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Prendiamo in considerazione una intervista del Pungolo rosso al Si Cobas1, al suo dirigente di maggior spicco, colui che organizza le lotte nella logistica, che coordina istanze rivendicative con l’indizione degli scioperi e che detta anche la linea politica su cui il suo sindacato dovrebbe muoversi. Va detto che il Pungolo rosso e il Si Cobas collaborano strettamente sia sul terreno politico che su quello sindacale. Non di meno lo stesso sindacato, sempre secondo il suo dirigente, avrebbe il dovere, oltre all’ambizione, di comportarsi come una nascente struttura politica in grado di suggerire linee guida al proletariato. Il tutto in termini di lotta di classe dentro e fuori la fabbrica o posto di lavoro. Almeno queste sono le intenzioni.
Nel caso specifico, l’intervista è quella della guerra di “Palestina”, dove il dirigente in questione risponde a una serie di domande sul Si Cobas, come dire che Aldo intervista Milani sulla base di domande fatte ad hoc dal Pungolo rosso, a cui corrispondono risposte precedentemente concordate. Ma non è questo che interessa, quanto il contraddittorio contenuto politico che emerge e che di internazionalismo ha veramente molto poco.
Partiamo da una risposta che contiene una considerazione di Aldo Milani che dovrebbe essere il paradigma di tutta la sua intervista sulla guerra in atto tra Palestina-Israele e l’internazionalismo proletario: “Questa nostra decisione (sulla guerra di Palestina) non cade dal cielo. Da sempre il SI Cobas sente di avere obblighi di solidarietà nei confronti dei proletari di tutti i paesi del mondo. Il nostro sindacato è composto da lavoratori e lavoratrici di più di 35 diverse nazionalità. Molti di loro provengono dai paesi arabi e di tradizione islamica. Perciò posso affermare che il SI Cobas ha l’internazionalismo proletario nel suo DNA”. Buona premessa che dovrebbe portare dritto dritto ad una lotta che unisca i fronti proletari nazionali e internazionali o, quantomeno, quelli dell’area medio orientale, che sfidi ogni sorta di nazionalismo, che chiarisca sino in fondo che gli interessi proletari sono inconciliabili con quelli borghesi, sia in tempi di pace che, a maggior ragione, in quelli di guerra.
Ma le cose non stanno così.
“Siamo fieri di essere il primo sindacato a prendere questa decisione [sciopero contro l'intervento militare israeliano a Gaza, ndr], che accoglie l’appello lanciato dal movimento sindacale palestinese... a sostegno della resistenza palestinese e contro lo stato di Israele”.
Frase lineare quanto ambigua, non si parla di guerra, dei suoi fronti e non si denuncia lo scenario di proletari che uccidono altri proletari, di civili barbaramente uccisi sia da una parte che dall’altra, come in tutte le guerre che il capitalismo inscena da sempre. Ambiguità però che va chiarendosi con le risposte successive.
A questi problemi: “Rispondo in sintesi riprendendo alcuni concetti che con altri compagni internazionalisti abbiamo esposto in tutti questi anni. La nostra posizione non esprime solo un sentimento di indignazione e di rabbia contro chi oggi opprime e massacra una popolazione per conto dei propri interessi capitalistici strettamente legati a quelli degli stati imperialisti, gli Stati Uniti in primis, ma tende anche a far emergere un punto di vista di classe contro le classi borghesi alla scala mondiale”. Intanto va subito notato come nulla si dica sulla borghesia di Hamas che ha sede a Doha, che riceve finanziamenti dal Qatar e armi dall’Iran, che fa parte del blocco imperialistico russo-cinese, ma si parla solo di Israele, della sua criminalità nella Striscia e dell’imperialismo americano che, con tutto l’Occidente, Italia compresa, sostiene il criminale Netanyahu. Il silenzio sullo scenario imperialistico in cui si svolge la guerra tra Hamas e Israele è addirittura imbarazzante A difesa di un simile netto collocamento nello schieramento bellico ecco la giustificazione politica:
“Come si può mettere sullo stesso piano il radicalismo reazionario dei coloni israeliani che pretendono dal proprio governo un uso ancor più massiccio e brutale dell’esercito per scacciare a tutti i costi i palestinesi da ogni angolo della loro terra, e la resistenza delle masse palestinesi a Gaza e nella Cisgiordania contro l’oppressione dello stato di Israele e le continue aggressioni dell’esercito e dei coloni? Come si può mettere sullo stesso piano chi opprime, tortura, uccide nel tentativo di portare a termine il proprio progetto di colonialismo di insediamento, e la parte più viva della popolazione palestinese che alla morte lenta per mano del nemico preferisce scendere in lotta per rendere evidente che la sua condizione è insopportabile? E anche se lo fa, come è stato e come è, sotto una dirigenza opportunista con interessi che sono in conflitto con le esigenze delle masse sfruttate palestinesi, non per questo può venire meno la nostra solidarietà”.
Se la mettiamo sul piano della quantità, non c’è confronto. Militarmente, Israele è nettamente superiore ad Hamas. Sul computo dei morti la bilancia, come sempre, pende dalla parte palestinese. La storia della nascita di Israele, la Nakba, catastrofe per gli arabi che dura da decenni, ci insegna come il sionismo non abbia rispettato mai nulla sul piano del diritto internazionale e delle soluzioni ONU, per quello che valgono! La farsa dei due popoli e due stati ha funto soltanto da ingannevole narrazione di cui si è servita più Tel Aviv che la Striscia di Gaza e la Cisgiordania. Ma se la mettiamo sul lato borghese del radicalismo reazionario siamo allo stesso livello. Per cui la “solidarietà” come il tifo per i più deboli non sono categorie politiche che abbiano spazio nei giardini del capitalismo. Nella fase storica del dominio imperialistico non si distingue tra ricco e povero, tra forte e debole e nemmeno tra il più infame tra gli infami. O gli sfruttati si muovono sul sentiero di classe a difesa dei propri interessi oppure diventano carne da macello per le rispettive borghesie, per i loro interessi economici da raggiungere a qualsiasi costo, anche con le più inumane delle barbarie. Questo vale per la borghesia stracciona di Hamas, che vive nell’agio di Doha in Qatar e che si serve del popolo palestinese per continuare a vivere ben al di sopra delle proprie possibilità, che per il regime fascista di Tel Aviv. Entrambi trucidano civili, bombardano ospedali a salvaguardia della propria sopravvivenza nazionalista, borghese e reazionaria. Questo e non altro impone il capitalismo sotto qualsiasi latitudine politica. Ed è questo l’unico scenario possibile, dove è impossibile scegliere da che parte stare, anche se stare dalla parte della borghesia più debole sembrerebbe politicamente più corretto e più confacente al concetto di “solidarietà” che ne consegue. Se poi la volessimo mettere su di un terreno più coerentemente politico, le posizioni di “solidarietà” crollano miseramente di fronte alla crudele realtà dei fatti . Sempre nell’intervista leggiamo:”Ma tutto ciò non deve offuscare il dovere irrinunciabile di qualunque forza comunista, realmente internazionalista, e di un sindacato di classe come il SICobas, di appoggiare la lotta palestinese indipendentemente dalla sua direzione politica e militare”.
Bei comunisti quelli che appoggiano un movimento indipendentemente dalla sua guida politica. A parte l’ovvia considerazione che nel caso dei palestinesi a muovere le masse è stata la direzione di Hamas e non le masse stesse in cui, secondo una recentissima indagine statistica, prima del 7 ottobre, l’indice di gradimento politico di Hamas era sceso al 27% tra la popolazione della Striscia. A parte il fatto che anche in questo caso i proletari, i contadini, i piccoli commercianti, studenti e intellettuali che hanno risposto all’adunata di Hamas hanno fornito la solita carne da macello alla propria borghesia che vive a “sbafo” nell’agio dei petrodollari di Doha e che dell’impossibile nazionalismo palestinese si serve solo per continuare la propria vita parassitaria, concedendosi oltretutto come strumento politico nelle mani di borghesie più strutturate del Golfo, ma anche fuori, e con la massima indifferenza delle sue proprie vittime civili. Si aggiunga che nel programma della guida di questo movimento - come in quello di tutte le organizzazioni jihadiste - oltre ad essere razzista e omofobo, contro le più elementari forme sociali relative ai diritti umani (anche borghesemente intesi), in modo particolare quelli delle donne, si tende ad una forma ECONOMICO-SOCIALE DI TIPO CAPITALISTICO, conservatore e reazionario, che nemmeno il fascismo del xx secolo era riuscito a concepire. Ciliegina sulla torta, nel suo statuto, come in quello della Repubblica teocratica dell’Iran, o in quello del defunto ISIS, degli Hezbollah c’è un intero paragrafo dedicato all’anticomunismo, quale imprescindibile bagaglio dottrinale di ogni buon militante jihadista. Ma si prosegue: “alla base delle posizioni dei comunisti e dei militanti dell’organizzazione sindacale SI Cobas – ovvero: quando è in corso una guerra, come quella attuale, che vede scontrarsi uno stato colonialista come Israele, protetto dall’insieme dei paesi imperialisti occidentali, e una popolazione come quella palestinese che si batte per la propria liberazione nazionale, non è possibile discutere da che parte stare”. Infatti, non c’è niente da discutere, scegliere tra due feroci fascismi non è compito dei comunisti né ha valore tifare per il più debole come se si dovesse per forza scegliere uno dei contendenti, solo perché non ci sarebbe altra alternativa. E’ proprio lo schema caro all’imperialismo: o stai con me o contro di me, o sei per un capitalismo laico o per uno confessionale, o sei per la “democrazia” o per la dittatura, e se sono dittature entrambi scegline una. L’importante è scegliere tra due modi di concepire ed organizzare lo sfruttamento che ingrassa, poco o tanto, le borghesie di questo mondo, perché qualsiasi alternativa (comunismo) metterebbe in difficoltà il tutto. Un tutto che è già in profonda crisi economica strutturale, vive sui debiti, ha sempre maggiori difficoltà di valorizzazione dei capitali produttivi. Crisi che invoglia i capitali a fuggire l’economia reale per rifugiarsi nella speculazione, che ricorre alla carneficina delle guerre per sopravvivere alle proprie contraddizioni, facendole pagare a proletari che a qualsiasi titolo vengono assorbiti nel vortice della barbarie capitalista. Scegliere un fronte di questa barbarie significa contribuire al gioco dell’imperialismo “distruggere per ricostruire” e non ha senso attestarsi su di un fronte anche se lo si ritiene meritevole di appoggio “morale”. Però di quale morale è possibile parlare.
Ma il Si Cobas non accenna nemmeno un attimo a scegliere il suo fronte, quello dei deboli, ribadendo che il compito dei comunisti: “quando è in corso una guerra, come quella attuale, che vede scontrarsi uno stato colonialista come Israele, protetto dall’insieme dei paesi imperialisti occidentali, e una popolazione come quella palestinese che si batte per la propria liberazione nazionale, non è possibile discutere da che parte stare”. Riprendiamo la citazione perché non sfugga l’assoluta mancanza di conoscenza di dove gli schieramenti imperialistici siano arrivati e di come tirino le fila di qualsiasi situazione si determini sullo scenario internazionale, sia che si tratti di Europa (Russia-Ucraina), Medio oriente (Palestina-Israele) o Indo pacifico (Taiwan), per non parlare delle guerre d’Africa (Sudan, Ciad, Niger ecc…). E ci risiamo, con l’aggiunta di una postilla nazionalistica dedicata non agli internazionalisti, ma a quei comunisti che pensano ancora che nella fase storica del dominio imperialista esistano delle soluzioni nazionali, autonome e indipendenti come fin verso la fine del secolo XIX. Oggi i residui delle istanze nazionali - palestinesi, curdi , uiguri, ceceni - sono completamente nelle mani delle maggiori centrali imperialistiche e i loro destini sono legati alle strategie geopolitiche di Washington, Pechino,Mosca e, a scendere, Ankara, Teheran ecc.. Questi nazionalismi servono per le loro guerre di procura, vengono illusi, usati per scopi che nulla hanno a che vedere con le loro aspirazioni e poi mollati al loro destino come i curdi del Rojava di Siria che, dopo aver combattuto per gli americani contro l’ISIS, sono stati lasciati nelle mani di Erdogan, che ha provveduto immediatamente a sterminarne una buona parte. E poi – insistiamo - non ci si accorge nemmeno per sbaglio che se il movimento palestinese guidato da Hamas combatte contro il nazionalismo di Israele sostenuto dagli Usa che armano e finanziano Tel Aviv, la borghesia di Gaza riceve armi e soldi dal Qatar e dall’Iran, altro stato jihadista e anticomunista che, a sua volta appartiene ad una cordata imperialistica costituita da Russia, Cina e Corea del Nord. Forse questa svista è dovuta al fatto che nella guerra tra Russia e Ucraina il Si Cobas non ha saputo scegliere avendo un occhio che guardava a destra e uno a sinistra, nel dubbio si è astenuto - anche se, sotto sotto, sostiene il diritto all'autodeterminazione dei popoli, (per es., in Donbass) - e nell’occasione l’internazionalismo, la lotta agli imperialismi hanno momentaneamente retto. Nonostante questo: “Siamo convinti, infatti, che la soluzione della questione palestinese necessita che la spaccatura della società israeliana vada avanti, e si creino le condizioni (che al momento non ci sono ancora) perché gli sfruttati di Israele cooperino e lottino insieme alla massa degli oppressi palestinesi, _così da poter aggredire e distruggere la macchina del sionismo dall’esterno e dall’interno”_. Finalmente qualcosa di quasi internazionalista! Molto quasi però, perché non si può enunciare la necessità che i due proletariati cooperino tra di loro per poi favorire una borghesia piuttosto che un’altra, in questo caso quella palestinese in danno di quella israeliana. E’ pur vero che oggi queste condizioni di cooperazione tra sfruttati non esiste, ma questo non dà il diritto ad una scelta di campo nella tragedia proletaria della guerra. L’unica “soluzione” nella attuale fase di impotenza rivoluzionaria che dovrebbe vedere impegnati i proletariati di tutta l’area e non solo quelli palestinesi e israeliani, è quella di creare almeno le condizioni soggettive internazionaliste, anti-borghesi, anti-capitalistiche perché un domani, che si spera prossimo, le nuove avanguardie di classe possano essere il punto di partenza e di riferimento per una alternativa sociale. Questo però non potrà mai avvenire se, in un contesto di guerra guerreggiata, dove due nazionalismi si scontrano e due blocchi imperialisti fungono da sostegno alle parti in causa, ci si butta a capofitto nella oscena barbarie della guerra, difendendone un fonte contro l’altro, senza nemmeno dire con forza che si deve lavorare per una futura soluzione di classe. D’altra parte, come si potrebbe indicare la necessità di una prospettiva classista e internazionalista, anche se di prospettiva temporale a non breve scadenza, se lanciata da un pulpito fatto di missili e di carri armati, di distruzione e di morti civili a decine di migliaia e, soprattutto, quando se ne è parte attiva indipendentemente del fronte scelto?
Nulla da fare, per il Si Cobas : “La precondizione per muoversi in tal senso è dare tutto l’appoggio possibile alla lotta delle masse palestinesi, indipendentemente da chi attualmente ne egemonizza la direzione politica”. Siamo sempre lì, ma con una chicca in più : “Ciò significa operare una chiara scelta di campo: contrapporsi all’oppressione imperialista in Palestina e nell’area medio-orientale, nella consapevolezza che questa oppressione serve anche ad alimentare la sottomissione del proletariato nelle metropoli. Questa scelta strategica di aperta e piena solidarietà non equivale, però, a ritenere ininfluente chi e come dirige tale lotta. _Noi siamo convinti che il proletariato e le masse povere palestinesi possano assumere su di sé i compiti di una rivoluzione democratica conseguente. E vogliamo contribuire a che questo avvenga_”. Non solo si rimane legati alla scelta di campo, diventando di fatto parte attiva della guerra imperialista che si sta combattendo sulle teste dei due proletariati, ma ci si augura che la loro solidarietà (che potenza questa solidarietà!) contribuisca a contenere la strategia reazionaria di Hamas. Non per inserire l’idea, almeno quella, della costruzione di un processo politico internazionalista che investa tutta l’area medio-orientale, perché serva da base per una crescita della coscienza di classe di queste masse fatte salire a forza sul carro (armato) delle rispettive borghesie. No: aa critica ad Hamas è infinitamente inferiore all’appoggio incondizionato alla sua direzione del movimento, per poi clamorosamente contraddirsi su tutti i fronti politici possibili, auspicando che lo stesso movimento palestinese, tenuto lontano le mille miglia da una prospettiva di classe, anche se proiettata a lungo termine, si faccia interprete, udite udite, di una rivoluzione sì, ma democratica sotto l’egida politica di una borghesia che abbia perso i connotati peggiori dello jihadismo. Una sorta di ritorno al laicismo dell’OLP di Arafat ai tempi della guerra fredda, dove i due imperialismi dominanti, Russia e Usa, spalleggiavano i rispettivi nazionalismi con i risultati che sappiamo e le cui conseguenze si ripropongono ancora adesso. “Ottima” soluzione per chi ritiene che non essendoci all’ordine del giorno la possibilità immediata di una rivoluzione proletaria, si debba ripiegare su di una “rivoluzione” democratica, che dovrebbe vedere come soggetti operanti i due popoli, quello palestinese e quello israeliano, legati da una sorta di antifascismo sotto il quale convivere in pace. Sembra la favola della bella addormentata nel bosco e del principe azzurro, che dopo qualche peripezia vissero felici e contenti. Il SiCobas ne è così convinto da proclamare che altrimenti: “le due sole strade che rimangono sono quelle opposte ma complementari: il nullismo, l’indifferentismo parolaio che si limita a registrare la distanza dell’attuale direzione della resistenza palestinese dal programma del comunismo; oppure l’opportunismo di quanti si subordinano al nazionalismo liquidatorio e inconseguente delle direzioni borghesi o piccolo-borghesi palestinesi, finendo spesso con l’appoggiare le false soluzioni avanzate dagli Usa, dall’UE, dall’ONU, tutte volte a perpetuare il dominio imperialistico”.
E l’Iran, Cina e Russia che non vengono mai menzionati in che casella li mettiamo? O vale il solito distinguo in base al quale l'imperialismo è solo quello occidentale capeggiato dagli Usa e gli altri imperialismi vengono declassati a vittime o comprimari? E’ l’assoluta dimostrazione che l’analisi del SiCobas sull’evolvere storico del capitalismo nella sua fase imperialista è rimasta al XIX secolo e anche in questo caso con paurose lacune di strategie politica. Al di là di queste fregnacce, pur ammettendo che la rivoluzione comunista non è certo oggi all’ordine del giorno nell’area medio-orientale, vale sempre il principio che il compito dei rivoluzionari è quello di creare almeno le condizioni soggettive della prossima ripresa della lotta di classe che certamente non possono passare dal sostegno di qualunque borghesia nazionale e dall’alleanza con altri imperialismi che non siano quello “made in Usa”. In questo secondo caso saremmo alla peggiore delle negazioni dell’evidenza. La tragica vicenda palestinese non può essere risolta da un passaggio democratico rivoluzionario che, se effettuato, con tutti i dubbi che provengono dalle esperienze delle recenti rivolte arabe, lascerebbe le cose come stanno, con l’aggravante di consentire al potere entrante di essere peggiore di quello abbattuto (vedi Tunisia, Egitto, Yemen ecc..). Di lasciare i rapporti di produzione intatti, basati su di uno sfruttamento ancora più intenso dovuto alla crisi strutturale del mondo capitalistico. Di cancellare dall’orizzonte proletario quel minimo di speranza per una società migliore, se i sedicenti rivoluzionari internazionalisti, invece di preparare il terreno alla futura alternativa inoculando i germi di una ripresa della lotta di classe, si collocano sul terreno degli interessi di una borghesia nazionale in nome di una rivoluzione democratica. Il che è esattamente l’antitesi di una tattica che abbia come obiettivo, anche se non immediato, l’internazionalismo proletario, la lotta alla guerra comunque giustificata, l'indicazione, sempre e comunque, che i proletari o combattono per le loro borghesie e per gli imperialismi di riferimento, sparando gli uni contro gli altri, o imboccano la difficile strada dall’autodeterminazione rivoluzionaria guidati dal loro partito. Di scorciatoie democraticistiche nell’epoca dell’imperialismo non c’è spazio. Se va bene è pura illusione, altrimenti è opportunismo.
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