Il socialismo che vorremmo e quello che non vorremmo più dover rivedere. Prometeo n. 30/2023

Introduzione

Affrontare nuovamente il tema dello stalinismo, della natura economica dei cosiddetti paesi del “socialismo reale”, può apparire quanto meno inopportuno nell’attuale fase di vita del capitalismo: un nuovo conflitto incendia il Medio Oriente, mietendo miglia di vittime civili; in Ucraina si trascina una guerra di logoramento che vede tra i protagonisti gli esponenti di primo piano dei diversi fronti imperialisti; la crisi economica - che della guerra è al tempo stesso causa ed effetto - erode il tenore di vita di milioni di lavoratori; l’emergenza climatica si fa più pressante e - dulcis in fundo - una nuova rivoluzione tecnologica potrebbe stravolgere nei prossimi anni l’organizzazione del lavoro, non per migliorare le condizioni generali della vita associata, come avverrebbe in una società non antagonista, ma per aumentare disoccupazione, lavoro precario, sfruttamento.

L’attualità dovrebbe sospingerci verso queste tematiche, ricercando convergenze con le forze che si definiscono anticapitaliste e che, pur nella scarsissima agibilità politica dettata dalla sostanziale assenza di una risposta di classe, tentano di opporsi alle strategie della classe dominante. Non sembra più tempo di distinguo cavillosi o di dibattiti “sul sesso degli angeli” intorno ad argomenti che la storia stessa si è incaricata di mettere in archivio. Si potrebbe pensare che temi come la natura dello stalinismo possano interessare solo i sacerdoti delle varie “parrocchie” marxiste che si contendono i pochi fedeli rimasti, risultando pressoché indifferenti a milioni di lavoratori che devono invece rappresentare il nostro referente politico.

La nostra posizione però - e riteniamo la posizione di chiunque si richiami alla prospettiva comunista - non può che essere differente; pensiamo infatti che l’esperienza dell’URSS e tutte le altre che ad essa si sono ispirate in seguito, sia stata la più tragica sconfitta che il proletariato come classe abbia mai subito nella sua storia, e non si aprirà mai di fronte a noi la strada che potrebbe portare ad una società migliore, ad una società senza classi, se prima non la sgombrassimo dal cadavere putrefatto e pestilenziale dello stalinismo e dai suoi nuovi epigoni.

Una delle funzioni essenziali di un’organizzazione rivoluzionaria, proprio perché intende porsi come l’avanguardia politica della classe, è di analizzare le lotte fra capitale e lavoro, trarre gli opportuni insegnamenti dalle sconfitte e farne patrimonio di tutta la classe quando quest’ultima sia disposta ad accoglierli, ovvero quando sia in grado di sottrarsi temporaneamente all’influenza della classe dominante.

In questo senso la Rivoluzione d’ottobre, prima e finora unica esperienza che sia stata capace di porre le premesse politiche del passaggio al socialismo, è un evento cruciale, ricchissimo di insegnamenti per chiunque intenda costruire un’alternativa radicale alla società borghese (basti pensare alla parola d’ordine del disfattismo rivoluzionario, al pur brevissimo ruolo esercitato dai Soviet, alla denuncia dei trattati internazionali delle potenze imperialiste e si potrebbe continuare a lungo). La controrivoluzione, ovvero la sconfitta della Rivoluzione d’ottobre, che ha visto il riaffermarsi del capitalismo nella sua forma più estrema, pur nella sua tragicità, ci fornisce indicazioni politiche altrettanto irrinunciabili. Il fatto che l’accartocciarsi su sé stesso del processo rivoluzionario abbia avuto come perno quel partito bolscevico che l’aveva condotto al successo, è stata la tragica fonte di confusione politica che ha intorbidito le acque e continua a farlo fino ai giorni nostri.

Il crollo del muro di Berlino ha segnato la fine di un’impostura che aveva indotto milioni di lavoratori di tutto il mondo ad identificare la causa comunista internazionale con il capitalismo di stato sovietico, ma ha anche rappresentato l’occasione d’oro per la borghesia per imporre la sua interpretazione dei fatti: se quei regimi rappresentavano l’ideale comunista realizzato o quasi, il loro crollo non poteva che significare il completo fallimento dell’idea stessa di una società senza classi e la dimostrazione che oltre il capitalismo non esiste più nulla né ora né mai.

Affrontare quindi la questione dello stalinismo, mettere in luce come la natura economica e politica dei paesi del “socialismo reale” non ha mai avuto nulla in comune né con la fase di transizione al socialismo né tanto meno con la sua realizzazione, significa in primo lungo ridare credibilità e rilanciare il progetto politico comunista. In secondo luogo, ci consente di fare chiarezza politica con tutte quelle forze – sono ancora molte e con una certa influenza tra i più giovani - che si richiamano più o meno esplicitamente all’esperienza dello stalinismo o che dello stalinismo, intendendo con esso tutta l’esperienza del “socialismo reale”, criticano aspetti assolutamente secondari e inessenziali. Seppure nel linguaggio, ad un orecchio poco accorto, potrebbe sembrare che le nostre e le loro posizioni siano simili (le pubblicazioni staliniste sono tutte un fiorire di parole come “internazionalismo”, “lotta di classe”, “socialismo”), le nostre analisi e prospettive politiche non potrebbero essere più divergenti ed inconciliabili.

Forma e sostanza

In considerazione di quanto detto, ci dispiace di dover tornare oggi a quello che è proprio l’ABC del marxismo e del materialismo storico e ai principi elementari del Comunismo. Sappiamo bene che per chi già li conosce quanto ci accingiamo a dire altro non è che ribadire l’ovvio, quindi ci scusiamo con i lettori più accorti, qualunque sia la loro età anagrafica, ma la società in cui viviamo oggi, dal punto di vista politico ha subito, proprio a partire dalla caduta del muro di Berlino, un vero e proprio tsunami ideologico, un processo in cui l’onda della cultura dominante ha spazzato via ogni germoglio rivoluzionario, ogni pur timida e iniziale costruzione di un’alternativa sociale, ogni serio atteggiamento critico, e in definitiva ogni reminiscenza di quella che è stata la storia del movimento operaio, con le sue vittorie (poche) e le sue sconfitte. Dovendo rivolgerci ai non pochi giovani che sono nati dopo o durante questo tsunami e che scambiano ingenuamente lo stalinismo per comunismo sulla base di considerazioni come “in Russia almeno non c’era la disoccupazione, c’era la sanità per tutti, c’erano meno disuguaglianze”, non possiamo che riprendere il filo dall’inizio per sciogliere la matassa.

Cominciamo dalle cose più semplici: se una società diversa, senza classi e perciò senza sfruttamento è possibile (e noi crediamo che lo sia) essa non potrà mai essere in un solo Paese. Sarebbe facile qui dilungarsi in citazioni di Marx ed Engels, ma ci asteniamo perché anche un bambino capirebbe che il capitalismo ha reso la produzione e il commercio moderni un fenomeno mondiale, già prima della globalizzazione, e nessun Paese, se non vuol tornare all’epoca dei cacciatori e raccoglitori o poco più, può permettersi il lusso di isolarsi dalle relazioni economiche con gli altri Paesi. Solo un’area abbastanza vasta da poter essere autosufficiente in termini di presenza di materie prime, fabbriche e forza lavoro qualificata, può dare inizio ad un modello di produzione fondato sulle esigenze della collettività. Questo era chiarissimo al principale teorico e leader della rivoluzione, Lenin, che ha ripetuto infinite volte che la rivoluzione poteva nascere in Russia, ma non sarebbe sopravvissuta senza l’aiuto dei lavoratori del resto d’Europa. Era chiaro all’inizio anche a Trotskij, benché il volgere successivo degli eventi gli abbia un po’ confuso le idee per quanto riguarda la natura della società russa.

Comunque sia e non per caso, il primo elemento cardine ad essere ritrattato nel processo di involuzione che era già in atto dai primi anni in Russia, ovvero l’internazionalismo dei rivoluzionari e il carattere internazionale della rivoluzione, fu proprio questo. Stalin e Bucharin tra il 1924 e il 1925 teorizzarono il “Socialismo in un Paese solo” che per Marx ed Engels, e dopo di loro per qualunque marxista dotato di senno, sarebbe stato semplicemente un ossimoro, tanto più poi in Russia, per molti aspetti il paese, all’epoca, più arretrato d’Europa.

Andiamo ora al secondo aspetto, anche questo facile facile, che ci permette di distinguere se una società è comunista o no: la presenza dello Stato. Anche qui tonnellate di inchiostro erano state posate su carta dalle menti più lucide del movimento dei lavoratori per ricostruire la storia della comparsa e dello sviluppo dello Stato, organismo che nasce quando la società si spacca tra classi contrapposte e dunque di per sé stesso sintomo evidente di un antagonismo tra classi; di più, strumento nelle mani della classe dominante per riconciliare in parte e rendere gestibile questo antagonismo che altrimenti paralizzerebbe di continuo la società. Lo Stato è, oggi poi in maniera evidentissima quando indice le sue elezioni, parvenza di unità laddove regnano separazione e antagonismo.

E’ ben vero che si era anche detto, specialmente prima dell’esperienza della Comune di Parigi, che i rivoluzionari avrebbero potuto impadronirsi dello Stato per volgerlo a proprio vantaggio, e anche Lenin parlava in Stato e Rivoluzione di uno Stato come organismo provvisoriamente utile per vincere le resistenze della vecchia classe dominante, ma si parlava di uno Stato che doveva avere già in sé stesso il principio della propria urgente dissoluzione, perché il potere in una società comunista doveva essere esercitato dai consigli dei lavoratori, dei produttori, dai Soviet nel caso della Russia e non imposto loro da uno Stato che li domina, verso il quale essi non hanno nessun potere di veto né voce in capitolo. Un tale Stato può anche autodefinirsi operaio, ma solo per far sfruttare come bestie gli operai stessi.

Un proverbio assai in voga in Russia, non sappiamo se prima o dopo Kruscev e, in ogni caso non fa differenza, recitava: “Nel capitalismo c’è lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, nel socialismo invece è il contrario”. Accogliamo volentieri l’ironia dell’affermazione, ma ovviamente sorge spontanea la domanda: come mai se davvero non c’erano antagonismi di classe nel socialismo reale, c’erano invece gli apparati statali… e che apparati! Uno dei più acuti critici della società sovietica, benché non sempre da un punto di vista marxista, Michael Voslenski, ha scritto un voluminoso libro per analizzare la nuova classe dominante, la Nomenklatura. Giustamente afferma Voslenski che se un cittadino sovietico avesse avuto la possibilità di viaggiare oltre la cortina di ferro, come capitò a lui, sarebbe rimasto esterrefatto al vedere come era più circoscritto (anche se pur sempre presentissimo aggiungiamo noi) il ruolo dello Stato ad Occidente rispetto a quello Sovietico, e aggiunge: “Che la funzione dello Stato sovietico sia la repressione, lo sa ogni cittadino sovietico, anche senza aver letto Lenin. Qual è la funzione che svolgono il KGB e il MVD con le folte schiere dei loro collaboratori e informatori, con il loro esercito interno dotato di armi di prim’ordine, la fitta rete di pubblici accusatori e tribunali, i luoghi di confino, le prigioni, gli istituti psichiatrici speciali, i campi di lavoro?”

A questo punto Stalin per primo, e dopo di lui schiere di pseudo-socialisti o terribilmente ingenui o terribilmente in malafede, rispondono che lo Stato socialista è necessario perché si occupa anche dei problemi dell’economia, della difesa, dell’educazione, dell’arte, e questo è perfettamente vero aggiungiamo noi, tanto che avviene anche nei capitalismi d’Occidente: solo che lo fa appoggiando la prospettiva della classe dominante - la Nomenklatura in URSS, la borghesia classica in Occidente - e la sua visione del mondo.

La classe dominante è minoritaria in numero, e ha bisogno di uno Stato per tenere la grande parte del popolo in una condizione di subordinazione, viceversa la massa dei produttori non ha bisogno di una macchina costosa e burocratica per reprimere una minoranza se non provvisoriamente, può e deve organizzarsi come classe in armi se necessario o organizzarsi come classe produttrice, ma non ha nessun bisogno di imporre alla stragrande maggioranza della popolazione scelte che provengono dall’esterno e che la dominano.

Purtroppo ancora oggi sentiamo agitare nella manifestazioni slogan e parole d’ordine prive di senso, come “governo popolare” quando già Lenin scrisse molto chiaramente: “lo stato popolare è un nonsenso e una deviazione dal socialismo, come lo è lo stato popolare libero”, “lo Stato è un’istituzione che ha fini coercitivi, è la manifestazione degli antagonismi inconciliabili tra le classi, la sua esistenza prova che gli antagonismi sono inconciliabili, quindi uno Stato, qualunque esso sia, non è libero e non è popolare”, e ancora “finché esiste lo Stato non vi è libertà, quando si avrà libertà non vi sarà più lo Stato”.

Con questo secondo aspetto abbiamo fissato il secondo cardine: non esiste socialismo in cui il potere non sia in mano ad organismi collettivi sotto il controllo dei lavoratori associati e operanti nel loro interesse, questa può non essere una condizione sufficiente, ma sicuramente è necessaria, e certamente questo non avveniva in Russia, se non al massimo nei primi tempi dopo l’Ottobre, prima che i problemi della guerra civile, della carestia, della necessità di assumere decisioni d’autorità in tempi rapidi per evitare lo strangolamento della rivoluzione, esautorassero in pratica quegli organismi che dovevano invece essere l’ossatura della nuova società e ciò che sempre la distinguerà dal capitalismo, sia esso di stato o privato.

Cenni di storia dello stalinismo

Veniamo ora agli aspetti un po’ più teorici e complessi, consapevoli che parlare della natura economica e sociale del cosiddetto “socialismo reale” è un’impresa immane e che cervelli e penne incomparabilmente migliori di quelle di cui disponiamo ci si sono già applicate, e basterebbe andare a leggere queste analisi; noi ci limiteremo a riconsiderare molto sommariamente alcuni aspetti a mo’ di bigino per studenti ripetenti.

Nei primi anni Venti del '900 la rivoluzione aveva conquistato la sua prima vera grande vittoria, la guerra civile contro gli eserciti bianchi e contro gli interventi stranieri era stata vinta, ma era una vittoria di Pirro in un certo senso, perché la situazione che si trovavano a gestire i bolscevichi, senza l’aiuto dei lavoratori d’Occidente, era tragica da ogni punto di vista. I dirigenti della rivoluzione, Lenin in primis, capirono che solo un passo indietro sul piano economico avrebbe potuto salvare temporaneamente la fragile presa del potere, cercando di guadagnare tempo in attesa che altre rivoluzioni venissero in aiuto. Questo passo indietro, dichiarato fin da principio senza mezzi termini e infingimenti, fu la NEP.

La NEP certamente ottenne il suo scopo, l’attività economica ebbe una notevole ripresa in generale, sia nella produzione agricola, pur parcellizzata e poco avanzata dal punto di vista tecnico, sia in quella industriale. Nel mondo industriale però quella che si fece avanti con un certo slancio non fu tanto l’impresa privata ma quella statale. “Lo stato conservò per sé le leve dell’economia, cioè la grande industria, il sistema bancario, i trasporti e il commercio estero. Il capitalismo russo si configurava così come un’economia mista statale-privata, con una massiccia presenza privata solo nel settore agricolo. Ciò permise, col passare del tempo, al capitale di stato di controllare l’accumulazione complessiva”; ma ciò che era stato inizialmente frutto della necessità divenne poco alla volta prima una situazione di fatto e poi di diritto e attorno alla struttura del capitalismo di stato si venne a modellare progressivamente un nuovo strato sociale dominante, quello dei direttori delle imprese, degli amministratori, dei funzionari che per il ruolo che ricoprivano nel processo produttivo e nei rapporti di produzione, definivano priorità, controlli, risultati. Questa nascente borghesia manageriale, pur non disponendo della proprietà formale delle imprese, che del resto non è obbligatoria neanche a Occidente, se pensiamo alle società per azioni, con il crescente controllo che esercitava sulle scelte in merito alla fissazione degli obiettivi, alla distribuzione delle risorse umane e degli investimenti, sarà poi la base e la spinta sociale per l’affermazione dello Stalinismo, inteso come politica complessiva e non come persona. Stalin, uomo abilissimo nella tattica e spregiudicato quant’altri mai, benché altrettanto ignorante in fatto di teoria, non avrebbe mai potuto trascinare un Paese intero se non avesse avuto alle sue spalle - e magari in certi momenti anche ai suoi piedi - una classe dominante capitalista a tutti gli effetti.

Nel rapporto sul progetto di costituzione dell’URSS, presentato nel VII congresso dei Soviet il 25 novembre 1936, Stalin affermava: “E’ scomparsa la classe dei capitalisti nell’industria. È scomparsa la classe dei Kulak nell’agricoltura. Nel commercio sono scomparsi i mercanti e gli speculatori. Tutte le classi sfruttatrici in tal modo sono state eliminate.”

Comunque, nel periodo compreso fra il 1924 ed il 1936 Stalin e il suo stato maggiore portano a termine la profonda trasformazione delle forme di proprietà che hanno interessato l’economia sovietica: nell’attività industriale, nel commercio, nei trasporti e nel settore bancario lo Stato esercita una funzione preponderante; nel settore agricolo è prevalente la forma di proprietà cooperativa colcosiana. La statalizzazione delle principali attività economiche ed il ridimensionamento, prossimo alla scomparsa, delle tradizionali figure legate al capitalismo privato, pone fine, secondo Stalin, allo sfruttamento (non essendoci più sfruttatori).

Ironicamente potremmo aggiungere che erano scomparsi anche gli oppositori politici visto che si stima che, dopo essersi dedicato a sterminare e deportare kulaki senza andare troppo per il sottile, si dedicò in quegli anni alla eliminazione dalle file del partito di centinaia di migliaia di militanti, con una spiccata predilezione per quelli della vecchia guardia, ma questo è un dettaglio, specie se si pensa che a nessuno fece mai mancare un “regolare” processo...

Tornando alla visione economica, questa posizione di Stalin presenta delle preoccupanti assonanze con il pensiero di Trockij (sebbene su altre questioni vi siano, ovviamente, profonde differenze); la natura del potere politico, ossia il potere di classe esercitato dallo Stato, comporta un mutamento dei connotati di una determinata formazione economica. Per quanto possano sussistere le categorie mercantili del salario, del plusvalore, della merce ecc., non è corretto, secondo Trockij, parlare di capitalismo di stato; quando il proletariato ha conquistato il potere politico “non vi è sfruttamento di classe, sebbene ve ne siano le forme”.

Per noi invece lo sfruttamento c’era eccome e per essere precisi negli anni Trenta e Quaranta raggiunse apici tali da far impallidire la condizione disperata della classe operaia di Manchester descritta da Engels: lo dimostrano il ricorso sistematico e prevalente al lavoro a cottimo, la campagna per lo stakanovismo, le condizioni abitative miserevoli della classe operaia, i salari bassissimi anche in confronto con quelli dei lavoratori occidentali, che pure in quel periodo vivevano i riflessi della crisi del '29. Tralasciamo poi il fatto che i famosi piani quinquennali erano a detta di molti osservatori tutto tranne che una rigorosa pianificazione, e infatti venivano inaugurati sempre a quinquennio in corso e risultavano dalla negoziazione dietro le quinte dei funzionari, direttori e rappresentanti dei vari settori industriali, i quali avevano un interesse anche economico personale a ricevere più finanziamenti, più manodopera, più materie prime e alla fine del processo più incentivi e riconoscimenti economici.

In questo senso l’esperienza russa, pur inedita sotto alcuni aspetti per il burocratismo e l’inefficienza, non rappresentava una vera anomalia ed era perfettamente in linea con il processo già in atto da molto tempo in tutto il mondo verso la concentrazione dei capitali e la formazione del capitale monopolistico, tendenza così magistralmente riassunta da Lenin nell’Imperialismo e prima di lui per esempio da Hilferding o, meglio, da Bucharin. Quello che era diverso in Russia è che questa tendenza alla concentrazione monopolistica aveva una genesi diversa, imposta dall’alto invece che dai meccanismi spontanei della concorrenza e del mercato, ma anche il fascismo italiano negli anni Trenta non aveva esitato a nazionalizzare enormi conglomerati di imprese, salvandoli dal fallimento, e non per questo aveva costituito “isole di socialismo”. Perfino nei primi anni Sessanta del Novecento fu introdotta in Italia la nazionalizzazione di tutta l’industria elettrica, e questo processo fu alla base del primo governo di “centrosinistra” che ne era in parte l’espressione politica, ma ancora una volta nessuno si illuse che la Democrazia Cristiana e il Partito Socialista Italiano di Nenni avessero intrapreso con decisione la strada verso il comunismo.

Le categorie economiche e il loro significato

Nelle aziende a proprietà statale dei paesi del socialismo reale, analogamente a quanto accade nelle imprese private capitalistiche, le entrate e le uscite venivano calcolate mediante moneta. Tutti i beni prodotti dalle aziende sovietiche venivano infatti espressi in denaro e non in semplici valori d’uso; il rapporto tra “datore di lavoro” e prestatore d’opera era a tutti gli effetti un rapporto di lavoro salariato, questo mette in evidenza che permanevano rapporti mercantili, ossia che i beni non perdevano, in barba ad ogni pianificazione, il loro carattere di merce.

La dinamica del ciclo economico, proprio perché sussisteva la medesima necessità di valorizzazione del capitale, non poteva differire da quella propria di ogni società borghese: “Nella società capitalistica il denaro diviene capitale, il capitale diviene plus-valore ed il plus-valore va ad aumentare il capitale”, secondo la semplice e luminosa espressione di Marx. Analizzando i dati economici dell’U.R.S.S. negli anni compresi fra il primo piano quinquennale ed il periodo immediatamente antecedente al secondo conflitto mondiale, possiamo chiaramente vedere le linee di sviluppo complessivo del sistema: preponderanza degli investimenti nel settore dei mezzi di produzione rispetto a quello dei mezzi di consumo, incremento della composizione organica del capitale e peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori. In coerenza con ogni sistema capitalistico si tendeva a pagare il meno possibile la forza lavoro ed a sfruttarla al massimo grado.

Il terrore staliniano, spesso considerato esclusivamente come l’espressione di una personalità crudele ed autoritaria, è risultato funzionale alle necessità di sviluppo del capitalismo nazionale sovietico nel contesto del quadro imperialistico mondiale; si trattava di concentrare, in pochi decenni, processi di accumulazione che avevano interessato l’area centro-occidentale dell’Europa per almeno un secolo.

Statalizzazione o *socializzazione?*

La presa del potere da parte del proletariato è ovviamente indispensabile, costituisce la premessa politica per poter modificare il modo di produzione; premessa che non può, ovviamente, essere confusa con la modificazione strutturale stessa del sistema di produzione. In un sistema di collettivistico, anche nella fase della dittatura del proletariato, le unità di produzione non calcolano il loro movimento mediante la moneta, neanche per fini computazionali. La pianificazione socialista è finalizza alla produzione di beni sulla base delle risorse, dei mezzi di produzione e della forze lavoro disponibile in un dato momento; il fine dell’attività produttiva è quello di rispondere ai bisogni e alle necessità sociali. In questo caso la funzione del piano è quella di mettere in relazione la produzione materiale con i bisogni espressi della società e come tale avviene in termini di valori d’uso, sia per quanto concerne le esigenze produttive che quelle di consumo (la pianificazione socialista è pertanto completamente svincolata dal meccanismo monetario e mercantile che determinerebbe, necessariamente, modalità di riproduzione basate sulle necessità di valorizzazione del capitale). Un piano unico centrale, che ponga a disposizione dell’intera società l’insieme delle forze produttive, rappresenta l’obbiettivo della pianificazione socialista, come ben esemplificato da Marx “immaginiamoci un’associazione di uomini liberi che lavorino con mezzi di produzione comune e che usino secondo un piano prestabilito le loro numerose forze individuali come un’identica forza di lavoro sociale.” K. Marx “Il capitale” libro I, p. 110).

I lavoratori delle unità produttive socialiste non riceverebbero un salario, non essendoci più circolazione monetaria, ma l’assegnazione, possibilmente non contingentata, dei beni di consumo necessari. Anche nel socialismo permane il plus-lavoro, ossia una quantità di lavoro che si viene ad aggiungere a quella necessaria per riprodurre i beni di consumo del lavoratore stesso; plus-lavoro finalizzato a tutte quelle attività che vanno oltre alle necessità di consumo immediato e che possono essere utili al funzionamento sociale (ospedali, scuole, allargamento della sfera produttiva, assistenza, ecc.).

Tuttavia, l’incremento della produttività che si verifica nel sistema socialista non è più finalizzato all’estorsione di una maggior quantità plus-lavoro che da lungo ad una maggiore quantità di plus-valore come avviene nelle aziende di tipo capitalistico, e può e deve essere utilizzato per ridurre progressivamente la durata e l’intensità del lavoro stesso.

Conclusioni

Si può parlare, in termini marxisti, di superamento del capitalismo, non quando vengono modificate le forme giuridiche di proprietà, ma quando vengono distrutte le categorie economiche che caratterizzano il modo di produzione del capitalismo stesso.

Non appena gli individui si stiano di fronte come persone libere, senza sistema salariale niente produzione di plus-valore; senza produzione di plus-valore niente produzione capitalistica, quindi niente capitale e niente capitalista! Capitale e lavoro salariato esprimono solo due fattori dello stesso rapporto.” K. Marx

Le forze che si richiamano allo stalinismo, all’esperienza del socialismo reale, si collocano totalmente all’interno del sistema borghese, illudendosi ed illudendo il proletariato che le contraddizioni del capitalismo possano risolversi attraverso il trucco già sperimentato della statizzazione dei mezzi di produzione. Il capitalismo di stato non modifica lo sfruttamento, anzi ne amplifica le conseguenze. Perciò pensiamo che sia necessario contrapporsi allo stalinismo (in tutte le sue manifestazioni), come un tempo è stato necessario contrapporsi alla socialdemocrazia; entrambi rappresentano alternative fasulle al sistema borghese, che in realtà pienamente sostengono.

MG

Venerdì, March 1, 2024