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Home ›Alcune considerazioni sul “nuovo” capitalismo di stato
Se c'è una cosa che so, è che la ricchezza non la crea lo Stato, la creano le imprese e i lavoratori
così avrebbe sentenziato la prima ministra Meloni nel suo libro (Io sono Giorgia, pag. 131). Usiamo il condizionale, perché non abbiamo lo stomaco di leggere – e tanto meno comprare – le esternazioni di un personaggio abile nel muoversi tra la melma del politicantismo borghese, ma certamente sguarnito di doti che vadano oltre quella specifica abilità. La frase in questione è stata però citata spesso nella “rete” da fonti autorevoli, per così dire, e, nella sostanza, usata in alcune dichiarazioni pubbliche, quindi la prendiamo per buona.
E' un'affermazione che se i “fascisti trattenuti” ora al governo fossero coerenti con la loro storia, potrebbe stupire, visto che nonno Benito, di fronte alla crisi del 1929, aveva creato uno dei più vasti apparati di capitalismo di stato dell'Occidente, che poi, com'è noto, è transitato senza colpo ferire nella repubblica “nata dalla Resistenza”, A dire il vero, il nonno di “Giorgia” non fu il solo a mobilitare lo Stato per cercare di tirare fuori dal ginepraio delle sue proprie contraddizioni il capitale, era anzi in folta compagnia. Lasciando da parte l'URSS, dove si costruiva capitalismo di Stato dal 1928, basta ricordare il New deal e la Germania nazista, dove lo stato, sia pure con modalità diverse, entrò massicciamente nella gestione dell'economia nazionale per salvare il capitalismo da se stesso. Non furono però le ricette democratiche né quelle fasciste a risollevare saggi di profitto in caduta libera, solo la guerra, con le sue immani distruzioni di capitale costante (fabbriche, infrastrutture ecc.) e di capitale variabile (forza lavoro, ossia esseri umani), con l'intensificazione straordinaria del saggio di sfruttamento, raggiunse l'obiettivo di dare nuovo slancio a un sistema al collasso. La guerra, infatti, o un evento di portata simile, è l'unico mezzo con cui il capitale può sciogliere il nodo gordiano delle proprie contraddizioni giunte al capolinea. Se vogliamo, la sconfitta del blocco sovietico nella “Guerra Fredda”, con la drastica svalorizzazione del capitale conseguente al crollo di quel mondo(1), assieme alla cosiddetta globalizzazione, ha dato al capitalismo la possibilità di tirare avanti in questi decenni, nonostante la fine del ciclo di accumulazione originato dal secondo conflitto mondiale negli anni Settanta del secolo scorso. Poi, siccome il capitalismo di stato, espresso in varia misura e in vario modo, aveva accompagnato e sostenuto i “Trenta gloriosi” (gli anni del boom), quando questa fase si chiuse gli ideologi della borghesia – o meglio, di quella frangia borghese ostile da sempre (almeno a parole) alla “ingerenza” dello Stato nel libero mercato (?!) - ebbero gioco facile nell'addossare per lo più al dirigismo statale le difficoltà che appesantivano e appesantiscono l'economia mondiale. Si era aperta l'era del cosiddetto neoliberismo, i cui “campioni” furono Reagan e la Thatcher, con la svendita massiccia, a favore delle imprese e della speculazione, di pezzi importanti delle aziende statali. Il dogma – sempre smentito – era che solo una gestione di tipo privatistico del capitale poteva ristabilire le regole del “libero mercato”, presupposto di ogni sana e duratura crescita economica; era dunque imperativo liberarlo dai lacci che lo statalismo gli aveva stretto al collo, fin quasi a soffocarlo. Naturalmente, tra i “lacci” spiccava la regolamentazione del mercato del lavoro che la borghesia aveva adottato nel corso della fase ascendente del ciclo economico, di concerto col sindacato e la socialdemocrazia (comunque essa si chiamasse), quale strumento per controllare e contenere la lotta di classe entro i limiti delle famigerate compatibilità borghesi – economiche, sociali, politiche. Dunque, parallelamente alle privatizzazioni delle aziende statali, anzi, come passo preliminare, cominciava la guerra o, meglio, la guerra ad alta intensità, tutt'ora in corso, alla classe salariata(2) al fine di imporre un saggio del plusvalore tale da ristabilire le condizioni per lo sviluppo di un nuovo ciclo di accumulazione a scala mondiale. La progressiva erosione dei servizi sociali – dalla sanità alla scuola, alle pensioni e via dicendo – e il passaggio progressivo alla loro gestione da parte dei privati(3), propriamente non è una privatizzazione, ma un furto senza destrezza del salario indiretto e differito, che la forza lavoro versa nelle casse dello stato. In questo modo, quote crescenti di salario finiscono nelle tasche di soggetti privati (aziende e singoli) o rimangono inutilizzate, cioè perse dal proletariato, a vantaggio dei conti pubblici ossia delle istituzioni borghesi. Si sta parlando, prima di tutto, del sistema sanitario che, a causa dei tagli operati da governi di ogni colore, costringe “l'utenza” a rivolgersi al privato o a rimandare a data da destinarsi esami e visite specialistiche.
Ritorniamo quindi all'affermazione della Meloni, improvvisatasi teorica dell'economia, che, girando la foto di famiglia, quella degli anni Trenta del Novecento, ne mette in bella vista un'altra, quella degli anni Venti dello stesso secolo, quando il fascismo, appena giunto al potere,si affrettò a pagare i propri debiti con industriali, agrari, borghesi di ogni categoria che l'avevano insediato al vertice dello stato. Venne quindi adottata una politica economica liberista che “liberava” il mitologico mercato dalle “bardature” stataliste del tempo di guerra e dal “compromesso riformista” messo in atto nel Biennio rosso per anestetizzare prima e strangolare poi la spinta rivoluzionaria del proletariato. Due strade diverse in due momenti diversi del processo di accumulazione per raggiungere lo stesso obiettivo: la difesa della borghesia e lo schiacciamento della classe operaia.
In quella frase lapidaria, che condensa i più triti, ma anche ipocriti, luoghi comuni del pensiero borghese, sono contenute due cose vere e una falsa. Quella falsa, naturalmente, è che siano le imprese, cioè i capitalisti, a produrre ricchezza, perché chi la produce – prima cosa vera – è la classe lavoratrice, ma può produrla solo finché il suo sfruttamento remunera adeguatamente il capitale, nei tempi e nei modi richiesti per la sua valorizzazione, unica ragione d'essere della suddetta impresa. Se i “lavoratori” potenziali o effettivi sono numericamente esuberanti(4), allora ci sono la disoccupazione, la sottoccupazione (leggi precarietà), il sottosalario, per altro strettamente funzionali al ristabilimento di quelle condizioni che permettono una più intensa estorsione di plusvalore dalla fatica “operaia”, fisica e mentale.
Vero anche che lo stato in genere non crea ricchezza, ma se le imprese statali producono e vendono merci come qualsiasi altra impresa, allora si può dire che lo stato, come qualsiasi altro capitalista, crea ricchezza secondo il punto di vista borghese(5).
Ma non è a questo che si riferisce la Meloni quando pontifica sul ruolo economico dello stato. Le sue intenzioni, in linea con i desiderata di Confindustria e della famelica piccola borghesia che la sostiene con fanatismo, sono quelle di trasferire quanta più “ricchezza” possibile dalle tasche di chi la produce realmente, la classe lavoratrice appunto, a quelle delle aziende di ogni caratura e ragione sociale, proprio attraverso quegli interventi dello stato che, a parole, dice di aborrire. I metodi sono sempre quelli, utilizzati da chi era al governo prima e da chi verrà dopo: come s'è già detto, rapina del salario indiretto e differito, compressione di salari e stipendi, non ultimi quelli della pubblica amministrazione, taglio delle imposte per i redditi alti, incentivo all'evasione fiscale, con l'inevitabile degrado dei servizi sociali che si abbatte sul proletariato, peggiorandone significativamente la qualità della vita.
Se è vero, dunque, che in linea teorica – ma anche pratica, con le rilevanti e diffuse “eccezioni” nominate sopra - lo stato non crea ricchezza, ha però un ruolo fondamentale nel sostenere l'economia: rispetto al capitalismo di stato “tradizionale” sono cambiate la forma e le modalità di intervento “pubblico”, ma non la sua centralità. Questa centralità non è legata agli ultimi drammatici eventi, a cominciare dalla pandemia - se mai è stata sottolineata - viene da lontano, dalle trasformazioni subite dal capitalismo in oltre un secolo. Benché il mercato autoregolantesi, libero da ingerenze esterne, non sia mai davvero esistito, l'apparizione del monopolio, generato dalla concorrenza – a sua volta prodotta e accelerata dalla “legge più importante del capitale”, la caduta tendenziale del saggio medio di profitto – ha spinto la concentrazione e la centralizzazione dei capitali, che hanno archiviato la fase “liberista” del capitale, sfociando nell'imperialismo e nell'interventismo crescente dello stato, non più come semplice bastone per “tenere al suo posto” la classe operaia, ma come sostegno indispensabile tanto al processo economico quanto alla gestione/amministrazione della società borghese(6). La sua complessità, gli enormi investimenti necessari per tante infrastrutture (per esempio, le ferrovie, le vie di comunicazione), a fronte di profitti scarsi a causa di un'altissima composizione organica del capitale in quei settori, hanno spinto la borghesia a delegare allo stato tali investimenti indispensabili per il sistema capitalista, ma poco o per niente remunerativi in termini di profitto.
Certo, non per tutte le borghesie è stato così(7) o in misura eguale, ma soprattutto per quelle che sono arrivate in ritardo sulla scena dell'industrializzazione, l'uso dell'organismo statale a fini “sviluppisti” è stato fondamentale (Germania, Italia, Giappone...). A maggior ragione lo era per le borghesie emerse dalle cosiddette lotte di liberazione nazionale nella seconda metà del secolo scorso, e anche adesso la borghesia di stato continua a governare molti di quei paesi.
E' un'evoluzione, lo ribadiamo, che viene da lontano, mossa dalle leggi interne del capitale, le leggi che portano inevitabilmente alla guerra, la quale costituisce un punto di svolta nella gestione stessa del capitale, come dimostrano i due macelli imperialisti mondiali. In tanti documenti di partito dell'immediato secondo dopoguerra, si individuava nella tendenza al capitalismo di stato lo sfondo su cui agiva la borghesia da una parte e dall'altra dell'Atlantico e la fine definitiva di ogni illusione liberoscambista. Ne è un esempio, tra i tanti, un articolo in cui si diceva che «Il sistema capitalista non può più funzionare “da solo” come nell'epoca liberale: ha bisogno ad ogni momento di un intervento dirigista dello Stato. Ecco perché, ad onta di un liberalismo di pura facciata, gli Stati Uniti e gli altri paesi hanno dovuto preparare, prima ancora che la guerra finisse, dei piani di rapida “riconversione” per evitare che l'arresto della produzione di guerra determinasse una crisi economica profonda, suscettibile di degenerare in crisi sociale e politica» . En passant, per così dire, si faceva notare che «nella situazione attuale, il capitalismo non può vivere che riducendo continuamente il livello di vita delle masse»(8). Analisi quanto mai puntuale, e se è vero che proprio la riduzione del “livello di vita delle masse”, cioè il supersfruttamento, l'abbassamento del salario al di sotto del pur modesto valore della forza lavoro di allora hanno posto le basi del ciclo di accumulazione ascendente del dopoguerra, con l'innalzamento del tenore di vita della classe operaia (innalzamento mai regalato, per altro...), non è meno vero che adesso, oltre settant'anni dopo, tanto la borghesia quanto il proletariato si trovano in un quadro simile, per aspetti non secondari, ma di segno opposto. Oggi, l'impoverimento, il supersfruttamento del proletariato e l'intervento dello stato non spianano la strada a un nuovo “miracolo economico” (né in Italia né altrove), ma devono mantenere in terapia intensiva il capitale, impossibilitato a superare la propria crisi di accumulazione, a rianimare un saggio di profitto in forte carenza di ossigeno. Se quindi in questi ultimi decenni lo stato si è ritirato – mai del tutto, anzi – dalla gestione diretta delle imprese e di interi settori dei servizi pubblici, ha però solo cambiato le modalità del suo intervento a favore del capitale.
Ma prima di esaminare le “nuove” forme di capitalismo di stato, bisogna sottolineare che l'insulsa retorica neoliberista sulle privatizzazioni ha messo in ombra un fenomeno, in crescita, guardato con apprensione da chi vuole tenere alta la bandiera del libero mercato in versione Adam Smith (corretto Keynes...) e non Thatcher o... Meloni. Diamo la voce ai nostalgici dell'economista scozzese: «Il CdS [capitalismo di stato, ndr] presente in tutto il mondo e con attività che a volte oltrepassano i confini nazionali, comprende i fondi sovrani (Sovereign Wealth Funds, SWF) ed aziende controllate (o sulle quali viene esercitata un'influenza significativa) dai governi centrali o locali (State Owned Enterprises, SOE). L'importanza di queste imprese è evidenziata in un rapporto del FMI: nel 2018 la quota degli assets delle SOE fra le 2000 maggiori aziende (non finanziarie) del mondo era del 20%, raddoppiata rispetto a dieci anni prima, con un valore complessivo di $ 45000 mld. Pari a circa il 50% del PIL mondiale del 2018»(9). Le cause di questo revival del capitalismo di stato “classico” sono da ricercare, secondo l'autore, nei cambiamenti strutturali, in negativo, in cui si trova coinvolta l'economia mondiale, che traduciamo con inasprimento delle tensioni imperialistiche dovute alle difficoltà crescenti del processo di accumulazione e agli investimenti richiesti per farvi fronte, ma la cui redditività è incerta o comunque proiettata su tempi lunghi. Il quadro così complicato «fa pensare allora alla necessità di capitali pazienti, e dunque che il ruolo dello Stato sarà sempre più presente»(10). Ma il capitale per sua natura non è e non può essere paziente, e anche per questo, come si diceva, non ha mai lasciato il capitale in balìa del suo laissez faire, anzi è intervenuto con una potenza di fuoco impressionante ogni volta che la lunga crisi storica cominciata oltre mezzo secolo fa si impenna.
Per aprire una parentesi, questo non significa, come fantasticano i riformisti, che i soldi a favore delle “classi subalterne” o per un “altro mondo possibile”, dentro la società borghese, ci siano. La borghesia i soldi li trova – o meglio, li “inventa” col debito e altre “magie” finanziarie – ma solo per la propria classe, non per il proletariato, suo antagonista storico, al quale, anzi, vengono addebitati gli interventi a favore del capitale. Non è mai stato vero, né può esserlo, lo slogan da “duri” tanto amato in certi ambienti sinistrorsi, secondo il quale “noi la crisi non la paghiamo”: noi, proletariato, paghiamo sempre le crisi dei padroni, fino a quando non prenderemo il potere e tireremo una riga definitiva sulla società borghese. Però, il mondo riformista, in tutte le sue varianti, non è abilitato a una visione coerentemente classista del mondo del capitale e inevitabilmente si perde nelle proprie fumisterie. Poco male, se non ammorbasse anche individualità e settori di classe più combattivi e istintivamente anticapitalisti...
Ma per riprendere il discorso, senza la potenza di fuoco finanziaria dispiegata dallo stato negli ultimi quindici anni – per non andare più indietro – il sistema sarebbe crollato, dal punto di vista economico e quindi sociale. Questo non significa che la rivoluzione proletaria sarebbe stata necessariamente alle porte, data l'enorme arretratezza politica della nostra classe, di cui l'estrema minorità numerica, l'ininfluenza operativa delle sparute minoranze comuniste sono segno, ma che gli sconvolgimenti economico-sociali avrebbero da una parte accelerato le tendenze al conflitto imperialista generalizzato, ai fascismi-sovranismi, dall'altra che le indicazioni politiche dell'internazionalismo rivoluzionario avrebbero trovato un terreno certamente drammatico, se non tragico, ma più ricettivo. Non si tratta di rivalutare il dubbio slogan “tanto peggio, tanto meglio”, che in astratto puzza di meccanicismo lontano un miglio, quanto di analizzare il movimento dialettico dello scontro di classe, il cui sfondo sono le convulsioni del processo di accumulazione del capitale, nelle quali la presenza o meno dell'organizzazione rivoluzionaria radicata nella classe (il partito mondiale o Internazionale) è un elemento fondamentale.
Allora ricordiamo in cosa è consistita l'assistenza economica dello stato, senza per altro avere la pretesa di esaustività, partendo dallo shock del 2007-08, quando la crisi dei mutui subprime, partita negli USA, oltre a gettare un vasto settore di proletari nella disperazione, portò sull'orlo del precipizio due delle “Big Three” dell'industria automobilistica: la Chrysler e la General Motors. Obama, per il loro salvataggio, stanziò un prestito da 80 miliardi di dollari, che poi, se non ci sbagliamo, venne restituito, ma con un'intensificazione dello sfruttamento della forza lavoro, soprattutto nei confronti dei neo-assunti, che dovettero accettare salari nettamente inferiori rispetto a quelli vigenti. Ma tutta la classe operaia fu costretta a subire il peggioramento delle condizioni di lavoro, tra cui l'impegno a non scioperare per un certo lasso di tempo, grazie agli accordi “responsabilmente” firmati dal sindacato dell'auto.
La crisi dei subprime inevitabilmente dilagò in ogni settore dell'economia della gran parte dei paesi, provocando fallimenti di banche e imprese, oltre che, appunto, l'impoverimento di milioni di proletari, espropriati della casa perché incapaci di pagare il mutuo, licenziati, messi in cassa integrazione (dove esisteva), sottoccupati, precarizzati. Secondo una testata giornalistica on-line, che cita dati della Commissione europea, tra il 2008 e il 2011 sarebbero stati concessi «al mondo bancario e finanziario» aiuti per 1600 miliardi di euro, equivalenti al 13% del Pil. Tra il 2008 e il 2010, invece, gli aiuti complessivi sarebbero stati di 4589 miliardi(11). E' una montagna di soldi messa a disposizione dai governi (non necessariamente tutti spesi), con la quale, effettivamente, si sarebbe potuto intervenire a favore della classe lavoratrice, della sanità ecc., ma questo accade solo nelle visioni ingenue del riformismo: mai capirà davvero che la società è divisa in classi dagli interessi inconciliabili e che lo stato è lo strumento esclusivo della classe che sfrutta, opprime e comanda, oggi la borghesia. Solo una parte di quel denaro è andato alla classe lavoratrice attraverso “istituti” come la cassa integrazione, che hanno permesso ai settori (non a tutti) più colpiti dalla crisi di sopravvivere boccheggiando, con l'evidente obiettivo di bagnare le polveri della lotta di classe. Operazione, nel complesso, riuscita, anche e non da ultimo grazie alla solita “comprensione” sindacale verso i problemi del “Paese” e, elemento che non ci stancheremo mai di sottolineare, all'assenza di un punto di riferimento politico coerentemente anticapitalista radicato nella classe. D'altra parte, la borghesia, a differenza del proletariato, è dotata di coscienza di classe e impara dalle lezioni del passato; sa dunque che dalle turbolenze economiche possono nascere turbolenze sociali, che creano problemi nell'immediato e ancor di più in prospettiva. Per esempio, negli anni 1929-33, milioni di disoccupati americani diedero vita a lotte diffuse e determinate, che si allargavano a macchia d'olio e rafforzavano le sparute organizzazioni che, a ragione o a torto, si dicevano comuniste. (dagli stalinisti ai consiliaristi, passando per i trotskysti). Ebbene, l'assorbimento (parziale) della disoccupazione, dovuto al New deal, ridusse ai minimi termini e oltre il combattivo movimento dei senza lavoro e riportò nuovamente all'insignificanza politica la Sinistra nel suo complesso(12).
Lo stesso interventismo, con dimensioni persino maggiori, si è presentato durante la pandemia di covid, degna figlia del modo di produzione capitalista, quando gli stati, per non far collassare il sistema, hanno messo in campo nuovi aiuti straordinari, incrementando in maniera decisa il debito pubblico.
Nel marzo 2021, appena eletto, il presidente Biden varò l'American Rescue ACT, un «piano di stimolo fiscale da 1900 miliardi» di dollari. Secondo un economista di Unicredit, «in termini di stimolo fiscale diretto (Cash), l'American Rescue Plan di Biden più i 900 miliardi di aiuti approvati da Trump alla fine dell'anno scorso e un effetto degli stabilizzatori automatici, equivalgono nel 2021 a un sostegno economico pari all'11-12% per cento del Pil». Alcuni ambienti finanziari ipotizzavano per questo che «nel periodo 2021-22 ci sarà un aumento delle esportazioni mondiali verso gli Stati Uniti pari a 360 miliardi, dei quali all'Europa occidentale spetterebbe, con 97 miliardi, la quota più rilevante»(13).
Ma non era finita lì, perché otto mesi dopo, quasi fosse l'esecutore testamentario di Trump(14), il 15 novembre Biden firmò un nuovo intervento colossale, l'Infrastructure Investment and Jobs Act, con il quale stanziava «1200 miliardi di dollari per migliorare le infrastrutture statunitensi nel corso dei prossimi anni, al fine di aumentare la competitività del paese a livello internazionale»(15). Niente male per un paese che si spaccia per essere la vestale del libero mercato, ma di vestali così ce ne sono tante in giro, con la stessa propensione alla licenziosità... economica. L'Unione Europea, infatti, pur scontando il limite enorme di non essere uno stato in senso compiuto, ha messo da parte l'austerità di bilancio, con la quale aveva strozzato il proletariato greco, e ha concesso deroghe di bilancio/fiscali, aiuti diretti e indiretti di ogni tipo. L'Italia, prima e durante il governo Draghi, che da governatore della BCE teneva ben stretto il timone dell'austerità, è stata, a parere di altri “autorevoli” banchieri, il paese più aiutato durante la pandemia:«Secondo uno studio di Bank of America negli ultimi due anni e mezzo abbiamo ricevuto quasi 1400 miliardi tra stimoli pubblici e monetari: circa il 69% del Pil. Più di USA, Germania e degli Stati poveri […] il paese che ha ricevuto più aiuti (in percentuale del Pil) per sostenere e rilanciare l'economia»(16). Quanto siano importanti questi aiuti, lo sottolinea una volta di più la Corte dei Conti, secondo la quale «Alla spinta del Pnrr sono affidati due terzi della crescita italiana da qui al 2026, perché il tasso medio annuo dell’1,2% [previsto]si ridurrebbe senza il Piano a un modesto +0,4%, abituale per l’Italia nel ventennio di stagnazione prepandemica»(17).
A tutto questo si è aggiunta la guerra in Ucraina, che ha dato l'occasione agli USA di picchiare duro sulla borghesia europea e sulle sue aspirazioni di giocare un ruolo in qualche modo autonomo dai due principali attori dell'imperialismo mondiale: USA e Cina.
Per far fronte alle serie difficoltà dell'economia «dal marzo scorso, in deroga alle consuete norme comunitarie, Bruxelles ha preso 210 decisioni autorizzando 190 misure nazionali per 673 miliardi di sussidi pubblici. L'ampio spazio fiscale disponibile rende la Germania la regina degli aiuti di stato»(18). La Germania ha stanziato 356 miliardi di euro, la Francia 162, L'Italia 51; tra questi stanziamenti c'è la rinazionalizzazione di EDF (l'ENEL francese, 10 miliardi) e l'acquisizione da parte dello stato (8 miliardi), di Uniper, principale distributore tedesco di gas. L'«ampio spazio fiscale disponibile» è l'elemento attorno al quale in febbraio i paesi europei si sono presi a calci negli stinchi durante la riunione indetta per affrontare l'ennesima tegola che l'imperialismo USA ha fatto cadere sulla testa dell'amico e alleato (?) europeo e per spingere il Green Deal Industrial Plan, il piano per la riconversione “ecologica” dell'industria europea. Infatti, una parte di essi, tra cui l'Italia, preme per l'istituzione di un fondo sovrano europeo, altri, tra cui la Germania, non vogliono sentir parlare di condivisione del debito pubblico, dunque si è arrivati al compromesso di rimandare all'estate l'esame sull'adesione di un eventuale fondo sovrano; nel frattempo, chi ha “spazi fiscali disponibili” può concedere, ancora una volta in deroga ai sacri principi del libero mercato, nuovi aiuti. L'Italia, che a differenza della Germania di “spazi” non ne ha (come altri stati), può invece sforare sui tempi di attuazione del Pnrr, sui quali è in ritardo; da qui, la preoccupazione citata sopra della Corte dei Conti, a nome di pezzi importanti della borghesia italiana.
Non basta Next GenerationEU per affrontare un quadro ancor più complicato dagli enormi problemi – sanitari, ambientali, bellici – che si intrecciano e potenziano quella crisi economica (da cui hanno origine) frutto di un capitalismo corroso dal cancro che non riesce ad estirpare: come abbiamo già detto, la caduta del saggio di profitto. Lo “Stato” europeo intensifica allora i propri sforzi per evitare alla propria borghesia di recitare da comparsa nel teatro dell'imperialismo mondiale. E il pericolo più grande viene proprio dall'«amico americano».
L'imperialismo a stelle e strisce deve avere un rapporto particolare con il mese di agosto, dato che “sotto l'ombrellone” ha fatto due mosse che hanno creato grosse difficoltà a nemici e, soprattutto ad amici (o, meglio, sottoposti).
La prima, ormai storica, è la denuncia degli accordi di Bretton Woods il 15 agosto 1971, da parte del presidente Nixon, avvio ufficiale, per così dire, della crisi strutturale che ha chiuso il boom del dopoguerra. La seconda è la firma apposta sull'Inflation Reduction Act (IRA) da Biden il 16 agosto 2022, un piano (un altro) da 738 miliardi di dollari, di cui 391 destinati alla cosiddetta transizione verde(19). Forse, l'ambientalismo riformista avrà esultato, sicuramente non la borghesia europea, in primo luogo, perché gli incentivi alle tecnologie e alle produzioni “verdi” vanno solamente a coloro che producono sul suolo americano o su quello dei paesi coi quali c'è un accordo di libero scambio, per esempio il Canada e il Messico, dove, guarda caso, il capitale statunitense ha delocalizzato parecchi impianti industriali. Protezionismo? Certo è che la borghesia americana non vuole correre il rischio di vedere gli incentivi statali finire nelle tasche del capitale europeo e men che meno cinese, più attrezzati, in diversi settori, dal punto di vista produttivo. Al contrario, intende rafforzare un sistema industriale che la rincorsa a saggi di profitto più alti aveva in parte significativa spostato fuori dai “patrii confini”, indebolendo in tal modo la capacità operativa del proprio imperialismo. La pandemia e ora la guerra in Ucraina hanno evidenziato in maniera lampante i rischi della delocalizzazione di numerosi segmenti produttivi, da quelli più avanzati a quelli considerati maturi, ma indispensabili durante la pandemia, come i dispositivi sanitari di protezione individuale. Hanno inoltre mostrato la fragilità del just in time - soprattutto se “spalmato” su più continenti – che funziona finché non viene turbato da eventi esterni (esterni per modo di dire) e non da ultimo dalla lotta di classe, che però rimane ancora, purtroppo, il convitato di pietra. Alla lunga, si fa fatica a esercitare il ruolo di prima superpotenza mondiale, se non si dispone di un retroterra industriale e infrastrutturale adeguato, se, per esempio, non si padroneggia la filiera dei semiconduttori, ormai fondamentali in tutti o quasi i settori produttivi, a cominciare da quello degli armamenti. Ma oggi la produzione dei microchip è concentrata in Corea del Sud e, soprattutto, a Taiwan, oggetto del desiderio dell'imperialismo cinese. Ecco allora gli incentivi miliardari alla produzione domestica dei chip – prassi per altro seguita sia dalla UE che dalla Cina – e le porte spalancate alla più grande azienda di semiconduttori del mondo, la taiwanese TSMC, che a Phoenix in Arizona realizzerà un impianto da 40 miliardi di dollari con 10000 occupati(20). Sono, ovviamente, quattro milioni di dollari per ogni posto di lavoro, il che dà l'idea dell'altissima composizione organica del capitale, soprattutto nei settori di punta, e della necessità, quindi, di innalzare a livello altrettanto elevati l'estorsione di plusvalore, lo sfruttamento, per soddisfare questi investimenti mastodontici. Ma come ha ben spiegato Marx, l'aumento di produttività, del plusvalore, pur progredendo, si riduce progressivamente, man mano che aumenta la composizione organica del capitale, in quanto non riesce a tenere il passo con l'innalzamento della stessa(21).
Incentivi, protezionismo, possibilità che gli stati acquisiscano quote azionarie delle industrie avanzate, come ha prospettato la Vesteger, vice presidente della Commissione europea, nel vertice di febbraio sul Green Deal: lo si può chiamare come si vuole, ma questo è, di fatto, capitalismo di stato, se possibile ancora più succube del capitale di quello tradizionale, perché qui lo stato non subentra al singolo capitalista nella proprietà/direzione dell'impresa, bensì lo lascia al suo posto e gli fornisce quelle quote di ossigeno senza le quali morirebbe.
Arriva anche a sgravare il padronato degli aumenti salariali, sostituendoli con modesti surrogati di una vera crescita salariale, che, essendo erogati dalle finanze “pubbliche”, in ultima analisi vengono pagati dalla classe lavoratrice, dalle imposte alle quali non può sfuggire, a differenza della borghesia. Tra i tanti esempi possibili, ne ricordiamo alcuni.
Quando Biden varò l'Infrastructural..., contrariamente a quanto aveva promesso in campagna elettorale, non portò il salario minimo federale a 15 dollari l'ora – attualmente, in molti stati, è sullo stesso livello dei primi anni 1970 – né innalzò il sussidio di disoccupazione a 400 dollari alla settimana, lo lasciò a 300 dollari. Renzi, col suo Jobs act, regalava ai padroni un'altra pistola da puntare alla tempia della classe operaia e, contemporaneamente, “elargiva” il bonus da 80 euro al mese ai salari/stipendi più bassi. Infine, per chiudere questa carrellata molto parziale, la nipotina di suo nonno, capa del governo, ha rifilato l'ennesimo “pacco” alla classe lavoratrice con il cosiddetto taglio del cuneo contributivo, a spese delle pensioni e dei settori più poveri del proletariato(22).
Ma c'è un altro elemento che sottolinea come l'intervento dello stato, attraverso le sue articolazioni, sia una componente fondamentale dell'accumulazione del capitale, cioè le politiche delle banche centrali. Il loro ruolo è sempre stato importante, va da sé, ma è cresciuto parallelamente alle difficoltà generate dalla caduta del saggio di profitto.
L'abolizione delle restrizioni a determinate attività bancarie introdotte dopo il 1929, per limitare i giochi di prestigio delle banche, e le politiche sui tassi di interesse hanno impresso un'accelerazione potente alla finanza speculativa e al debito, nell'illusione che si possa eludere il processo di valorizzazione reale del capitale, che può avvenire solo nella sfera della produzione, facendo denaro dal denaro, creando masse enormi di capitale fittizio, chiamato così perché i valori che dovrebbe rappresentare non ci sono ancora, sono solo una “promessa” di valori futuri. Poiché il plusvalore estorto nel processo produttivo scarseggia(23), si crea debito, si abbassano i tassi di interesse a zero o addirittura sotto le zero, si immette denaro in quantità gigantesche nel circuito economico (il cosiddetto accomodamento monetario o QE), attraverso l'acquisto di titoli e obbligazioni. Ma tutto questo denaro, l'evidenza dei fatti lo dimostra, non stimola l'economia reale (la produzione), finisce per lo più nel circolo vizioso della speculazione finanziaria, perché, ancora una volta, la produttività arranca. Non si deve dimenticare che produttività per il capitale non significa semplicemente più “cose”, più merci, ma merci che contengano una quantità di plusvalore tale da giustificare, in termini poi di saggio di profitto, l'investimento. Questa moltiplicazione dei pani e dei pesci in versione monetaria, ha evitato, finora, il crollo dell'economia mondiale, ma aggrava i fattori di crisi, mantenendo in vita imprese non redditizie (le imprese zombie), approfondendo i deficit e incrementando il debito. Nemmeno la riduzione pluridecennale dell'imposizione fiscale sui capitali e sui ricchi in generale, palliativo feroce al saggio di profitto declinante, risolve il problema: la “propensione” all'investimento rimane debole, si tagliano brutalmente i servizi “sociali” e non si vede neanche lontanamente quello sgocciolamento di ricchezza verso il basso teorizzato dai neoliberisti, anzi, c'è un trasferimento di ricchezza dal basso verso l'alto.
Ovviamente, una parte della borghesia, quella più avvertita, è cosciente della pericolosità della situazione per la tenuta del sistema e, probabilmente senza saperlo, per analizzare lo stato di cose presente utilizza, fino a un certo punto, strumenti che si avvicinano ai nostri. C'è chi, a causa delle dimensioni del debito, del capitale fittizio e dell'intervento delle istituzioni statali, dice senza mezzi termini che siamo di fronte a interventi da economia di guerra, addirittura a una nazionalizzazione di fatto dell'economia, ben prima della pandemia. Una di quelle “teste pensanti” afferma infatti che «Quando una Banca centrale acquista – attraverso una pura e semplice creazione monetaria – l'equivalente dei ¾ dell'economia nazionale, si ottengono dei risultati problematici: 1) una certa forma di “nazionalizzazione” dell'economia da parte dell'istituto di emissione [e prosegue]la sostituzione di un organo pubblico alle forze del mercato […] della Banca centrale in rapporto ai poteri pubblici non si riscontrava, in generale, che in tempi di guerra quando i governi di difesa nazionale fissavano i tassi». L'autore di queste considerazioni porta a sostegno delle proprie tesi un dato sconvolgente, per una “sana” gestione dell'economia secondo un'ottica borghese classica (o quasi): «Il fatto che una Banca centrale come la BCE abbia deciso di acquistare titoli obbligazionari all'altezza di più del 70% del PIL della zona euro dà un'idea dell'ampiezza inaudita dell'esplosione che si è prodotta dopo il 2014 in materia di sostegno monetario all'economia»(24). Per lui, come per noi, il punto fondamentale è che gli investimenti produttivi sono in calo da vent'anni (almeno, aggiungiamo), così come la produttività(25), e che la garanzia, cioè il salvataggio praticato dagli stati delle banche, delle istituzioni finanziarie in genere, portate verso il fallimento dalle loro disinvolte speculazioni, non fa altro che incoraggiare la speculazione stessa, a spese della “nation”, cioè precisiamo noi, del proletariato. Ben più lucido del riformismo, indica la strada per uscire da questo circolo vizioso: bisogna «ristabilire la remunerazione dell'investimento produttivo, incitare al lavoro più che alla ridistribuzione»(26).
La borghesia ce la sta mettendo tutta per incitare al lavoro, con le riforme delle pensioni, con l'attacco al cosiddetto welfare e il passaggio al workfare; abbassa i salari, inasprisce la sottoccupazione o precarietà, ingrandisce “l'esercito industriale di riserva” – la disoccupazione - per ristabilire la redditività dell'investimento produttivo. In molti paesi offre generosi incentivi per il rinnovamento del macchinario(27), il che costituisce, come le altre forme di sostegno, una bella boccata d'ossigeno per i settori/soggetti interessati, ma, e ritorniamo al punto di partenza, per quanto denaro lo stato immetta nel sistema economico, l'immissione non può ringiovanire un organismo decrepito, poiché a causa dell'elevata composizione organica del capitale, fatica ad accrescere quella produttività (di plusvalore) che è l'alfa e l'omega del capitalismo. Senza contare che quel denaro deve essere reperito attraverso l'imposizione fiscale, che però, come abbiamo detto, da decenni sul capitale viene abbassata, il che fa aumentare ulteriormente l'indebitamento dello stato. Ci sono dunque troppi capitali in cerca di rendimenti soddisfacenti che, per la scarsità di occasioni, si gettano nella speculazione, compresa ovviamente quella sui debiti, pubblici e privati. Secondo quanto sostiene l'ex governatore della Banca di Francia, tra il 2000 e il 2020 «In totale, a scala mondiale, il rapporto è del 23% di valore reale creato dall'investimento e 77% dal gioco delle valorizzazioni»(28), cioè dalle varie forme di speculazione finanziaria. Negli USA quel rapporto sarebbe addirittura del 13% rispetto all'87%. Il debito globale registrato a inizio 2022, sarebbe di oltre «300 trilioni (1 trilione = 1000 miliardi). Questa cifra, record assoluto in tempo di pace, rappresenta il 360% del PIL mondiale»(29).
Come abbiamo visto, da oltre cinquant'anni il capitale, alle prese con la manifestazione della propria contraddizione principale, la caduta del saggio medio di profitto, le sta tentando tutte per cercare di domarla, non da ultimo con un uso sempre più esteso dello stato. La stessa “transizione ecologica”, che a essere molto ottimisti potrà al massimo limitare gli effetti della catastrofe climatica ormai avviata - figlia legittima della ricerca esasperata del profitto, sotto le sferza della crisi - non è nemmeno pensabile senza l'intervento crescente dello stato, comunque si configuri.
Attacco alle condizioni di lavoro e quindi di vita del proletariato, catastrofe ambientale, rischio incombente della guerra imperialista generalizzata, col suo carico immane di morte e distruzione: ce n'è abbastanza per prendere coscienza dell'incompatibilità tra l'esistenza del capitale e la nostra, anzi, della vita stessa. Ma solo il proletariato rivoluzionario, guidato politicamente dal suo partito internazionale, ha la chiave per uscire da questa situazione insostenibile: o il comunismo o una barbarie senza fine.
CBNote:
(1) La privatizzazione a prezzi stracciati di vasti settori dell'economia e l'immiserimento della classe lavoratrice ne sono stati l'espressione; era una situazione paragonabile, per certi aspetti, a un dopoguerra.
(2) La borghesia non è mai in pace con la classe operaia (cioè il lavoro salariato), dovendo garantirsi la sua sottomissione all'estorsione di plusvalore, cioè allo sfruttamento, perno della società borghese.
(3) O la gestione secondo criteri privatistici, anche quando continuano ad essere “pubblici”.
(4) Come un tempo diceva un ignobile eufemismo borghese per definire i proletari in soprannumero, rispetto alle esigenze del processo economico capitalista.
(5) Vedi, le imprese dell'IRI o, oggi, l'ENI, azienda di stato sopravvissuta alle privatizzazioni, che continua a “produrre ricchezza” estorcendo plusvalore alla propria forza lavoro. Per non dire poi, ovviamente, del capitalismo di stato dell'ex URSS e di quello ancora in gran parte in vigore in Cina.
(6) Le analisi sullo stato e sull'evoluzione verso il capitalismo di stato di Engels nell'Antidühring sono magistrali e, nella sostanza, non hanno perso niente della loro validità. Vedi F. Engels, Antidühring, parte terza, Socialismo, capitolo II, Elementi teorici.
(7) Negli Stati Uniti lo stato si è “intromesso” nell'economia meno che in altri Paesi, fino agli anni 1930, ma essi godevano di condizioni particolarmente favorevoli, che altre borghesie non avevano.
(8) Lo Stato, consiglio di amministrazione della borghesia, Battaglia comunista nn. 21-22 giugno 1948. L'articolo è una traduzione da L'Internationaliste, bollettino della Frazione belga, maggio 1948.
(9) Gianluca Sabbadini, The Adam Smith Society, in lamiafinanza.it, 2 luglio 2022. Lo studio del FMI a cui si fa riferimento è: International Monetary Fund: State-Owned Enterprises: The Other Government, Fiscal Monitor, Chapter 3, April 2020, imf.org. Giusto per ricordare come i borghesi siano liberisti solo nei confronti della classe operaia, tra fine maggio e inizio giugno, alcuni esponenti della Confindustria hanno chiesto espressamente allo stato di entrare in Stellantis, appoggiati, manco a dirlo, dai sindacati, per fronteggiare meglio la concorrenza di case automobilistiche che “vantano” già la prtecipazione azionaria del “pubblico” (Renault, VolksWagen ecc.).
(10) G. Sabbadini, cit.
(11) Vedi Martine Orange, Mediapart, rispettivamente 21 dicembre 2012 e 4 dicembre 2010.
(12) Vedi Paul Mattick, Disoccupazione e movimento dei disoccupati negli USA, 1936, in Alfredo Salsano, Antologia del pensiero socialista, Laterza, 1983, vol. V, tomo III, pag. 954. La delusione per la parzialità dei risultati del New deal portò, nel 1936, a una ripresa del movimento dei disoccupati, anche se su scala minore; fu solo la guerra a riassorbirli e a far sparire, quindi, il movimento stesso.
(13) Le citazioni sono tratte da: Attilio Geroni, Il maxi piano Biden sarà il battistrada del nuovo Patto europeo di stabilità?, 24plus.ilsole24ore.com, 22 marzo 2021.
(14) Al di là del personaggio, a metà tra il cabarettistico e il gangsteristico, o più semplicemente fascista, è la conferma che la cosiddetta deglobalizzazione e il “Make America great again”, rispondono a un'esigenza di fondo del capitale americano e della sua borghesia. Poi, i modi di attuazione possono cambiare, ma questa è la tendenza.
(15) Sarah Pasetto, Corte Costituzionale, Servizio studi, Area di Diritto Comparato, cortecostituzionale.it, novembre 2021.
(16) Eugenio Occorsio, Ristori, Pnrr e soldi della Bce: l'Italia è il paese più “aiutato” del mondo, repubblica.it, 25 luglio 2022.
(17) Gianni Trovati, Italia appesa al Pnrr: dal piano i due terzi della crescita del Pil entro il 2026, 24plus.ilsole24ore.com, 26 maggio 2023.
(18) Aiuti di Stato, ecco la classifica UE: Germania prima, Italia terza, ilsole24ore.com, 12 febbraio 2023.
(19) Vedi Christian Marazzi, Diario della crisi – Il collasso del paradigma postfordista, sinistrainrete.info, 21 febbraio 2023.
(20) Luca Celada, La guerra economica a colpi di chip. Biden “internalizza” Taiwan, ilmanifesto.it, 22 dicembre 2022.
(21) Sui limiti dell'aumento della produttività, vedi Karl Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell'economia politica («Grundrisse»). Einaudi, 1976, vol. I, pagg. 288-297 [pagine 240-247 della redazione IMEL] e Il capitale, Einaudi, 1975, Libro I, capitolo 15°, pagine 636-638.
(22) Vedi: leftcom.org
(23) Paradossalmente, nonostante gli alti livelli di sfruttamento, la classe lavoratrice non è abbastanza sfruttata per remunerare i capitali investiti o che dovrebbero essere investiti per proseguire il ciclo della riproduzione allargata del capitale. La spiegazione è, ancora una volta, in quelle pagine di Marx citate in nota 21.
(24) Jacques de Larosière, En finir avec le règne de l'illusion financière. Pour une croissance réelle [Per farla finita con il regno dell'illusione finanziaria. Per una crescita reale], Odile Jacob, 2022, pagg. 70-71. L'autore è stato direttore del FMI, governatore della Banca di Francia e presidente della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo.
(25) J. de Larosière, cit., pagg. 30 e 38, dove c'è un grafico che illustra il calo.
(26) J. de Larosière, cit., pag. 104.
(27) Per quanto riguarda l'Italia, «nel quadriennio 2020-2023 […] il consumo italiano [cioè l'investimento] di nuove macchine dovrebbe raggiungere i 112 miliardi di euro (in media 28 miliardi di euro(anno) [rispetto al 2012-15 c'è stato un aumento del 59%] a cui il Piano Industria 4.0 ha dato un contributo fondamentale», in Marco Fortis, Industria 4.0 ha trascinato la ripresa del Pil italiano, ridimensionarlo è un errore, 24plus.ilsole24ore.com, 18 gennaio 2023. Il Piano in questione fu varato da Renzi nel 2016.
(28) J. de Larosière, cit., pag. 113.
(29) J. de Larosière, cit., pag. 15 e a pagina 17 specifica che «Mentre la parte del debito delle imprese non finanziarie classificate BBB (cioè in ultima posizione fra le società di buone qualità dette investment grade) rappresentava il 25% del mercato in Europa e il 40% negli Stati Uniti, nel 2011, oggi le cifre sono pari al 50%»
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