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Home ›Un internazionalismo sciovinista
Alla ricerca di come dovrebbe comportarsi un militante comunista per definirsi internazionalista, il “Pungolo Rosso” avrebbe individuato in quella palestinese la causa del ”popolo più proletarizzato e irriducibile del mondo”. E denuncia “lo sterminio sionista del popolo palestinese”, applaudendo a quanti gridano la propria rabbia contro i macellai israeliani e i loro protettori e complici. Agli altri macellai che dirigono la “resistenza palestinese” ed organizzano imprese da ritenersi nobili e gentili (anche se identiche a quelle che Netanyahu compie contro gli abitanti di Gaza), il Pungolo non risparmia complimenti.
Evviva, dunque, quella “guerra di liberazione” per la quale le masse palestinesi sono chiamate a versare il loro sangue, convincendole che si tratterebbe di un conflitto “inseparabilmente nazionale e sociale”! Addirittura si scoprirebbe che la Palestina “ha cessato di essere solo la patria dei palestinesi per diventare la patria degli oppressi di tutto il mondo”… Non solo: la loro lotta “sarebbe salutata da tutti gli sfruttati e gli oppressi del mondo dotati di un minimo di coscienza di classe come una propria vittoria, un passo verso la propria liberazione”… Il “Pungolo Rosso” acclama perciò la forza della resistenza palestinese ed esprime il proprio “incondizionato” e integrale appoggio al Comando unificato delle Brigate al-Qassam: all’umano comportamento dei guerriglieri (le cui “file sono coese e forti”!) fa riscontro la ferocia dei soldati (in gran parte proletari) israeliani.
Si approva il lancio “quotidiano di decine e perfino centinaia di razzi auto-costruiti, di droni da attacco e droni modellati per contrastare quelli israeliani”. Colpiscono qualche proletario israeliano, già, ma questa è la guerra fra i… popoli e poiché gli oppressi e gli sfruttati di tutto il mondo esprimono (“quasi tutti”, si aggiunge…) solidarietà con il “popolo” palestinese, la logica bellica di ispirazione capitalistica esige che si spari a chi non è d’accordo. Senza inutili se e ma. Alla faccia di una ricerca di fraternizzazione tra i proletari degli opposti fronti borghesi!
Sul capitale, che tutti noi soggioga e opprime, nessun accenno specifico. Una volta che si è agganciato il proletariato al carro della solidarietà ”popolare” e lo si è trascinato sul terreno bellico, è però evidente che ci si è alleati – obbiettivamente – con gli interessi di un capitalismo-imperialismo dove uno Stato osteggia un altro per affermarsi a sua volta in quanto “nazione” e così meglio svolgere i propri affari. Giustificazione: saremmo in una fase storica ritenuta di sviluppo del capitale e quindi da riorganizzare, al di là della sua tendenza imperialista, e guardandosi bene dall’indicare ciò che oggi - per abbattere il presente stato delle cose - è fondamentale: l’unione dei proletari di tutte le nazioni del mondo, nessuno escluso.
Ma le borghesie non si dissolvono nel popolo, se non con una visione interclassista e di costruzione di un “unico grande Stato arabo”… antimperialista, dopo l’abbattimento dello Stato sionista. Non solo: con esso – specifica il “Pungolo Rosso” – si devono demolire anche “i regimi arabi suoi complici” affinché gli altri Stati si liberino da una ingombrante concorrenza economico-politica su di loro esercitata dal capitale, sì, ma solo da quello occidentale…. Insomma, qualcosa in più di una guerra “nazionale”.
Questo il risultato di una opportunistica divisione tra popoli oppressi e popoli oppressori, aggrediti e aggressori, evitando denunce critiche contro l’attuale modo di produzione e i suoi rapporti economici e sociali dominanti, compresa soprattutto la divisione del popolo in classi contrapposte. Gli “internazionalisti” del Pungolo hanno così trovato le ragioni per sottrarsi al compito della costruzione dell’indispensabile strumento di critica e di guida rivoluzionaria: il partito comunista del proletariato internazionale.
Ribadiamo ancora una volta la nostra posizione – un patrimonio che appartiene alla Sinistra italiana da un secolo - ovvero l’impossibilità di una indipendenza, se non formale, dalle sopravvenute centrali imperialistiche in lotta per una spartizione di aree geografiche del pianeta dove il capitale possa spandere la sua presenza e il suo dominio. Solo una rivoluzione proletaria che stabilisca un potere collegato ad un corso rivoluzionario internazionale, renderebbe possibile una autonomia dalla rete degli interessi imperialistici-capitalistici, in qualsiasi area essi si dispieghino, sia nelle metropoli sia nelle periferie.
Solo allora si potrà parlare di progressismo in senso logico e politico, dopo che si è demolita la stessa struttura di classe dello Stato nazionale e così avviata la successiva tappa anticapitalista verso il comunismo, finalmente libera dalle prospettive di un profitto quale insostituibile linfa vitale.
La borghesia di ogni paese (e il “popolo”, così come lo intende la borghesia e – a quanto pare – il Pungolo…) è nazionale per così dire anagraficamente, ma fa parte della borghesia internazionale che, col possesso dei mezzi di produzione, sfrutta la forza-lavoro del proletariato da lei politicamente controllato ed economicamente assoggettato. Partecipa – solo con differenze quantitative – alla spartizione del plusvalore estorto al proletariato del mondo intero. Sarà poi attorno a questa suddivisione del plusvalore e delle rendite parassitarie, che si svilupperanno i contrasti tra le borghesie dei paesi periferici e quelle metropolitane, sempre però sotto il vigile controllo dei centri imperialistici.
Sorgono tra loro conflitti che non riguardano né i rapporti di produzione né gli assetti sociali esistenti. Le borghesie nazionali sono tutte coinvolte nei circuiti internazionali del capitale, e si contendono posti al tavolo delle spartizioni del bottino, dove i più deboli cercano di opporsi agli eccessi dei più forti. Cosa ben diversa dalla lotta contro il capitale e i suoi centri imperialisti, in quanto una “tattica” basata su alleanze con borghesie nazionali significa asservire il proletariato a dinamiche di conservazione e rafforzamento del capitalismo.
Nell’epoca storica in cui viviamo (quella dell’imperialismo) nessuna alleanza sia pure temporanea è possibile, neppure con frazioni borghesi a cui viene attribuito un progressismo antimperialista con miracolosi sviluppi economici e sociali. Prigionieri di un regime che spaccia alcune “libertà” borghesi per il passaggio verso una emancipazione delle masse. In realtà rafforzando – e non indebolendo – la stretta delle catene del capitale, quelle che sprofondano nella miseria e nella oppressione il mondo intero. Lo impone il mantenimento di un ordine confacente ai centri imperialistici mentre si rafforza la lotta concorrenziale per la spartirsi zone di influenza economica e politica.
In questo contesto, il carattere borghese e la sostanza capitalistica del nazionalismo rivelano tutta la loro impotenza nel risolvere la condizione di miseria e di supersfruttamento delle masse proletarie e diseredate; è inoltre, va da sé, la negazione di una lotta che faccia sue tutte le generali rivendicazioni di classe dei lavoratori, puntando ad una unità fondamentale tra i proletari dei paesi oppressi e quelli dei paesi oppressori.
La conquista di una identità nazionale e una sede territoriale, anziché assicurare benessere per tutti e sconfitte per l’imperialismo, finisce sempre col cadere sotto il sostegno interessato di uno dei fronti dell'imperialismo. Con ciò si rafforza il dominio imperialista stesso, sottraendo intere sezioni nazionali di classe proletaria dalla generale lotta contro il capitale e la sua attuale fase imperialista.
Nella tattica di agitazione e propaganda, occorre denunciare le condizioni materiali delle masse oppresse, strumentalizzate dalle forze politiche nazionalistiche borghesi per i loro fini controrivoluzionari, per la conservazione e non per il superamento del modo di produzione capitalistico.
Ai proletari palestinesi, così come a quelli di Israele, noi – comunisti internazionalisti – non indichiamo la soluzione dello Stato nazionale per porre fine alle loro sofferenze ma nuove e più umane condizioni di vita e di lavoro, attraverso l’unità di classe con i proletari di tutti i paesi, verso il comune obiettivo della dittatura del proletariato e del socialismo.
La nozione di popolo viene dunque utilizzata con un sottinteso ritorno alla valorizzazione delle barriere nazionali e degli antagonismi fra Stati, considerando la guerra nazionale come una giusta rivendicazione dello stesso proletariato. Questo quando già nel terzo indirizzo della Prima Internazionale (marzo 1871, scritto da Marx) si leggeva che la guerra nazionale “non è altro che una mistificazione governativa (cioè della borghesa) la quale tende a ritardare la lotta di classe”.
Si evita la prioritaria questione della presenza di una avanguardia comunista in grado di smascherare qualsiasi alternativa politica borghese. Si vanno invece a rafforzare – non intaccandoli in alcun modo - proprio i rapporti di produzione capitalistici allontanando quella soluzione rivoluzionaria che sola potrà liberare l’umanità dal giogo del capitale.
Non è possibile contemporaneamente inseguire obiettivi confacenti agli interessi borghesi, ritenendoli adattabili a quelli proletari. Significherebbe tradire la nostra strategia rivoluzionaria. Il proletariato perderebbe la propria autonomia di classe e si troverebbe su un terreno non suo, con l'illusione che sia il cosiddetto popolo a condurre la guerra e non una classe specifica con la sua ben definita formazione sociale.
Ed è infatti il popolo il soggetto principale al quale si appellano questi internazionalisti da operetta. Noi saremmo ritenuti dei… “fessi” poiché ci estraniamo dal fenomeno di guerre presentate come nazionali; ci accusano pertanto di non tener in alcun conto gli impulsi spontanei e a volte “genuinamente” proletari (forse le manifestazioni nazionaliste?), che un comunista di nome e di fatto deve invece indirizzare sul terreno dello scontro di classe, respingendo quella fittizia questione della liberazione nazionale che non ci appartiene.
Da semplice causa nazionale, quale era al suo sorgere un secolo e mezzo fa, la liberazione di masse oppresse nei paesi periferici, si è colorata sempre più di ben altri significati sociali_,_ politici ed economici, andando oltre i limiti simbolici – che le verrebbero ancora assegnati - di una semplice rivendicazione… patriottica, tinteggiata persino di internazionalismo.
Questo di fronte ad una classe borghese (definita “uno strato” del popolo…) composta di affaristi e di burocrati (palestinesi benestanti), godendo di ricchezza, agi e privilegi, mentre il resto, la grande massa proletaria e semi-proletaria, non risulterebbe vittima dello sfruttamento capitalista bensì della oppressione di un altro popolo. Una oppressione ritenuta intollerabile perché non direttamente agganciata al capitale…nazionale, il quale – per altro – i suoi interessi in buona parte li sa ben soddisfare!
Seppure questo non lo si dica apertamente, sono questi gli sviluppi di una logica derivante da impostazioni e obiettivi strategici che gli stessi pseudo internazionalisti ci propongono. Quanto poi ai “proletari israeliani”, la loro stessa esistenza verrebbe considerata solo a seguito di una separazione dai propri governanti con un sostegno alla resistenza palestinese nella sua lotta “senza quartiere” per l’autodeterminazione nazionale. Come se non bastasse, d’altro canto, i proletari palestinesi dovrebbero pure suggerire - alla dirigenza borghese del conflitto - “i corretti modi di condurre la lotta anche sotto l’aspetto specificamente militare”...
La mattanza di Gaza confermerebbe infine a quelli del Pungolo Rosso la crisi dell’attuale ordine mondiale, ma non quella del capitale, della sua valorizzazione e accumulazione. Basterebbe forse abbattere Israele per ottenere “la liberazione di tutti i diseredati e gli sfruttati del mondo”? Anziché ad un conflitto di classe, il proletariato viene spinto a sacrificarsi in una guerra di contrapposte nazionalità e a salvaguardia di interessi economici borghesi, dove l’ideologia patriottica costituisce un pericolo dagli sviluppi controrivoluzionari e quindi provocanti un disarmo di classe del proletariato. Ancora una volta costretto a soprassedere a quelle «rivendicazioni che solo la sua lotta insurrezionale con la sconfitta dell’imperialismo mondiale potranno ottenere». Lo affermavano già un secolo fa – è bene ricordarlo – le Tesi che la Sinistra presentò al Congresso di Lione (1926) del PCd’Italia, dove lo stalinismo, e dietro di lui un ossequiente Gramsci, defenestrarono la nostra corrente dalla guida del Partito. La storia si ripete anche se oggi persino un Gramsci può sembrare un leone (anche se spelacchiato…) di fronte alle belanti pretese di un internazionalismo dall’anima sciovinista.
Conclusione - Da quando il sistema capitalistico è entrato nell'era del capitale finanziario, le guerre di liberazione nazionale hanno perso ogni specifica ragione progressiva, togliendo così definitivamente alle masse ogni possibilità di autonomia e di autodeterminazione. I loro interessi contrastano con quelli delle borghesie sia dei singoli paesi sia dei blocchi imperialistici. Così il “popolo palestinese” non svolge (né potrebbe mai farlo), alcun ruolo progressivo che possa essere funzionale alla lotta di classe. Non va ad intaccare le catene del dominio capitalista, ed anzi le rafforza nel momento stesso in cui coinvolge il proletariato in una lotta per la “indipendenza” di uno Stato borghese, là dove il capitalismo domina ogni rapporto produttivo e sociale.
Non vi sono – al di fuori di una rivoluzione contro il capitale - guerre giuste o ingiuste, di aggrediti e di aggressori, ma soltanto guerre di rapina. Dove il proletariato è trascinato ad una collaborazione con la propria borghesia: questo è già accaduto e – purtroppo – si potrebbe ripetere se non sapremo costruire, al più presto, uno schieramento internazionale del proletariato, guidato dal Partito rivoluzionario per l'abbattimento violento del sistema sfruttatore e parassitario del capitalismo mondiale.
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