COP28, nuova puntata del Festival internazionale dell’ipocrisia climatica

Il 13 dicembre scorso si è conclusa a Dubai la XXVIII Conferenza delle parti (COP), la durata dei lavori si è protratta un giorno in più per la difficoltà delle “parti” convenute di trovare nella dichiarazione finale un compromesso che accontentasse tutti. Tralasciamo qui ogni considerazione sulla differenza linguistica, che tante attenzioni ha richiamato da parte dei commentatori, tra le locuzioni “riduzione del consumo” e “transizione dai combustibili fossili”, i quali sono responsabili da soli di circa l’80% dell’effetto serra. Era evidente fin da principio, ed è ancora più evidente al termine dei lavori, che il grande assente tra tutti gli attori chiamati a decidere le sorti del pianeta, sarebbe stata proprio la classe che globalmente pagherà il prezzo più alto al dissesto ambientale, la classe che nell’attuale modello economico supporta con il proprio lavoro il peso dell’accumulazione del capitale e del mantenimento della parte restante della società, la stessa, guarda a caso, che viene mandata allo sbaraglio nelle guerre di oggi e in quelle di domani.

Al posto dei legittimi rappresentanti di questa classe, che pure conta numericamente la maggior parte dell’umanità, quelli che si sono incontrati a Dubai sono gli esponenti politici della classe dominante, le loro preoccupazioni per l’ambiente sono una variabile secondaria della loro preoccupazione principale, quella per la salvaguardia dei profitti e per la riproduzione dell’attuale assetto economico e sociale, costi quel che costi.

Volendo essere zelanti, forse pure troppo, potremmo dire che l’altra grande vittima sacrificale al tavolo degli oltre 70mila convenuti di Dubai - che hanno deciso come al solito di non decidere niente - è stata la scienza, nel senso della sua capacità di orientare le decisioni sociali secondo le leggi della natura, uniformandosi ad esse e adattandovisi nel modo più conveniente possibile. Nei libri di scuola abbiamo imparato che la nostra civiltà è nata dal pensiero filosofico e scientifico dell’epoca classica, rinverdito poi dal Rinascimento e dall’Illuminismo, ma quello che da decenni ci sta dicendo la scienza sull’argomento in innumerevoli articoli e da molteplici punti di vista - e che è stato indicato fin dal protocollo di Kyoto del 1997 - è che le condizioni di vita su questo pianeta andranno incontro ad un grave deterioramento se verranno superate soglie critiche che renderanno le trasformazioni ambientali da lente e progressive a drastiche e repentine, e tuttavia questo messaggio univoco passa in secondo piano in mezzo ad una cacofonia di voci discordanti, contraddittorie, titubanti, quando non palesemente assoldate dai petrolieri.

A proposito di petrolieri, non è un caso che a presiedere la conferenza fosse Sultan Ahmed Al-Jaber, capo della principale compagnia petrolifera degli Emirati Arabi Uniti – il Paese ospitante - e leader della fazione dei paesi OPEC, fazione apertamente e proattivamente schierata contro l’abbandono dei combustibili fossili, né parimenti è un caso che la prossima conferenza si terrà a Baku, in Azerbaigian, altro noto Stato petrolifero: un po’ come affidare alle cavallette la cura del proprio giardino.

Troppo facile sarebbe però scaricare tutte le responsabilità sui Paesi OPEC, che sono palesemente in conflitto di interessi, qui il conflitto di interessi è più ampio e riguarda il modo di produrre funzionale al capitalismo che, sia nella variante occidentale che in quella orientale, mantiene una comune e resistente logica interna. Con le tecnologie e ai costi attualmente disponibili la transizione alle fonti energetiche rinnovabili o la produzione e il trasporto di merci e persone a bassa emissione di carbonio non sono un obiettivo realistico, se non al prezzo di pesanti perdite economiche o, viceversa, di onerosissimi investimenti. Non a caso quando il capitalismo ha potuto farlo, come recentemente nel caso dei clorofluorocarburi, una volta scoperta la relazione tra l’uso di questi composti e il danneggiamento dello strato di ozono nell’atmosfera, ha provveduto ad approvare in tempi brevi le convenzioni internazionali che ne proibivano la produzione e il consumo, ripristinando le condizioni di sostenibilità ambientale. Così non è stato e non sarà per il riscaldamento climatico che mette in crisi un modello di sviluppo che si è basato fin dall’inizio sulla disponibilità abbondante e a buon mercato di materie prime energetiche e di trasformazione, materie prime sulle quali tutti i settori della produzione e persino la finanza, con i suoi leggiadri giochi d’azzardo, si poggiano.

Ben altre sono le preoccupazioni in cima alla lista delle priorità dei potenti della terra: come procedere velocemente a riammodernare i propri eserciti e i propri apparati di produzione bellica per stare al passo con la competizione globale, come procurarsi le condizioni di maggiore autonomia economica e commerciale rispetto ai sistemi imperialistici rivali, come posizionare le proprie pedine in modo soddisfacente e redditizio sullo scacchiere internazionale. Se nel frattempo aumentano le ondate di calore, le alluvioni, le inondazioni, gli incendi, se milioni di profughi sono costretti a fuggire da raccolti impoveriti o dalla siccità, se si verificano fenomeni irreversibili come lo scioglimento delle calotte polari e dei ghiacciai, questo fa parte della logica del loro gioco, in ogni conflitto ci sono effetti collaterali e loro lo sanno bene.

Il 2023 sarà probabilmente l’anno più caldo mai registrato da quando sono iniziate le misurazioni, in diversi mesi e a diverse latitudini si è già rilevato il famoso aumento di un grado e mezzo delle temperature medie, ma a Dubai si festeggia per aver stabilito in una solenne dichiarazione la necessità di una transizione “equa, graduale e giusta” al mondo di domani, questo è il destino già scritto che i proletari di tutto il mondo, organizzandosi, devono contrastare.

M

foto: commons.wikimedia.org

Sabato, December 30, 2023