questione vitale sia per i palestinesi che per Israele e consiste nel possesso, gestione e commercializzazione dei bacini gas-petroliferi offshore a 36 chilometri dalle coste della Striscia di Gaza. I due giacimenti che, per comodità di discorso, chiameremo Marin 1 e Marin 2, hanno riserve accertate per 35 miliardi di metri cubi di gas e con una capacità tecnica di estrazione di 1,5 miliardi di metri cubi l’anno ma, pur appartenendo ai territori palestinesi, Gaza non ne può usufruire per il veto di Israele. In pratica, i giacimenti sono rimasti parzialmente inutilizzati sino al 2016, quando la gestione è stata presa da una company terza, la Shell, che ha resistito sino al 2018 per poi ritirarsi per i contrasti con Israele. Stando alla ricostruzione della vertenza, secondo gli osservatori arabi, tra Hamas e Israele, prima del 7 ottobre, ci sarebbero stati contatti per tentare di addivenire ad una soluzione della questione. Anche in questo caso l’obiettivo non è stato raggiunto per le pretese e i veti israeliani. Tenuto conto dell’importanza economica e strategica dei due giacimenti, non è assolutamente escluso che la questione gas-petrolio abbia avuto un ruolo sia nell’attacco del 7 ottobre, sia nella violenta risposta di Israele. Due mesi prima dell’ottobre '23, Hamas aveva dichiarato che “il gas di Gaza appartiene a tutti i palestinesi di Gaza (notare l’esclusione della ANP di Abu Mazen) e solo loro hanno il diritto di investirvi….L’occupazione israeliana non può imporre le sue richieste e restrizioni alle nostre capacità e alla nostra ricchezza naturale” (fonte ISPI). Dello stesso tenore sono state le dichiarazioni di Hezbollah libanese (fonte il notiziario The Cradler), che ha “minacciato Israele di guerra se al Libano non fosse stato permesso di sfruttare la sua quota del giacimento di gas di Karish” posto ai confini con il territorio israeliano. Certamente, sono valsi altri problemi a scatenare la guerra in Medio oriente, problemi che abbiamo tentato di individuare, ma altrettanto certamente il tragico episodio del 7 ottobre e la violentissima reazione di Tel Aviv hanno avuto anche nella questione energetica una loro valida ragione d’essere. Entrare in possesso esclusivo di questi giacimenti è senza dubbio un vantaggio inestimabile.
Tutto questo in attesa dell’attacco all’Iran che arriverà sicuramente e che dovrebbe scattare entro in 5 novembre, ovvero prima delle elezioni americane. Data non simbolica ma strategica. Biden ha promesso di togliere gli aiuti militari a Tel Aviv se non consentirà alle autorità sanitarie e di soccorso alimentare, ferme dal primo ottobre, di entrare nella Striscia, se non cesserà di colpire le strutture ONU, se non la smetterà di perseguire la totale distruzione di Gaza e del Libano del sud. Anche se le minacce di Biden, fino a ieri, si sono rivelate fasulle e prive di deterrenza, dopo la lunga telefonata con Biden Netanyahu ha dovuto accettare che i bombardamenti sull’Iran devono riguardare solo le strutture militari e non quelle nucleari e petrolifere. Nelle speranze di Netanyahu c’è l’aspettativa che il prossimo presidente possa essere, qualunque esso sia, ancora più accondiscendente nei confronti dei progetti di Tel Aviv. Nel frattempo, l’esercito israeliano continua la sua opera di totale distruzione per creare uno “status quo” dal quale, poi, sarebbe difficile tornare indietro per tutti gli attori del Medio oriente, direttamente o indirettamente coinvolti, Usa compresi. Nemmeno la morte di Sinwar, dopo quelle di Haniyeh e Nasrallah fermerà Israele perché l’obiettivo di fondo resta la pulizia etnica, l’eliminazione dei palestinesi dalla Palestina e poi l’Iran, favorendo un cambiamento di regime meno ostile alle mire israeliane in terra di Palestina. Persino l’Human rights Watch, in un recente dossier di 154 cartelle ha denunciato Israele di crimini di guerra contro Gaza. Secondo le accuse il governo di Tel Aviv avrebbe il piano di “creare zone cuscinetto e corridoi di sicurezza” mediante “uno sfollamento deliberato e massiccio” dei civili palestinesi. In altri termini “crimini di guerra e pulizia etnica”. Non a caso, e per la prima volta, un piccolo contingente di soldati israeliani (130) ha ufficialmente dichiarato di non voler più combattere per il loro governo perché ha ritenuto che “questa guerra non è più una guerra di difesa ma un programmato massacro di civili”. Poca cosa, anche se non imboccherà mai la strada del disfattismo rivoluzionario, è un segnale importante contro la guerra e la sua infinita barbarie che dovrebbe essere imitato da tutti i soldati e proletari chiamati a combattere per cause e interessi che non sono i loro. Nella fattispecie l’esempio vale per i soldati di Israele ma anche per quelli palestinesi, per quelli russi e quelli ucraini. Non spararsi gli uni contro gli altri, ma rivolgere le armi contro quelli che li mandano al massacro.
fd
16/10/24
Post scriptum
Come promesso, e non poteva essere altrimenti, nella notte del 25 ottobre Israele ha attaccato l’Iran. L’attacco ha colpito il sistema di difesa aerea iraniano per consentire agli F 16, “gentilmente” forniti dall’amministrazione Biden, di avere la opportunità tattica di agire indisturbati e di bombardare le postazioni militari, le fabbriche di droni e di missili che in precedenza sono stati lanciati sui cieli israeliani.(1 ottobre). Tre ore di bombardamenti, quattro morti tra i Pasdaran, senza toccare le centrali nucleari né le strutture petrolifere, come da accordi (imposizioni) con gli Usa, che Netanyahu ha dovuto accettare a malincuore. L’operazione che era stata concordata con gli Usa e preannunciata, doveva essere solo un monito per la Repubblica degli ayatollah, senza stimolare una risposta che avrebbe creato una situazione di tensione bellica, non soltanto in tutta l’area, perché avrebbe potuto innescare un episodio bellico di più vasta portata. Il possibile rischio sarebbe stato quello di una reazione, già messa in preventivo dal governo di Teheran, di colpire le strutture petrolifere dei maggiori paesi produttori petrolio dell’area. Paesi come l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, il Kuwait, il Bahrein e gli stessi giacimenti israeliani del Mediterraneo. Lo stesso Sean Savett, portavoce del Consiglio per la sicurezza americana, ha riferito che nessun militare americano ha partecipato all'operazione, dimenticandosi di citare l’invio degli F 16 arrivati in zona dalla Germania, la copertura satellitare per individuare gli obiettivi, i finanziamenti all’esercito di Tel Aviv e l’impianto difensivo di missili anti-missili che tanto hanno giovato alla difesa di Israele. Dimenticanza a parte, gli Usa hanno voluto giocare una partita a rischio zero, imponendo all'Iran e ai suoi alleati un avvertimento, ma senza andare oltre. Stati Uniti sul piede di pace, dunque? Manco per sogno. L’America era in piena emergenza elettorale, il futuro politico era incerto e le necessità strategiche sono orientate più verso l’Indo-Pacifico, verso la sempre maggiore pressione cinese in termini di concorrenza economica e finanziaria, e verso la latente crisi di Taiwan. Per cui, tempo al tempo. Da Washington si aspettano le reazioni, anche solo diplomatiche, di Cina e Russia, poi si vedrà.
Nell’immediato, la Russia si è limitata a condannare l’operazione israeliana, ha fatto appello ai membri del BRICS affinché facciano sentire la propria voce contro Israele, concludendo che, se ci fosse un seguito con attacchi alle basi nucleari, Mosca aiuterebbe Teheran a colpire le strutture nucleari israeliane di Dimona. La repubblica degli ayatollah ha inizialmente fatto sapere che i danni subiti sono minimi e che se l’attacco israeliano finisse lì non ci sarebbero risposte ma che, in caso contrario, ci sarebbe il rischio di un conflitto aperto. Ali Khamenei sta solo aspettando che la Cina si pronunci, sia per questioni di alleanza che economiche, infatti il petrolio iraniano per il 95% finisce nella vorace economia cinese e da quella sponda aspetta risposte definitive prima di eventualmente muoversi. Dopo che Israele ha continuato a bombardare quello che resta della Striscia e il libano, distruggendo persino alcune installazioni dell’UNRWRA (Agenzia dell’ONU che si interessa dell’aiuto ai profughi palestinesi), Khamenei ha alzato il tono minacciando apertamente Israele. L’Arabia Saudita, in bilico tra il Patto di Abramo e la sua recente entrata nel gruppo dei BRICS assieme all’Iran, si è espressa contro Israele: “L’aggressione israeliana alla Repubblica Islamica d’Iran è una violazione della sua sovranità e una violazione delle leggi e delle norme internazionali”, senza aggiungere altro. Allo stesso modo si è espresso l'Oman. La Cina per ora tace. Tutto sembrerebbe che Pechino sia orientato verso una, seppur difficile, soluzione negoziale, ma potrebbe essere la quiete prima della tempesta. Infatti sia Netanyahu che Khamenei, mentre si svolgono a Doha i tentativi per un cessate il fuoco a Gaza e si tratta per la restituzione degli ostaggi, si scambiano feroci messaggi di ostilità.
Mentre il mondo attendeva l’attacco israeliano contro l'Iran, Pechino che ha ben altri problemi da affrontare, ha duramente condannato la vendita a Taiwan di missili a lunga gittata (terra-aria) da parte americana. Secondo le dichiarazioni cinesi fornite dal Ministero degli Affari Esteri, l’atto di Washington non solo pregiudica gravemente i rapporti tra le due potenze ma, addirittura, creerebbe le condizioni per l’apertura di una crisi che potrebbe portare alla rottura della pace in quell'area. La nota cinese continua ammonendo che la vendita di sistemi missilistici “viola gravemente la sovranità e gli interessi di sicurezza della Cina, danneggia gravemente le relazioni Cina-Usa e mette in pericolo la pace e la stabilità di tutta l’area”. Non è una dichiarazione di guerra, ma le denunce e le minacce sono palesi e pesanti. In aggiunta, è da mesi che le due flotte militari pattugliano il perimetro dell’isola come a sottolineare che sulla “questione Taiwan” nessuno dei due è disposto a fare un passo indietro. Al riguardo, la Cina lavora alacremente alla costruzione di un sofisticato sistema radar su di una barriera corallina nel Mar cinese per contrastare gli stealth americani, che sono dei caccia invisibili ai radar normali. Secondo il centro studi inglese, Il Royal Institute of International Affaire Chatham Hause, Pechino starebbe per completarne la costruzione nell’isola di Triton, nella parte sud-occidentale dello strategico arcipelago delle isole Paracelso. Questa rete di radar dall’importante valore strategico e militare, contemporaneamente, fungerebbe anche da base per il lancio di missili di ultima generazione. Secondo l’Agenzia Reuters le portaerei cinesi Liaoning e Shandong hanno fatto e continuano a fare esercitazioni in doppia formazione nel Mar cinese meridionale a partire dai primi di novembre in preparazione di eventuali azioni militarmente più complesse.
La vittoria di Trump alle presidenziali con la maggioranza repubblicana al Senato e alla Camera Bassa certamente non migliorerà le tensioni in atto ma rischia di fungere da acceleratore, anche se Pechino si è espressa con un ambiguo “adesso coesistenza pacifica” in palese contrasto con le dichiarazioni precedenti. Mentre Netanyahu si è immediatamente congratulato per la schiacciante vittoria che consente "un nuovo inizio per l'America e un impegno potente" ovviamente a favore della migliore collaborazione tra i due governi. In termini più espliciti, l’enunciazione è che Trump non ostacoli il devastante compimento del suo piano in terra di Palestina ma lo appoggi senza gli allentati freni della vecchia amministrazione che, pur dando consistente appoggio a Israele ha spinto per arginare la violentissima reazione di Tel Aviv contro tutto e tutti facendo stragi di civili. Valga come esempio la tremenda continuazione dei bombardamenti su Gaza e in Libano per poi concentrasi, con la nuova Amministrazione, sull’Iran come da buoni alleati, per costruire un nuovo ordine in Medio oriente che vedrebbe Israele quale cardine centrale. In un simile progetto non c’è alcun spazio per la fantomatica ipotesi di due popoli e due stati. D’altra parte le pretese israeliane non cadono dal cielo. Nella precedente Amministrazione trumpiana, più precisamente nel 2019, il genero di Trump, Kushner, factotum per la politica estera, aveva stabilito un accordo con Israele affinché si considerassero, a livello giuridico internazionale, i territori occupati e le profonde intrusioni dei coloni nella Cisgiordania, come legali a tutti gli effetti. E che, alla prima occasione, il 30% di quello che resta del territorio cisgiordano cadesse nelle mani di Israele. L’occasione è arrivata e il parlamento israeliano sta già pianificando il progetto approvando una legge in base alla quale si passerebbe alla deportazione di individui, gruppi e famiglie che “ esprimono appoggio, sostegno o identificazione con l’atto terroristico di Hamas”. Praticamente l'avviso riguarda tutti gli abitanti di Gaza, quelli della Cisgiordania buona parte di quelli che abitano in Israele e “sono cittadini israeliani”, compresi gli abitanti di Gerusalemme est. La deportazione in luoghi da destinarsi va da un minimo di 7 anni ad un massimo di 20. Dove? Nel deserto del Negev attraverso l’installazione di enormi campi profughi o, meglio ancora, costretti dopo la detenzione, a rifugiarsi in Giordania, Egitto o Siria a seconda delle disponibilità di accoglienza dei suddetti paesi.
Trump già in campagna elettorale si era espresso in termini perentori sulla sua capacità di favorire un processo di pace sui tre focolai, due di guerra guerreggiata e uno di gravida tensione. Il primo quello russo- ucraino si risolverebbe secondo il “Trump pensiero” allentando gli aiuti militari all’Ucraina mettendola in difficoltà e, quindi renderla più disponibile ad un accordo. Alla Russia verrebbero concessi i territori russofoni con la promessa che per 20 anni l’Ucraina non entrerà nella NATO (una delle principali ragioni della guerra con l’Ucraina). In aggiunta, senza dirlo apertamente, Zelenskyj verrebbe sostituito nella fase delle trattative perché inadeguato sul piano della negoziazione. Secondo questa strategia l’Ucraina rimarrebbe comunque nell’orbita americana, la Russia verrebbe messa fuori gioco accontentandola sul piano della conquista di alcuni territori e Trump si costruirebbe l’immagine del grande statista che domina il mondo, pacificandolo e rilanciando l’imperialismo americano ai vertici internazionali. Ovviamente è tutto da verificare perché un conto sono le dichiarazioni, altro è la loro fattibilità, sempre ammesso che le proposte di pace non siano un’esca avvelenata per la Russia e per l’alleata Cina.
Per il Medio oriente la “pax americana” di Trump prevede, come abbiamo visto, la concessione ad Israele di cancellare il problema palestinese eliminando i palestinesi dalla Palestina. A supporto di questa strategia ci sarà il ripescaggio del Patto di Abramo, voluto a suo tempo da Trump, tra Usa, Israele ed Emirati Arabi Uniti, stipulato il 13 agosto 2020, con la speranza di inserire anche l’Egitto e l’Arabia saudita, ovvero i paesi arabi più “moderati” che già a suo tempo avevano accettato di sottoscrivere il riconoscimento dello stato di Israele in chiave anti sciita, ovvero contro l’Iran, altro baluardo imperialistico nel Medio oriente e alleato dei due imperialismi cinese e russo, rispettivamente nemici n° 1 e 2 degli Usa.
Appare immediatamente l’obiettiva difficoltà di portare a compimento questo ambizioso progetto perché: a) La Russia potrebbe anche accettare una pace di questo genere, non tanto o non solo per il possesso dei territori russofoni, quanto per la mendace promessa che l’Ucraina non entrerebbe nella NATO prima di venti anni, ma resterebbe comunque in stretta alleanza con la Cina, un concorrente imperialistico di primo piano che agisce di fatto contro quello americano. b) II nuovo scenario mediorientale è molto più complesso delle aspettative americane. Il Patto di Abramo che prevederebbe l’ammissione di Arabia Saudita e dell’Egitto si scontra con la presenza di entrambi nella eterogenea formazione dei BRICS. In più al Sisi teme il piano israeliano-americano che, prevedendo l'allontanamento dei palestinesi dalla Palestina, costringerebbe parte di essi ad accalcarsi alle sue frontiere, consentendo così ai Jihadisti (fratelli musulmani) di rientrare in Egitto e di continuare ad essere quella spina nel fianco del suo governo di cui, con forza brutale, si era liberato sin dagli inizi del suo insediamento al “soglio” presidenziale. c) Per il nuovo ministro degli Esteri israeliano Saar la creazione di uno Stato palestinese "non è un'opzione realistica" nei potenziali scenari di pace, cancellando di fatto tutte le ipocrite opzioni della sua nascita. Il piano di Israele dopo il 7 ottobre era per cancellare anche quello che rimaneva della Autonomia palestinese.
Al di là di questi aspetti sulle possibilità reali di una concreta realizzazione della “pax americana”, importanti si, ma che fanno parte più di una falsa narrazione pacifista di Trump che di una effettiva convinzione strategica, rimane il nodo centrale della questione: la Cina. Pechino come più volte ribadito ha sbandierato ai quattro venti che il suo programma imperialistico prevede di diventare entro il “35” il primo paese al mondo per produzione e distribuzione di merci, anche tecnologicamente avanzate, superando la concorrenza americana. In accordo con molti dei paesi BRICS si propone di intaccare, il più pesantemente possibile, il ruolo dominante del dollaro, togliendo così agli Usa uno dei puntelli fondamentali su cui regge l’imperialismo americano. Il tutto senza dimenticare che già è in atto una “guerra” su Taiwan e sulla supremazia in tutto l'Indo-pacifico. E’ lì che si giocherà la partita più importante, anche se i focolai di guerra in atto potrebbero fungere da innesto strumentale. Trump ha deciso di nominare il senatore della Florida Marco Rubio segretario di Stato. L'incoronazione di Rubio arriva a poche ore dalle voci sulla nomina di Mike Waltz a Consigliere per la Sicurezza nazionale. Le due nomine, come le successive, mostrano i primi segni di un cambiamento repentino nella politica estera degli Usa, in particolare nei confronti della temuta Cina. Molti pensano infatti che questo cambio di rotta porterà Washington a deteriorare ulteriormente i rapporti con Pechino e a rivedere le proprie posizioni su Russia, Medio Oriente e Iran.
Questo ci riserva il capitalismo mondiale:crisi strutturale, guerre permanenti, barbarie continue, economia di guerra con ricadute sul mondo del lavoro, tagli del welfare, impoverimento delle masse proletarie e morti a centinaia di migliaia.
E’ giunta l’ora di rompere questa infame spirale di morte e di distruzione. E’ pur vero che tutto questo crea le condizioni, al capitale vincente, di distruggere per ricostruire dando fiato agli asfittici profitti che la crisi impone allo sviluppo del capitalismo moderno in decadenza. Quindi, per il capitale, che guerra sia ma che venga combattuta non dai suoi manutengoli ma dai proletari, gli uni contro gli altri, a difesa degli interessi imperialistici delle varie borghesie nazionali sotto i vessilli del solito profitto che arricchisce pochi, che sfrutta molti e che è il motore primo delle crisi e delle guerre che ne derivano, comunque giustificate. E’ il primo responsabile di decine di migliaia di morti, per adesso. Ma è altrettanto vero che l’unico esercito che ha il diritto di combattere contro questo inumano sistema economico e sociale non può che essere quello formato dai proletari di tutto il mondo, dai diseredati, dagli ultimi che la voracità del capitalismo ha ricacciato nel più basso degli anelli di questo girone infernale. E’ un esercito che le armi le deve rivolgere contro le proprie borghesie, contro un sistema economico basato sullo sfruttamento, per un mondo che metta in condizione l’umanità di vivere al meglio e non di morire di “fuoco amico”.
“proletari di tutti i paesi unitevi” per fare la guerra alla guerra. Slogan mai attuale come in questo momento.
No alla guerra imperialista sì alla lotta di classe.
FD
10/11/24
APPENDICE
A riprova delle trame dell’imperialismo, gli USA hanno posto l’ennesimo veto su una risoluzione delle Nazioni Unite che imponeva il cessate il fuoco immediato nella Striscia di Gaza, perché la risoluzione non prevedeva l'immediato rilascio degli ostaggi israeliani ancora detenuti da Hamas come condizione preliminare.
15 Paesi facenti parte del Consiglio di sicurezza dell’ONU hanno votato a favore della proposta che richiedeva "un cessate il fuoco immediato, incondizionato e permanente che deve essere rispettato da tutte le parti e ribadisce inoltre la richiesta di rilascio immediato e incondizionato di tutti gli ostaggi".Per Washington quanto citato nel testo non sarebbe stato sufficiente, in quanto la sua formulazione suggerirebbe che il rilascio degli ostaggi israeliani sarebbe avvenuto solo dopo l’inizio del cessate il fuoco.
Gli Stati Uniti sono stati, così, l'unico Paese a opporsi al testo e in quanto uno dei cinque membri permanenti con potere di veto - insieme a Russia, Cina, Gran Bretagna e Francia - hanno il potere di bloccare la decisione. E’ la quarta volta che gli Usa utilizzano il loro potere di veto per bloccare una risoluzione del Consiglio di Sicurezza riguardante la situazione di Gaza. Il vice ambasciatore statunitense alle Nazioni Unite, Robert Wood, ha dichiarato il 20/24 che il suo paese sosterrà solo una risoluzione che chieda esplicitamente il rilascio immediato degli ostaggi. Ha aggiunto che "Ci sono ancora sette cittadini americani nelle mani di Hamas. Non li dimenticheremo. Da parte nostra, continueremo a perseguire una soluzione diplomatica che porti pace, sicurezza e libertà ai palestinesi di Gaza", ha concluso. Falsità assurte al rango di dichiarazioni ufficiali che non scalfiscono il ruolo dell’imperialismo Usa a fianco dell’alleato Israele; si parla di tregua ma si nega nei fatti la sua praticabilità, si parla di pace ma si continua a sostenere la guerra.
Quasi contemporaneamente la Corte Penale Internazionale ha emesso mandati di cattura per il premier israeliano Benjamin Netanyahu e l'ex ministro della Difesa Yoav Gallant nell'ambito della guerra a Gaza. La CPI ha emesso mandati di arresto per Netanyahu e Gallant "per crimini contro l'umanità e crimini di guerra commessi dal 8 ottobre 2023 fino ad almeno il 20 maggio 2024, giorno in cui la Procura ha depositato le domande di mandato di arresto", così riferisce una sua nota denunciando "un attacco diffuso e sistematico contro la popolazione civile di Gaza". (ANSA).
E’ questa barbarie che accomuna Russia, Ucraina, Stati Uniti, Iran, l’arcipelago dello jihadismo islamista e Israele che deve essere combattuta. Ma non con fantomatiche, quanto impraticabili “soluzioni” di pace o di sentenze di una Corte Penale Internazionale, che non verranno mai messe in pratica, ma con la lotta di classe, la sola che, levandosi su scala internazionale, come internazionale è la crisi del capitalismo, potrebbe rovesciare l’inerzia di questo corso verso la guerra generalizzata.
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