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Home ›Il dualismo di sempre, da Battaglia comunista n. 18/1982
Ripubblichiamo brani di un vecchio articolo di Battaglia comunista_, perché crediamo che, nella sostanza, le questioni e le valutazioni politiche esposte nell'articolo siano ancora valide, nonostante gli anni trascorsi. Altra cosa: non usiamo più il termine “leninisti”, non da ultimo per non essere confusi con i cosiddetti “marxisti-leninisti”, cioè la galassia stalino-maoista. Si tratta di un termine, quindi, che si presta ad equivoci, anche sostanziali: il “nostro” Lenin non ha niente a che vedere, ovviamente, con le mostruose deformazioni del pensiero e della pratica di Lenin operate dallo stalinismo..._
Nella storia del movimento operaio, nei tempi passati come nei giorni nostri, soprattutto nei momenti di ristagno delle lotte operaie, quando cioè il dominio economico e politico della borghesia non consente espressioni, se non limitate ed episodiche, di impennate da parte della classe lavoratrice, molto spesso le avanguardie hanno creduto di interpretare il “senso” del movimento in termini non solo diversi, ma addirittura estremi: o il nulla da fare, o l'attivismo più sfrenato.
Nel primo caso, il modo di porsi nei confronti della classe, dei suoi problemi e delle sue esigenze, anche se inespresse o parzialmente accennate, era l'indifferentismo. Nel secondo, la necessaria quanto insopprimibile attività di avanguardia politica, anche se collocata all'interno di un quadro di lotta di classe molto debole, si trasformava in attivismo tanto più frenetico, quanto più inattaccabile appariva la situazione esterna.
Nell'atteggiamento indifferentista, facendo derivare in tutto e per tutto i compiti dei rivoluzionari dalla rispondenza della situazione esterna e arrivando alla conclusione che “fuori” non c'era nulla da fare, i compiti di un'avanguardia dovevano limitarsi alla custodia dei principi, al rispetto più assoluto della sua invarianza, all'elaborazione teorica dei più importanti problemi politici ed economici, alla costruzione dei futuri quadri, senza portare nulla di tutto questo all'esterno, non soltanto perché ritenuto inutile, ma perché addirittura dannoso per l'organizzazione e i suoi militanti.
Ricevere dall'esterno, elaborare, senza riportare fuori il frutto del lavoro politico era la condizione attraverso la quale passava l'incontaminabilità del partito da qualsiasi forma di opportunismo..
I corollari di questo atteggiamento non potevano essere che il settarismo, l'invariantismo più ottuso, il concepimento metafisico di un partito puro, infallibile, anche perché non inteso come strumento politico della lotta di classe, riflesso e condizione del muoversi contraddittorio della classe, ma come frutto di un processo di laboratorio di indagine degli accadimenti sociali di cui si fotografava in negativo l'aspetto contingente e se ne lasciava lo sviluppo a tempi migliori.
A parte i guai riguardanti le questione di metodo, una delle conseguenze più gravi a cui è pervenuta la tesi attendista, è quella di aver snaturato il ruolo e la funzione del partito a fronte di una falsa interpretazione della lotta di classe e delle modalità della sua espressione.
Ai rivoluzionari non è dato il compito di scegliere il quando, ma soltanto il come intervenire nella situazione. Il partito, ovvero l'avanguardia politica della classe, quando ha modo di esprimersi, non sceglie quando intervenire, nella classe, né tanto meno si rifiuta di farlo, ma adeguerà le modalità del suo intervento, l'aspetto tattico, in conformità alle sue forze interne e alla situazione esterna, sulla base di un inevitabile rapporto di condizionamento che potrà forzare, ma dal quale non potrà sottrarsi, pena il venir meno del suo ruolo di avanguardia politica.
Il “nulla da fare”, la sua appendice attendistica, una volta teorizzati e codificati, come modi di essere delle avanguardie nei confronti della lotta di classe, hanno partorito “tendenze” politiche che ancora oggi allignano nel “milieu” rivoluzionario.
Una prima è quella che attribuisce alle avanguardie rivoluzionarie il compito di organizzarsi in Frazioni e non in partiti, ovvero di studiare, elaborare, indicare, ma non di entrare nel vivo della lotta di classe.
Una seconda, che è figlia legittima della precedente, prevede la necessità del partito e del suo ruolo politico solo nei momenti storici in cui il livello della lotta di classe, autonomamente, pone le condizioni effettive per la presa del potere.
Infine, una terza che, pur ammettendo la necessità dell'esistenza del partito anche nelle fasi storiche controrivoluzionarie, limita il suo ruolo a mero spettatore degli avvenimenti, a commentatore più o meno qualificato della realtà politica che lo circonda.
La tendenza attivistica, invece, è sempre stata molto più sbrigativa. Non ha mai elaborato “distinguo” di questo genere nei confronti del tipo di organizzazione che le avanguardie si debbono dare, ma soltanto sul loro ruolo.
Pur ammettendo che il fattore esterno è un qualcosa di condizionato con cui, volenti o nolenti, bisogna fare i conti, l'aspetto volontarista dell'atteggiamento attivistico finisce per voler forzare, senza peraltro riuscirvi, i meccanismi che sono alla base della staticità esterna.
In altri termini, il volontarismo attivistico, credendo di individuare nella staticità delle avanguardie la causa prima di tutte le disfunzioni sia interne (organizzative), che esterne (tenui o inesistenti legami con la classe operaia), si butta in ogni situazione, rincorre qualsiasi episodio, commettendo l'errore opposto: quello cioè di farsi risucchiare dalla situazione e dagli aspetti del contingente per rimanervi invischiato.
Operaismo, spontaneismo, economicismo, in una sola parola opportunismo, sono i pericoli più immediati che la tendenza volontaristica corre nel momento in cui imbocca la strada opposta dell'attendismo.
In entrambi i casi, siamo in presenza di elaborazioni teoriche e di prassi politiche, le quali, ognuna a suo modo, non possono rappresentare una risposta al problema dell'intervento, della tattica, del corretto rapporto tra partito e classe, indipendentemente dall'intensità dell'espressione della lotta di classe stessa. […] Se la lotta di classe avesse la capacità di esprimersi autonomamente, anche se attraverso il crogiuolo purificante di parziali sconfitte e ritirate, con finalità comuniste, non ci sarebbe bisogno del partito, non ci sarebbe bisogno che la classe esprima la sua avanguardia, un punto di riferimento politico che sappia comporre e superare le istanze immediate con quelle finali. Se così fosse, l'unico compito dei rivoluzionari sarebbe quello di sciogliersi nel movimento, facendo bene attenzione di rimanervici attaccati, contribuendo individualmente a che le finalità in esso contenute non vengano disperse e dilapidate strada facendo.
Se le vicende della lotta di classe non si presentano sotto questo aspetto, e, per noi leninisti, ciò è un dato inconfutabile, la necessità della presenza operante del partito di classe, ben lontana dall'assumere uno dei due atteggiamenti prima definiti, per cui si ridurrebbe, nel primo caso, a una sorta di attendismo destinato ad essere superato e travolto dagli avvenimenti, e nel secondo, ad essere una componente ininfluente ed indifferenziata del processo in atto, ha come unico scopo quello di far maturare verso obiettivi comunisti quei contenuti della lotta di classe che tali non sono e non possono essere.
In ogni caso e sotto qualsiasi latitudine, l'esprimersi della lotta di classe porta con sé, inevitabilmente, le remore, i retaggi delle situazioni economiche e sociali che l'hanno prodotta. I movimenti “puri” non esistono né all'inizio né alla fine di un moto classista, tanto meno se in mancanza del partito di classe.
[…] Ancora una volta, il corretto rapporto dialettico tra l'operatività del partito, la sua capacità di intervento rispetto ai limiti, ed il muoversi spontaneo e, a volte, caotico, contraddittorio e comunque mai puro della classe sulla base di istanze economiche e politiche - che nemmeno lei si è scelta, ma che si è trovata di fronte come primi ostacoli al suo incipiente manifestarsi - non si colloca né nel movimento in quanto tale né al suo esterno.
Il ruolo del partito sta proprio in questo: interpretare le situazioni di partenza, individuarne i limiti, superarli con una tattica che tenga conto dei modi e dei tempi; far sì che l'esprimersi della lotta di classe non si attardi o, peggio ancora, non si accartocci sui motivi economici che l'hanno determinata, né si estingua dietro falsi traguardi politici. […] il compito dei rivoluzionari non è quello di (…) limitarsi al livello rivendicazionista della lotta sindacale, ma di partire da quella base per innalzare il livello della lotta di classe verso obiettivi più alti, stando ben attenti a non incorrere nell'errore attendista per paura di sporcarsi le mani, o in quello attivista di buttarsi a corpo morto nel “concreto” senza poterne uscire.
[…] il compito prioritario di un partito comunista non sta tanto nel cercare nuovi ambiti e orizzonti al suo impegno di lotta, terreni pratici economici accanto a terreni pratici di intonazione politica generale, ma è quello di dare un senso politico alla lotta rivendicativa [...]. E' evidente che vadano ricercati i terreni di lotta, che si debbano fare tutti gli sforzi possibili per la sua dilatazione ed organizzazione, ma è altrettanto evidente che se questo limite non viene superato da una propaganda politica efficace, si potranno organizzare e dilatare tutte le lotte di questo mondo, che non si sarà contribuito in niente alla maturazione della classe operaia in senso rivoluzionario.
Ciò che ha sempre distinto i comunisti da tutte le forze radical-borghesi, ieri come oggi, non è la loro propensione alla lotta (questo dovrebbe essere un dato scontato), ma il loro contributo politico, senza il quale qualsiasi espressione di rivolta sociale finirebbe per essere irrimediabilmente sconfitta.
FD
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