La dinastia Houthi, come Hamas, nelle mani dell'imperialismo internazionale

Molti analisti provenienti da varie sponde politiche, non escluse quelle di una presunta sinistra, ritengono che le operazioni militari nel Mar Rosso degli huthi e la loro postura politica nei confronti del governo ufficiale dello Yemen, contro il quale ancora stanno combattendo, siano al contempo una necessità tutta interna della guerra civile che stanno sostenendo, ma anche un duro confronto contro l’Arabia saudita che difende il governo centrale, e un esempio di lotta contro l’arroganza dell’imperialismo israeliano. Quindi, in una facile sintesi, si arriva ad una sorta di appoggio “all’autodeterminazione” del popolo del Nord dello Yemen al pari del sostegno al presunto antimperialismo jihadista di Hamas.

E’ ovvio che ognuno ha il diritto di pensarla come vuole e che l’oggetto della sua analisi possa avere la eco più vasta possibile (pro domo sua), ma è altrettanto legittimo denunciare la falsità di simili analisi. Analisi false e parziali sia sul piano della speculazione politica, sia su quello della realtà all’interno della quale la guerra civile in corso e le operazioni militari attorno a Bab al Mandeb, all’ingresso del Mar Rosso, si muovono, ma anche nel fingere di non vedere come tutto ciò si sviluppi in una nube tossica di guerra imperialista da qualunque parte la si guardi e di cui Hamas e gli huthi altro non sono che delle semplici pedine.

Certamente il conflitto interno che gli huthi hanno ingaggiato contro il governo di Mansur Hadi, sostenuto sin dall’inizio dall'Arabia Saudita, a partire dal 2015 ha avuto, ed ha ancora, un peso non indifferente per i ribelli. Gli interessi interni e regionali che, come al solito, vengono avvolti da un velo di religiosità, huthi contro wahabiti, sunniti contro sciiti, sunniti contro sunniti, nascondono la lotta per la leadership nel mondo musulmano. Interessi i cui veri connotati, una volta strappato il velo religioso, si palesano per quello che sono in realtà e vertono su questioni quali il petrolio, il gas e altre materie prime strategiche per l’economia mondiale, nonché il controllo delle vie di commercializzazione delle stesse, degli stretti, dei porti internazionali e, non da ultimo, l’uso indiscriminato della forza militare o della pressione politica a seconda delle migliori strategie da calare con precisione nella specificità dei luoghi geografici e del momento politico che vivono. L'imperialismo non ha confini se non quelli imposti da un altro imperialismo.

La stessa retorica del governo nord yemenita di scendere in campo anche per la difesa del popolo palestinese contro il “genocidio” di Gaza perpetrato da Netanyahu oscura una serie di piccoli interessi di cui gli huthi non possono fare a meno, come la lotta contro il governo di Mansur Hadi, lo scontro con Riad, la necessità di avere un riconoscimento giuridico internazionale dopo anni di guerra civile. Anche se il fattore dominante è che l'esperienza di una piccola guerra civile in un piccolo paese, povero e apparentemente ai margini geografici e politici del sud della penisola arabica, in una situazione di crisi strutturale del capitalismo mondiale, finisce per essere inglobato, strumentalizzato in un confronto bellico internazionale ben più ampio con la presenza diretta o indiretta delle grandi potenze imperialistiche.

Dalle maggiori priorità iniziali, quali la resistenza alla strapotere saudita nella penisola arabica, allo scontro armato con il governo lealista di Aden, alla ingerenza degli Emirati che ambiscono ad avere il controllo dello strategico Bab el Mandeb, alla Turchia che finanzia il partito lealista Islah contro di loro per ricavarsi un ruolo di primo piano nella intricata vicenda sunnita, gli huthi si sono trovati coinvolti in uno scenario politico e di conflitto aperto che li ha costretti a fare della guerra uno dei cardini della loro sopravvivenza, sia economica che politica. A tal fine hanno reclutato circa 25 mila combattenti nelle loro brigate Tufan al Aqsa da affiancare alla struttura militare regolari Ansar Allah. Ufficialmente il reclutamento avrebbe dovuto avere lo scopo di allargare i ranghi militari per combattere contro il nemico interno sostenuto dall'Arabia saudita, contro quello esterno Israele, per liberare i territori occupati e fare di Gaza le Termopili dello jihadismo. Uno dei massimi esponenti degli huthi, a sostegno di questo progetto, il generale Abd al Malik al huthi, ha chiesto a tutti i paesi confinanti e non, di aprire i confini per dare libera circolazione ai combattenti jihadisti, presentandoli come i veri difensori del popolo palestinese con i fatti e non con le chiacchiere. In realtà nessuno di questi combattenti è andato a Gaza, nessun paese limitrofo, Oman ed Emirati per primi, ha aperto le proprie frontiere, come era prevedibile e come ben sapeva lo stesso Malik al Huthi. Infatti il vero scopo del governo di Sana’a era quello di esibire una struttura militare a sostegno di quella politica nazionale non ancora riconosciuta a livello giuridico internazionale. In altri termini, intimidire Riad o, quantomeno, far capire ai wahabiti che gli zayditi dello Yemen del nord non sarebbero stati un facile boccone e che con loro si sarebbero dovuti fare i conti per uno “ status” adeguato nella penisola arabica.

Ovviamente tutto questo ha un prezzo, il prezzo che l’imperialismo fa pagare a questi nazionalismi fuori tempo, in termini di condizionamento politico, di adesione alle sue strategie fino a farli combattere per procura là dove è necessario che lo facciano in nome dei suoi interessi di dimensioni internazionali, che strumentalizzano quelli nazionali pur fingendo di patrocinarli.

L’esempio più evidente è quello fornito dalla “alleanza” tra gli sciiti zayditi huthi e gli ayatollah iraniani ma, per onor di cronaca, c’è anche quello religiosamente spurio tra l’Iran sciita e Hamas sunnita.

Per quanto riguarda la prima e più importante alleanza: l’appoggio politico, militare e finanziario che Teheran dà da anni a Sana’a, ha un fine ben preciso. È già a partire dal 2009 (scontro contro il governo centrale) che gli huthi vengono riforniti di soldi e di armi dai Pasdaran e dagli Hezbollah. Poi nel 2015, dopo la conquista di Sana’a da parte di Abd Rabbin Mansur Hadi, Teheran inizia a fornire armi leggere da guerriglia, armi pesanti come mortai e cannoni trasportabili con pikup, missili antinave, missili balistici e droni da combattimento, con in aggiunta la presenza sul territorio yemenita di tecnici militari, che hanno installato fabbriche in grado di produrre in loco i droni da ricognizione e da combattimento.

Tutto questo in cambio di una sostanziale modificazione di strategia da parte degli huthi. Non più o non solo lotta contro i sauditi e il governo dello Yemen del Sud, ma intensificazione di una serie di minacce militari a Israele, e un poderoso disturbo agli Usa e ai suoi alleati occidentali all'ingresso del Mar Rosso. Ovvero rendere impraticabile lo stretto di Bab el Mandeb, ufficialmente alle sole navi che transitano per arrivare al porto di Eilat in Israele, interrompere l’unico passaggio per il Mediterraneo, costringendo tutto il traffico navale occidentale a circumnavigare l'intero continente africano.

Da Bab el Mandeb, Mar rosso, canale di Suez passa(va) più del 40% di tutti i traffici navali, il 15 % del traffico di petrolio e di gas liquefatto. Il che ha messo in grossa difficoltà molte navi cargo, petroliere, compagnie di navigazione e gli importanti interessi strategici americani su Gibuti già da tempo in concorrenza con la Cina. In aggiunta, per avere ben chiaro il quadro imperialistico che coinvolge il tutto, gli huthi hanno concesso il transito verso il Mar rosso solo alle navi russe e cinesi, consolidando la catena imperialistica che va da Hamas, Hezbollah, alawiti siriani, sciiti iracheni, Russia, Corea del nord alla Cina che, negli ultimi tempi, ha deciso di aiutare il governo di Sana’a con finanziamenti e armi in chiave anti americana. E come valore aggiunto, Pechino si è dichiarata politicamente interessata alla difesa delle isole nel Mar rosso quali Kamaran, Ras Dougls e Taqfas che gli accordi di Stoccolma del 2018 avevano assegnato a Sana’a, ma che il governo ufficiale di Aden ha sempre messo in discussione. Le isole in questione, oltre all’importanza strategica militare, hanno una funzione di sentinella per i traffici commerciali e per i giacimenti petroliferi offshore. Mentre quelli nella vicina area terrestre di Marib, di al Jawf e Massil, lontani dalle coste del Mar rosso, vengono presidiati dalla forze militari di Ansar Allah, foraggiate militarmente dall’Iran, e gestiti, con consulenza tecnica, dalle Compagnie petrolifere cinesi. I pozzi sono rimasti inutilizzati dal 2011 dopo il colpo di stato contro il presidente Saleh, poi riaperti parzialmente nel 2019 con un flusso di 55 mila barili al giorno di cui, non a caso, 30mila esportati in Cina e, una volta riaperti definitivamente e operanti a pieno regime, con l’aiuto cinese possono diventare interessanti sia per il grande imperialismo di Pechino che per il piccolo governo di Sana’a, che di questo petrolio ha bisogno come l’acqua. Anche se l’interesse cinese va oltre la questione petrolifera quantitativamente marginale, c’è in gioco il controllo dello stretto e la speranza di avere a disposizione i porti yemeniti nel Mar rosso per dare corpo e sostanza alla via della seta che del sud della penisola arabica farebbe un importante hub delle sue variegate esportazioni. Va da sé che il rapporto tra Cina e Yemen del nord è a tutto vantaggio della prima che usufruisce del secondo come fattore dipendente della propria imponente dimensione imperialistica. In questa prospettiva va considerato però un aspetto che potrebbe incrinare il sodalizio tra gli huthi e la Cina. Le ambizioni di Pechino per lo stretto sono importanti, enormi a tal punto da costringere il paese di Xi a stabilire consistenti rapporti con l’A. Saudita . Già alla fine del “22” Xi Jinping ha fatto visita a bin Salman dopo che i rapporti tra i Saud e il governo americano si erano allentati. Riad non aveva digerito che gli Usa fossero rimasti indifferenti ai bombardamenti di droni huthi agli impianti petroliferi e alle raffinerie sauditi. In aggiunta c’è stata la ruggine tra bin Salman e Biden sul prezzo del greggio allo scoppio della guerra di Ucraina, senza dimenticare che, dopo la raggiunta autosufficienza energetica degli Usa ( oggi sono i primi produttori ed esportatori di petrolio e di gas), tra i due paesi si è prodotta una frattura anche sulla questione dei rapporti di forza nel campo energetico essendo diventati concorrenti quando sino a qualche hanno fa l’A. Saudita era di il primo fornitore di petrolio per gli Stati Uniti. Il Summit Tra Arabia e Cina ha stabilito accordi per 30 miliardi di dollari per infrastrutture, investimenti tecnologici nel settore energetico e militare. Rapporti destinati a continuare nel tempo e nei reciproci interessi. Anche se, va detto, in questa fase le alleanze strumentali vanno e vengono a seconda delle convenienze contingenti o di obiettivi strategici di più lungo periodo.

Non va dimenticato inoltre che gli huthi hanno lanciato pesanti attacchi al porto israeliano di Eilat, e che già nel settembre 2019 avevano bersagliato persino gli impianti petroliferi sauditi sotto la spinta della repubblica degli ayatollah. Per cui una stretta vigilanza su di una possibile ritorsione delle loro isole nel Mar rosso sarebbe certamente più facile se alle spalle si ergesse la potenza imperialistica della Cina, pur pagando, ovviamente, un prezzo molto alto alla sua, molto presunta, autonomia. Per tutti questi motivi, non a caso, la piccola esperienza nazionalista degli huthi si è ritrovata nel bel mezzo di un ciclone imperialista quale semplice strumento e utile mezzo per interessi che, pur essendo inizialmente suoi, sono finiti nella gestione di altri. Altri come la Cina che tiene il piede in due scarpe con la preferenza di quella più grossa, ovvero, quella saudita con cui ha stabilito contratti in tecnologia, armi e infrastrutture per 30 miliardi di dollari, pur non trascurando la ciabatta yemenita. Questi ultimi, sempre i cinesi, con la falsa scusa di essere paladini e difensori degli interessi del governo di Sana’a contro la voracità di un imperialismo di turno che, ovviamente, è sempre indefinito perché se fosse quello saudita sarebbe un problema spiegarlo agli huthi , intenderebbero farne un sol boccone, sia per una questione di contingenza concorrenziale in loco con altri imperialismi, sia per una visione strategica di più largo respiro in tutta l’area in questione. Dopo gli attacchi al porto di Eilat e il lancio di missili sugli impianti petroliferi sauditi e il recente blocco all’ingresso di Bab el Mandeb, non poteva mancare la risposta dell’altro schieramento imperialista. L’aviazione americana e quella inglese hanno immediatamente bombardato le postazioni yemenite, quelle da dove sono partiti i missili e i droni che rendono impraticabile il transito attraverso il Bab el Mandeb, aprendo di fatto una altro fronte di guerra in Medio oriente dopo quello di Hamas- Israele a Gaza e di Israele- Hezbollah in Libano, con il rischio di trascinare in questo tragico conflitto anche la Siria e la Cisgiordania. Non manca nemmeno l'inevitabile notizia che navi da guerra americane, con il solito appoggio inglese, pattuglino la zona di mare in questione come monito agli huthi e agli imperialismi che li manovrano. Il tutto all’interno di uno scenario di guerra guerreggiata tra Russia e Ucraina e con pericolose tensioni tra Cina e Usa per Taiwan e per il controllo delle isole dell'Indo-pacifico. In aggiunta va rilevato come la reazione europea alla crisi del Mar rosso si sia fatta sentire, probabilmente sotto lo stimolo del Pentagono, con l’allestimento di una flotta di navi da guerra nella operazione Aspides. L’operazione, entrata in funzione il 19 febbraio 2024, prevede l’utilizzo di cinque navi fornite, oltre che dall’Italia, da Germania, Francia, Grecia e Belgio sotto la direzione italiana con lo scopo di difendere dagli attacchi huthi le navi commerciali europee. Scopo difensivo, si dice, che non toglie la partecipazione dell’Europa alla guerra in atto in una delle zone di mare più strategiche del mondo. Il tutto con la proposta di Macron di inviare truppe europee in Ucraina accompagnata dalla tensione tra Russia e Polonia nei cieli ucraini. Anche in questo caso la risposta non si è fatta attendere nemmeno dall’altro fronte (15 marzo). Nello stesso braccio di mare navi iraniane, russe e cinesi hanno iniziato perlustrazioni che non lasciano presagire nulla di buono. In sintesi per una iniziativa, non si sa quanto autonoma degli huthi di Sana’a, si sono mobilitate le flotte di Europa, Stati Uniti, Inghilterra, Cina, Iran e Russia.

Quindi limitare l’esperienza della guerra civile yemenita ad una scissione dal corpo centrale del governo di Aden con la sola ingerenza esterna dell'Arabia Saudita non solo non risponde alla realtà dei fatti, ma fa torto anche all’intelligenza dell’ultimo degli analisti geopolitici in circolazione.

In compenso la tanto temuta apertura di un conflitto diretto tra Israele e l’Iran si è ridotto ai minimi termini. A parte la storica rivalità tra i due imperialismi, nell’attuale scenario tutto ha avuto inizio il primo di aprile quando un raid israeliano ha colpito a Damasco l’ambasciata iraniana uccidendo tre alti ufficiale dei Pasdaran della divisione al Qods con lo scopo di indebolire il fronte sciita in Siria, e nelle omologhe strutture militari del Libano e Palestina (Hezbollah e Hamas). Il regime degli ayatollah non poteva che rispondere ad un simile affronto, che suonava come un attacco di guerra operato, oltretutto, in una sede diplomatica estera. Se Teheran non si fosse mossa avrebbe rischiato di perdere quella leadership del mondo sciita e quel ruolo di difensore della lotta del popolo palestinese contro Israele. Per cui difendere l’onta dell’attacco del 1° aprile era la condizione per rafforzare il suo ruolo nell'area mediorientale. E la risposta è arrivata tra il 14 e il 15 aprile. La cronaca ci racconta di 320 tra droni e missili che avrebbero dovuto colpire zone sensibili in territorio israeliano. Ma le cose sono andate molto diversamente. I droni sono stati abbattuti, solo un paio di missili hanno raggiunto il deserto. Fallimento? Sì, ma voluto. Non si mandano 300 droni che impiegano dalle sei alle otto ore per raggiungere l’obiettivo ben sapendo che i missili anti-missili e anti droni israeliani (di fornitura americana) sono i più efficienti al mondo. Infatti la contraerea israeliana ha giocato al tiro al piattello abbattendo il 99% dei velivoli nemici. Nonostante questo e nonostante che il governo degli Ayatollah avesse dichiarato, con molta fantasia, di aver vendicato l’onta subita e di considerare chiusa la partita, la risposta israeliana non poteva mancare. Il 19 aprile parte una piccola e breve offensiva di Israele che lancia un paio di missili e alcuni droni in territorio iraniano, colpendo una base militare secondaria e sfiorando con un missile l’area di Isfahan, dove si trova una centrale nucleare per l’arricchimento dell’uranio. Come dire: possiamo colpire come e dove vogliamo, centrale nucleare compresa, ma per il momento ci asteniamo. Anche le dichiarazioni di Tel Aviv sono state impostate ad una sorta di “fair play” diplomatico, in cui si dice, parafrasando la dichiarazione iraniana, “abbiamo raggiunto i nostri obiettivi e per noi la questione è chiusa”.

C’è chi si è immediatamente affrettato a dire che questi sono, anche se nell'ambito di una perdurante tensione, segnali di distensione, ovvero i due “mortali” nemici, pur non rinunciando a confrontarsi con le armi, hanno di fatto simulato un episodio di guerra ben guardandosi dal farsi del male. Come se fosse un implicito segnale di de-escalation nell’area più calda del mondo. Neanche per sogno!! I due nemici hanno voluto sperimentare la forza e la tempistica negli interventi dell'avversario in una sorta di preliminari in funzione di possibili futuri scontri di ben altra intensità e ferocia. Come due pugili che si studiano per meglio colpirsi alla prima occasione favorevole. In seconda battuta, ma non per importanza, sia Tel Aviv che Teheran hanno voluto testare le reazioni dei rispettivi imperialismi di riferimento, che della crisi medio orientale continuano a reggere le fila.

La prospettiva: la crisi innaffia la mala pianta del nazionalismo e delle guerre

Nella fase storica attuale, dove il capitalismo mondiale mostra la sua decadenza come forma produttiva e sociale, la sua astoricità, che si deduce dall’avere sempre maggiori difficoltà nel valorizzare i capitali ad investimento produttivo, a causa di saggi del profitto tendenzialmente sempre più bassi. Dove la speculazione sembra essere la via di fuga più semplice, ma anche quella meno efficace, perché finisce per ritorcersi contro quelle stesse cause che l’hanno generata, con spaventose esplosioni di bolle finanziarie che ricadono sulle crisi del sistema economico che le ha poste in essere, deprimendo ulteriormente la base produttiva; dove la tensione tra gli imperialismi aumenta in progressione geometrica, parlare di autodeterminazione dei popoli, di guerre di liberazione nazionale, di autonomie popolari è semplicemente un ossimoro storico. Ossimoro nel quale entrano a pieno titolo il presunto ruolo di forza nazionalistica di Hamas e di autonomia politica ed economica della dinastia Huthi, così come le rivendicazioni “nazionali” di segno opposto portate a giustificazione della guerra in Ucraina. Queste “rivendicazioni”,a diverso titolo e in forme variabili vengono fagocitate – se non istigate direttamente - all’interno degli scenari imperialistici come utili comprimari, come strumenti da usare in guerre per procura, come vittime destinate al massacro delle fameliche strategie degli imperialismi stessi.

Ma il capitalismo, anche se in crisi profonda, non muore di morte naturale. I suoi antidoti sono sempre gli stessi, possono variare solo per modalità e intensità a seconda dei rapporti di forza con il proletariato domestico. Innanzitutto il primo atto a cui ricorre il capitale, alla ricerca del superamento delle sue insanabili contraddizioni, è quello di contenere al massimo il costo del lavoro, il salario diretto. Poi, di smantellare il welfare e de finanziare sempre più i rami improduttivi quali la scuola, la sanità e le pensioni. In altri termini, l’obiettivo assoluto e imprescindibile è quello di far pagare al mondo del lavoro le crisi del capitale attraverso il contenimento o la predazione anche del salario differito e indiretto, o di quello che ne rimane nei paesi - sostanzialmente quelli del “centro” - in cui ancora esiste.

In questo quadro, entra in gioco l'esportazione di capitali, di strutture produttive là dove il costo del lavoro è nettamente più basso, dove i sistemi di tassazione e gli aiuti statali sono nettamente più favorevoli e, non ultima, una legislazione anti sciopero molto efficace.

Anche la catastrofe climatica in cammino è figlia del modo di produzione capitalistico, che da sempre ha saccheggiato, depredato e avvelenato l'ambiente naturale, ma che con la crisi del ciclo di accumulazione post-bellico ha accelerato lo scempio dell'ecosistema – quindi di chi lo abita – per reperire materie prime a basso costo e contrastare la discesa del tasso di profitto. Gli interventi, prospettati da alcuni governi, che dovrebbero rallentare il cambiamento climatico sono ampiamente insufficienti, per altro ulteriormente depotenziati di fronte alle proteste dei settori borghesi colpiti da quei pur deboli provvedimenti.

Ma queste misure non bastano, e allora il perdurare della crisi, ormai sistemica a qualsiasi latitudine, porta al ricorso devastante e violento della guerra. Guerra che può essere limitata ad un’area ristretta, combattuta per procura, dove l’imperialismo manovra il teatro bellico da dietro le quinte. Fornisce finanziamenti, armi, promette aiuti futuri che non arrivano quasi mai, e quando arrivano hanno un costo per chi li riceve insopportabile, sia economico che politico, ma non interviene personalmente. Accende focolai o butta benzina sul fuoco già acceso da qualche regolamento di conti tra paesi di scarso peso politico, ma interessanti da un punto di vista economico o strategico. La crisi del capitalismo può arrivare ad impegnare in prima persona un imperialismo qualora la posta in palio sia grossa e degna di essere contesa con le armi (Russia – Ucraina), con il rischio di dilatare il conflitto ad altre aree. Situazione che appare essere sempre più probabile, con l'impegno diretto di altri attori imperialisti quali Iran, Cina e Stati Uniti, che potrebbero confrontarsi in una guerra generalizzata. La stessa Unione Europea, il cui imperialismo è ancora allo stato “gelatinoso” - privo di uno stato unitario nel vero senso della parola e quindi mancante degli strumenti propri di questo organismo – sta programmando l'aumento delle spese militari, i cui costi ricadranno inevitabilmente sulla classe lavoratrice, già duramente provata da decenni di attacchi borghesi e, negli ultimi tre anni, dall'inflazione, accelerata dalla pandemia e dai focolai di guerra accesi dai contrasti imperialisti.

Per il capitale la guerra con le sue orribili barbarie, che non risparmiano niente e nessuno, significa, per chi vince, eliminare dal mercato la concorrenza, impossessarsi di aree funzionali alle necessità produttive dell'economia moderna strutturalmente in crisi. Significa ancora combattere per il petrolio e il gas in attesa di una contrastata transizione ecologica che stenta a partire, perché ancora tanti settori del capitale non sono pronti a questo passo che oggi li danneggerebbe pesantemente. Significa mettere le mani sui giacimenti di litio e “terre rare”. Significa tentare di risollevare le sorti di un saggio del profitto che penalizza l’economia mondiale e, non da ultimo, significa la distruzione di valore capitale in funzione dei business della ricostruzione; con o senza bombe atomiche. Quest’ultimo problema dipende dalle attuali situazioni di guerra in Ucraina (minacce di Putin e contro-minacce di Biden ai primi di marzo), dalle tremendissime condizioni dell'ecatombe di Gaza e dell’eventuale allargamento della guerra nell’area del Medio Oriente, Iran compreso, dalla crisi del Mar rosso e dal comportamento degli altri imperialismi, in primis Usa e Cina, che non staranno certo a guardare per sempre o a limitarsi alle manovre militari per procura. L’orizzonte che ci preparano gli imperialismi è comunque carico di distruzione, morte e di feroce barbarie. Chi paga tutto questo?

La classe lavoratrice e la guerra

La risposta è scontata, a pagare sono i proletari che vanno in guerra sotto le bandiere della propria borghesia o sotto lo schieramento imperialistico di cui la loro borghesia fa parte. Sono le popolazioni civili che vengono falcidiate dai barbari bombardamenti che distruggono ogni cosa, dalle strutture produttive agli ospedali, dalle abitazioni civili ai campi coltivati. Sono i diseredati costretti a migrare – o, meglio a fuggire – dai loro paesi spinti dalla povertà, dai cosiddetti “eventi estremi” generati sempre più spesso dal cambiamento climatico e, appunto, dalle guerre scatenate dalle opposte gang borghesi, che “sintetizzano” e potenziano gli elementi distruttivi insiti nel capitale. In breve, nulla sfugge alla ferocia sanguinaria del capitalismo in crisi.

Di fronte a tanta barbarie, più scientificamente distruttiva che nel recente passato, una sola forza sarebbe in grado di opporsi significativamente. Questa forza è quella degli sfruttati, del proletariato internazionale, delle enormi masse di diseredati prodotte dalla crisi del capitalismo. E’ quella degli schiavi salariati che rappresentano con la loro forza lavoro la ricchezza sociale dei loro paesi e di cui raccolgono faticosamente le briciole, quando va bene, altrimenti sono disoccupati, sotto-occupati e sopravvivono in qualche modo ai margini di questa iniqua società fatta a immagine e somiglianza dalle esigenze borghesi. Questa forza che viene sfruttata in tempi di pace e usata come carne da macello in tempi di guerra può essere il più potente antidoto alla barbarie dell’imperialismo, a condizione di comportarsi come classe che combatte sì una guerra, ma la sua, contro il capitalismo, le sue insanabili contraddizioni, le sue crisi economiche e le devastazioni delle sue guerre. Ma per fare ciò questa forza dal potenziale immenso deve innanzitutto uscire dal pensiero dominante della classe dominante. Le guerre vengono imposte dalle crisi del capitale, vengono gestite dalle borghesie per difendere i propri interessi economici, condizione prima dei loro privilegi politici e sociali, ma combattute dai proletari succubi delle ideologie della classe dominante. Ideologie che, a seconda dei casi, si paludano di democrazia da difendere o da esportare, di interessi nazionali da salvaguardare, di principi religiosi “universali”, anche a costo di usare la forza per imporli. Per non parlare di tutte quelle ideologie razziste ed omofobe vecchie e nuove che teorizzano la guerra come strumento di “purificazione” dall'invasione dei nuovi “barbari”. Il bagaglio ideologico delle borghesie per legare i proletariati al carro dei loro interessi sin sul terreno della guerra non ha limiti. Per queste ragioni è imprescindibile che la classe debba dotarsi di una guida politica, di una tattica e di una strategia internazionali come internazionale è il modo di essere dell’imperialismo e del suo agire mortale. Ovvero di un partito internazionale - la nuova Internazionale - che coinvolga tutte queste energie verso un unico obiettivo: la lotta contro il capitalismo in tutte le sue manifestazioni economiche e sociali, a partire dalle singole borghesie nazionali, qualunque ruolo abbiano nello scenario della guerra imperialista, anche se ne sono fuori o soltanto a latere.

Compito difficile, pieno di ostacoli, come ogni prospettiva di rilevanza storica, la cui strada è lastricata di insidie, che non provengono direttamente soltanto dalla reazione borghese.

Non poche forze di “sinistra”, che magari si autodefiniscono rivoluzionarie e internazionaliste, con slogan e programmi che vengono presentati come i loro punti irrinunciabili per la ripresa della lotta di classe in senso anti imperialista, contro il capitalismo e contro la guerra, poi le ritroviamo impigliate nei fili della ragnatela tessuta da quello stesso capitalismo che, a parole, vorrebbero combattere.

Per rimanere in tema di attualità queste forze politiche, di fronte alle guerre in atto, Ucraina, Palestina, Mar Rosso, di fronte allo strapotere militare, per esempio della Russia nei confronti dell'Ucraina - nonostante gli aiuti occidentali - vacillano paurosamente. Lo stesso vale quando considerano la superiorità militare di Israele nei confronti di Hamas, che sta massacrando la popolazione palestinese e, buon ultimo per il momento, la presunta autodeterminazione nazionale degli huthi nello Yemen contro il riconosciuto governo di Aden sostenuto dall'Arabia Saudita: in tutti questi casi, il vacillare aumenta di intensità e il loro internazionalismo si rovescia.

Sostengono Hamas, nonostante lo jihadismo di questa forza politica rappresenti il medio evo sociale, al pari del defunto, ma non troppo, Stato islamico. Nonostante riceva armi e finanziamenti dal regime degli Ayatollah, il cui governo agisce con ferocia mortale nei confronti di qualsiasi opposizione, regime razzista contro le donne e imperialista d’area contro l’Arabia Saudita e Israele, per la supremazia energetica e quella all’interno del mondo musulmano sciita e non solo. Come si fa a difendere una formazione politica figlia del nazionalismo fascista jihadista che, pur di avere un piccolo spazio nella partecipazione come “azionista di assoluta minoranza” alla leadership nel mondo arabo in generale e in quello palestinese in particolare - nello specifico contro il governo dell’ANP di Abu Mazen - ponendosi come unico vero antagonista al sionismo di Israele, manda al sicuro massacro il suo proletariato e costringe all'ecatombe la sua popolazione civile, in una sorta di pedaggio che i dannati di Palestina devono pagare alle meschine mire di una classe dirigente borghese che vive nel lusso dei pregiati marmi di Doha e succube, a sua volta, delle ambizioni politiche e degli interessi economici di al Thani, emiro del Qatar e finanziatore interessato di Hamas?

Sempre in questo ambito falsamente internazionalista c’è chi difende la Russia o l’Ucraina a seconda se la guerra e le sue formali giustificazioni pendano più da una parte piuttosto che dall’altra di una ideologia comunque falsa, trascurando nel modo più assoluto che qualunque guerra ha come tratto tragicamente comune lo scontro tra proletariati attestati su due fronti contrapposti, quando dovrebbero formare un fronte comune contro le rispettive borghesie. Lo stesso discorso vale per chi vede nella lotta della dinastia huthi contro Israele e il governo filo occidentale di Aden un presunto atto di antimperialismo da sostenere. Dimenticando, anche in questo caso, che lo jihadismo yemenita interprete della chiusura dello stretto di Bab el Mandeb per rendere inagibile il canale di Suez alle navi israeliane e occidentali, è, lo ripetiamo, solo la lunga mano degli imperialismi iraniano e cinese. Degli interessi iraniani abbiamo già accennato, per quelli di Pechino va denunciato che sostenere Sana’a contro Aden (altra guerra fratricida combattuta da due proletariati) significa mettere in atto un doppio scopo: avere a disposizione il petrolio nord yemenita e usufruire dell’agibilità di un porto nel Mar Rosso nella prospettiva di costruire una base per la sua iper imperialistica Via della Seta.

In conclusione, non si difendono gli interessi proletari lasciando i destini degli schiavi salariati nelle mani delle loro borghesie jihadiste o laiche, “democratiche” o fascistoidi (il sovranismo). Non si contribuisce alla rinascita di un internazionalismo rivoluzionario schierandosi su di un fronte della guerra imperialista. Non si combatte la guerra entrandovi a farne parte, qualunque sia la giustificazione. Né vale difendere un imperialismo solo perché più debole di un altro. Al contrario, il primo compito delle avanguardie politiche internazionaliste è quello di sottrarre le masse proletarie ai mille tentacoli delle borghesie nazionali e degli imperialisti internazionali, unica condizione per essere contro tutti i nazionalismi e contro tutte le guerre per un'alternativa rivoluzionaria al capitalismo, altrimenti è politica controrivoluzionaria e di conservazione dello “status quo”.

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25-04-24

Martedì, March 26, 2024