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Da parte borghese
La FED ha alzato i tassi di interesse dello 0,50%, la Banca Centrale europea ha fatto altrettanto limitandosi però allo 0,25%. In entrambi i casi l’operazione della Banche centrali è stata giustificata come il primo, se non unico, rimedio contro l'inflazione. Negli Usa l’inflazione è arrivata al 9% nella UE la media è attorno al’8,2 %. Queste percentuali non si registravano da vent’anni. Certamente colpa della guerra che ha generato l’aumento vertiginoso del costo della materie prime energetiche, di quelle alimentari creando dissesti nel settore industriale e agricolo, in quello dei trasporti e della logistica.
Sul piano strettamente borghese l’inflazione si è aggiunta come disvalore alla crisi strutturale del mondo capitalistico e le misure antinflattive non hanno fatto altro che peggiorare le situazione. L’aumento del tasso di sconto, in realtà, è una stretta creditizia destinata a penalizzare ulteriormente la già dissestata economia “reale” appesantita da problemi di valorizzazione del capitale investito e penalizzata da saggi del profitto “adeguati”, sempre più difficili da raggiungere.
Con un più alto tasso di interesse, ovvero con un costo del danaro più alto, l’inflazione da costi non virene minimamente contenuta, in compenso l’economia reale e quella speculativa reagiscono in direzioni opposte, La speculazione dilaga in maniera direttamente proporzionale alle difficoltà di valorizzazione del capitale investito e l’economia reale soffre l’aumento del costo del danaro, che significa aumento dei costi di produzione, dando linfa alla speculazione che, a sua volta, distogliendo capitali alla produzione, deprime ulteriormente la cri si strutturale che è alla base dei due opposti fenomeni.
Per le imprese che intendono continuare ad essere presenti sul mercato, un danaro più caro significa che, accanto agli aumentati costi di produzione, l’indebitamento “buono”, quello che borghesemente si contrae per migliorare la qualità/quantità produttiva, costa più caro, creando così una sorta di selezione naturale all’interno di tutti i settori produttivi.
Per le finanze statali, quantitative easing a parte, che comunque potrebbe ripartire, il caro-danaro si trasformerebbe in un aumento del servizio sul debito, aumento tanto più alto quanto maggiore è il debito pubblico. Il che significa che a subire gli effetti di questa manovra finanziaria sarebbero, ancora un volta, i paesi economicamente più deboli, gravati da un debito pubblico pesante, reso insostenibile anche da un incremento del costo del danaro dello 0,25/0,50. Ma le prospettive sono ancora più funeste perché la FED, e di conseguenza la Banca Centrale europea, ha già fatto capire che a breve ci sarà un nuovo aumento dei tassi.
Contemporaneamente lo spread (termine che indica la differenza di rendimento tra due o più titoli di Stato, di cui uno è preso come punto di riferimento) è destinato ad alzarsi. Così si ripete l’acutizzarsi delle differenze economiche e finanziarie tra gli Stati più forti e quelli più deboli. Nel caso dell’economia italiana questa manovra è costata il passaggio dello spread da una quotazione 150 a 220 nello spazio di pochi giorni. In altri termini, gli interessi che lo Stato italiano deve garantire agli eventuali acquirenti dei suoi titoli di Stato sono maggiori del 30% rispetto a quelli tedeschi presi come punto di riferimento, perché più forti e più stabili. Come per il rapporto tra BTP e BUND, anche gli altri i titoli di Stato europei hanno seguito la stessa strada. Le borse sono letteralmente crollate bruciando migliaia di miliardi di euro in sintonia con quanto accaduto negli Usa. Per di più l’aumento del costo del danaro ha poco a che fare con una inflazione da costi, che ha poco a che vedere con una inflazione da domanda che, in parte, giustificherebbe, secondo i canoni dell’economia politica borghese, la contrazione della domanda attraverso la manovra del rialzo dei tassi. Questo dimostra che le contraddizioni del sistema produttivo capitalistico sono insanabili e che le “misure correttive” sono una coperta corta che, molto spesso, fa dei danni maggiori di quelli che vorrebbe evitare.
Da parte proletaria
Checché se ne dica, la crisi non colpisce in egual misura i vari spezzoni del capitale. Quelli più forti possono addirittura trarre vantaggio da situazioni di disagio economico e finanziario delle piccole e medie imprese, per annetterle a prezzi di “saldo”, per sbarazzarsi nel mercato di una serie di piccoli concorrenti, favorendo quel processo di concentrazione/centralizzazione che è tipico nella dinamica capitalistica nel procedere della crisi. A fronte di tutto ciò, a livello mondiale, le imprese medio piccole e quelle “artigianali”, molto spesso chiudono o falliscono, lasciando campo libero al grande capitale. In questo caso chi paga il conto più salato sono le centinaia di milioni di proletari che, nel settore industriale ed agricolo escono dai meccanismi produttivi, diventano a tutti gli effetti disoccupati ed entrano a far parte di quell’esercito di riserva della mano d’opera che, qualora l’intero sistema dovesse riprendersi, rientrerebbero nell’infernale ciclo di sfruttamento, al minimo salariale, con contratti a termine, licenziabili ad ogni istante, senza “giusta causa” che tenga, anche perché, in Italia, cancellata dallo Statuto dei lavoratori (“Magna Carta” riformista di un'altra epoca storica del capitale) dalle cosiddette forze di sinistra.
Se crisi significa, come è nella realtà, chiusura delle fabbriche, rallentamento della produzione, la conseguenza non può che essere quella di un aumento della disoccupazione e di un maggiore sfruttamento per chi rimane sul suo posto di lavoro. Anche se relativamente lontana, la guerra si combatte pur sempre in Europa, gli effetti economici industriali, commerciali ed agricoli, “grazie” alle sanzioni, si fanno sentire più sul proletariato europeo e su quello centro-nord africano che non sulla Russia. Milioni saranno i disoccupati europei che dovranno sopportare l’economia di guerra tra Russia e Usa-Nato combattuta sul territorio ucraino. Centinai di milioni di africani, asiatici e di altri continenti rischiano di piombare in una emergenza alimentare, poi sanitaria ed infine umanitaria a causa delle beghe imperialiste. Russia e Usa continuano il conflitto ad oltranza. La prima, la Russia, perché aveva ed ha come obiettivo primo quello di cambiare il governo Zelensky in favore di uno filo-russo, in modo da non correre il rischio di trovarsi i missili Nato sull’uscio di casa. Secondariamente, Putin, con la sua mossa contro l’Ucraina, cerca di arraffare quanto più gli è possibile. Pur ridimensionando le aspettative iniziali, il Donbas, la Crimea e, se possibile Odessa, dovrebbero entrare a far parte della federazione russa.
La seconda, gli Usa, arma a suon di miliardi di dollari (50 per il momento) l’esercito ucraino pur di indebolire l’avversario, di costringerlo ad una capitolazione o, nel caso meno favorevole, a ridimensionare aspettative ed ambizioni di “grande Russia”così care a Putin e ai nostalgici stalinisti dell’Impero sovietico.
Nel frattempo, come si è detto, il peso delle sanzioni grava sul proletariato europeo in termini di licenziamenti e super sfruttamento e su quelli russo e ucraino che, da lavoratori perdenti il posto di lavoro, sono diventati lavoratori perdenti la vita in nome di due avidi nazionalismi. Questi, per vincere la loro battaglia, sono disposti a nutrirsi del sangue di quei proletari che, prima della guerra, si “limitavano” a sfruttare, e dei quali, adesso, oltre al lor sangue vogliono la loro anima, in nome di quel nazionalismo dietro il quale si nascondono i più feroci interessi imperialistici delle rispettive borghesie.
Tornando al proletariato europeo e alle politiche antinflazionistiche, l’alto costo del danaro comporta un aggravio per tutte le forme di indebitamento (prestiti, mutui) che, per le famiglie meno agiate, diventano una sorta di cappio al collo. Intanto l’inflazione continua e per i redditi più bassi, quelli dei salariati, il costo della vita (affitti, generi alimentari, beni di prima necessità, medicine comprese) non è aumentato del 8%, ma almeno del doppio.
Tutto ciò nella speranza che la guerra non dilati i suoi confini, preparando quello che sarebbe un macello di dimensioni mondiali.
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