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Home ›Elezioni 2022, votare non serve, non votare non basta
Le elezioni anticipate del 25 settembre, stando ai sondaggi (?), potrebbero dare una vittoria netta, addirittura schiacciante, alla coalizione del centro-destra. Può essere, visto che il partito che dovrebbe portare a casa più voti, l'ex fascista – si fa per dire – FdI, ha beneficiato dell'opposizione parolaia condotta in questi due anni di pandemia contro i governi Conte 2 e Draghi. Si è fatto o si è voluto fare interprete, demagogicamente, degli scontenti, a cominciare da quegli ampi settori di piccola borghesia – ma anche non piccola – famelica e incattivita dalle chiusure dovute al covid, mai sazia dei contributi e delle agevolazioni ricevute a piene mani dai governi, a spese degli “italiani”, cioè della classe lavoratrice, che paga sempre le tasse, che non può evaderle, a differenza di professionisti, bottegai, ristoratori ecc. Era da questi settori di piccola borghesia che venivano promossi i cortei contro le restrizioni alla “libertà”, vale a dire la libertà di tenere aperti gli esercizi in spregio delle più elementari norme sanitarie, a cui si aggiungevano individui di ogni provenienza sociale, anche, purtroppo, del proletariato. Individualità, certamente, non rappresentative, nel discorso specifico, dell'intero proletariato, ma che rappresentano un tassello del quadro di smarrimento e disorientamento in cui da molti anni è inserita la nostra classe. Più volte abbiamo analizzato “la situazione della classe operaia”, del suo essere da decenni quasi solo “classe in sé”, schiacciata dal tallone di ferro della borghesia e intossicata dai suoi fumi ideologici, quindi, per sintesi, indichiamo i due fattori che ancora gravano come un macigno sul corpo e sulla mente della classe operaia (intesa in senso lato).
Il primo è la sua scomposizione/ricomposizione a livello mondiale, tuttora in corso, in seguito all'aprirsi della crisi del ciclo di accumulazione nei primi anni '70 del secolo scorso, crisi che, nonostante tutto quello che è avvenuto in questi cinquant'anni – per esempio, la crescita impetuosa del capitalismo e dell'imperialismo cinesi – continua a dirigere la danza (macabra) dell'economia mondiale.
Il secondo è il crollo del “sogno”, delle speranze in un'alternativa alla società borghese, cioè il collasso del mondo sovietico. Come abbiamo sempre detto, non importa che questo mondo fosse una versione più dura e meno “prospera” del capitalismo: agli occhi delle masse proletarie, soprattutto di quelle più attive e combattive, rappresentava la speranza in una vita meno ingiusta e più egualitaria. Caduta la maschera che per decenni aveva contrabbandato un incubo – il capitalismo di stato detto socialismo reale – per un sogno, il proletariato si è disgregato ideologicamente, così come in Occidente si sono disgregate, anzi, sono state disgregate le grandi concentrazioni operaie, locomotive delle lotte di tutta la classe. Se dunque gli attacchi incessanti della borghesia l'hanno messa in grandissima difficoltà dal punto di vista materiale, ne hanno favorito enormemente la passività e l'atonia sociale. Parentesi, a scanso di equivoci e di malevoli: non stiamo dicendo che l'intossicazione stlinista fosse preferibile alle forme odierne di intossicazione ideologica (sempre borghese), ma registriamo semplicemente un dato di fatto.
Chiusa la parentesi e riprendendo il discorso, la passività del proletariato, l'accentuazione del suo essere oggi per lo più “classe per il capitale”, è rappresentato anche dal suo comportamento di fronte alle elezioni. Da una trentina d'anni, una parte di questo proletariato deluso, spaesato per l'assenza di punti di riferimento classisti, giustamente arrabbiato per il peggioramento dei suoi livelli di esistenza, si fa prendere all'amo dalle semplicistiche quanto false soluzioni ai suoi suoi problemi spacciate dalle formazioni politiche eredi dei fascismi del Novecento, comunemente definite sovranismi o populismi. L'abboccare all'amo di chi indica nei settori più oppressi del proletariato, la dice lunga sullo smog che avvolge le (in)coscienze di determinati settori del proletariato.
Stesso discorso, nella sostanza, si può fare per quei movimenti/partiti come il Movimento 5 Stelle, che alle ultime elezioni politiche aveva fatto man bassa di voti nelle periferie delle grandi città e nel Sud, portandoli via, per lo più, ai partiti che definirli di sinistra è una battuta scadente. I “grillini” erano infatti riusciti ad attrarre i tantissimi delusi della sinistra parlamentare, con promesse di “giustizia sociale” e di “pulizia morale” che, va da sé, non potevano mantenere. Insomma, la conclusione si può riassumere con tanto rumore per poco, cioè quel Reddito di Cittadinanza che comunque è meglio di niente, per quelli che soddisfano i criteri per averne diritto. Infatti, come si sa, gran parte degli immigrati in “condizione di deprivazione materiale” (poveri), non possono esibire i dieci anni di residenza richiesti dalla legge per ottenere il “Reddito”, clausola inserita dalla Lega durante il Conte 1, per rendere ancora più difficile – e quindi ricattabile – la vita al proletariato immigrato.
Di delusione in delusione, di frustrazione in frustrazione, frange sempre più ampie di proletariato si sono disinteressate della politica politicante (ma non solo di quella...) alimentando l'astensionismo, tanto che il primo partito è il cosiddetto partito dell'astensione, dentro e fuori l'Italia. Giusto per dare qualche riferimento, «il 12 giugno, alle amministrative ha votato solo il 28 per cento degli elettori a basso reddito. La percentuale sale al 63 per cento tra i redditi medi e balza al 79 per cento tra i redditi alti». Quelli che la fanno facile potrebbero dire che questo è un ottimo segnale, perché significa che settori in crescita della nostra classe stanno manifestando un rifiuto del sistema, preludio a una ripresa della lotta di classe e dunque di sconvolgimenti sociali finalmente favorevoli al proletariato. Noi diciamo, invece, che è sì un segnale molto importante, spia appunto di un'insofferenza montante nei confronti delle istituzioni borghesi e dei meccanismi sociali che le sottendono, ma non c'è un rapporto automatico tra l'insofferenza e la lotta e men che meno con una lotta coscientemente anticapitalista. In mezzo c'è tutta una gamma di possibilità, fra cui il disinnesco del potenziale esplosivo prodotto dal “disagio” e il suo riassorbimento nei meccanismi di dominio della borghesia. In Francia, per esempio, dove le cose per il lavoro salariato non vanno molto meglio che qui, le ultime elezioni presidenziali hanno premiato le ali estreme dello schieramento borghese, cioè la destra del Rassemblement National (Le Pen) e la sinistra della France Insoumise (Mélenchon). Tutte e due hanno pescato voti nel proletariato, ma la seconda ha avuto un successo quasi trionfale nelle banlieues della cintura parigina, teatro negli ultimi anni della rivolte senza sbocco dei settori più oppressi del proletariato, per lo più di origine immigrata. Difficile, per il momento, che in Italia compaia una forza come France Insoumise, anche perché qui, a differenza della Francia, il panorama sociale non è stato agitato da movimenti ambigui e confusi, certamente, come i Gilets Jaunes che, in qualche modo, hanno prodotto degli strappi nella cappa di passività che fin qui pesa sulla stragrande maggioranza del proletariato. Che poi il fermento sociale sia capitalizzato dalla destra o dalla sinistra riformista, per quanto sgradevole sia, non stupisce. In mancanza di un punto di riferimento autenticamente “antisistema”, cioè autenticamente e coerentemente anticapitalista, è inevitabile che il malessere proletario sia sbattuto tra Scilla e Cariddi, tra la passività fatalista e l'adesione a pifferai che promettono ciò che non potranno mai mantenere, se non – l'estrema destra – ancor più oppressione per il proletariato immigrato, o – la sinistra – qualche “diritto” in più che renderebbe in parte meno difficile la vita a certi settori proletari. Con questo, non sosteniamo che l'estrema destra e l'estrema sinistra della borghesia sono la stessa cosa, capiamo bene che per tanti giovani “di seconda generazione” sarebbe un bel sollievo non avere sulla testa la spada di Damocle del rinnovo del permesso di soggiorno e delle umilianti file agli sportelli delle questure, perché la cittadinanza ottenuta con lo ius scholae eliminerebbe tutto ciò. Questa appunto è una delle differenze tra borghesia “democratica” e borghesia fascistoide, ma anche con certe riforme civili, per altro a costo zero o quasi, la struttura di classe della società non cambierebbe di una virgola né sparirebbero i problemi legati alla precarietà, alla sottoccupazione, al sottosalario, alle prospettive offerte da un futuro fosco che attanagliano il proletariato, in particolare i giovani e ancor di più non pochi proletari di seconda generazione.
Dunque per concludere, riprendiamo, nella sostanza, quanto avevamo detto qualche tempo fa:
- L'astensionismo è un primo passo, necessario, ma insufficiente; se votare non serve, non votare non basta, perché il sistema borghese non solo non è minimamente scalfito da un abbassamento della partecipazione al voto, ma può addirittura trarne vantaggio.
- Se la sfiducia in cui si sono convertite la delusione e la rabbia non si converte a sua volta in un'azione pratica, di massa, sul terreno di classe, anticapitalista – l'unico atteggiamento a essere veramente anti-sistema – sul posto o sui posti di lavoro “intermittenti”, nelle piazze, nelle scuole, niente cambierà. Anzi, la borghesia, le sue espressioni (si chiamino Unione Europea, fronti nazionali e via dicendo) continueranno indisturbate a metterci – noi, proletariato - nel tritacarne per nutrire un sistema che può sopravvivere solamente macellandoci: la guerra in corso in Ucraina né è l'ennesima, tragica dimostrazione. Ogni altra strada, “democratica” o “nazional-populista”, è solo un turpe, tragico inganno.
- Diventa allora più urgente che mai la costruzione dello strumento indispensabile della lotta di classe, il partito comunista su scala mondiale, la nuova Internazionale rivoluzionaria, che sappia convogliare e dirigere politicamente la sacrosanta rabbia proletaria, le lotte da cui auspicabilmente prima o poi nasceranno, contro un sistema sociale che nello sfruttamento del proletariato, nell'oppressione sociale, nella devastazione e nel saccheggio della natura ha la sua ragione d'essere.
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