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Home ›Guerra e sanzioni picchiano durissimo, ma non sugli oligarchi (dei due fronti)
Nei primi giorni successivi alla scoppio della guerra, i mass media, a reti unificate, mostravano trionfanti gli “scalpi” presi al nemico, nella fattispecie gli yacht extralusso e gli immobili altrettanto lussuosi degli oligarchi russi, momentaneamente sequestrati. I pennivendoli, nostrani e non, in un crescendo di spirito patriottico, avevano così cominciato la loro campagna militare, a sostegno del fronte imperialista in cui si sono ben volentieri schierati, coerenti con se stessi e con il loro ruolo di disinformatori in servizio permanente ed effettivo della propria borghesia e del capo-bastone, ossia l'imperialismo nordamericano. Il “fermo” di alcuni simboli della spudorata ricchezza dei miliardari russi doveva essere la prova che in una democrazia, qual è quella occidentale, non si guarda in faccia a nessuno, quando c'è da difendere i valori della pace e, appunto, della democrazia. Insomma, il ministero della propaganda ha dato fiato a tutte le sue trombe per potenziare quello che è il suo compito: ingannare, distorcere, occultare, in una parola manganellare le coscienze – prima di tutto proletarie – per preparale non solo ai sacrifici che sono già arrivati, ma a quelli probabilmente più duri che arriveranno ed, eventualmente, al peggio, vale a dire una guerra nucleare.
Certo, non poter disporre del proprio yacht è una seccatura, ma per milioni di proletari dei paesi belligeranti la guerra e le sanzioni hanno conseguenze ben più “seccanti”, di sicuro non quelle di di trovare il lucchetto alla serratura della propria “barca” ormeggiata in qualche porto della Costa Smeralda. Per loro, lo scontro tra le due gang imperialiste, oltre al sangue versato di chi è sotto le bombe e le raffiche di mitra, significa peggioramento deciso delle condizioni di lavoro, sotto ogni punto di vista, tanto da mettere in forse i livelli minimi di sopravvivenza. Ma di tutto questo non se ne parla o se ne parla solo in qualche “testata”, spesso on-line, che ha scarsissime possibilità di contrastare il fuoco di sbarramento mediatico ufficiale. Sia chiaro, anche quelle “piattaforme” non esprimono certo un punto di vista comunista e, anzi, può capitare che siano finanziate da pezzi grossi della borghesia mondiale, che sostengono il “giornalismo democratico” per dimostrare la bontà della democrazia borghese e dalla collaborazione di classe. Ciò non toglie che, fatta la tara all'ottica riformista, possano aprire squarci sul mondo proletario che non è sempre facile trovare. Per esempio, sul sito di Open democracy del 6 aprile c'è un'inchiesta sui lavoratori migranti in Russia, provenienti dalle ex repubbliche sovietiche dell'Asia centrale, e in particolare dal Kirghizistan, travolti dalla bufera della recessione economica causata dalla guerra e dalle relative sanzioni occidentali. Certamente, non è solo lo strato più oppresso della classe salariata a dover combattere per la sopravvivenza a causa della guerra scatenata dai “suoi” padroni, ma è il settore proletario che per primo paga le conseguenze dello scontro interborghese. Come ovunque e come sempre, anche in Russia gli immigrati fanno i lavori più malpagati, più precari, dove l'arroganza padronale aggira tranquillamente i pur deboli argini giuridici e sindacali a tutela – si fa per dire – della forza lavoro. Con il rallentamento o la chiusura dell'attività di numerose aziende – per es., le multinazionali del terziario – con la svalutazione del rublo, molti lavoratori, occupati spesso nei servizi, non riescono più a sostenere le spese quotidiane e tanto meno a mandare soldi a casa, così che in molti stanno tornando ai loro paesi, dove ritrovano la miseria che avevano lasciato, ma almeno sopravvivono. E' un vero e proprio dramma, tenendo conto che le rimesse degli emigranti costituivano nel 2020 un terzo del Pil del Kirghizistan e il 27% del Tagikistan. Ora, nel primo paese, è previsto quest'anno un calo del 33%, tanto che il governo pensa di allentare i rapporti politico-economici con la Russia e di rafforzarli o allacciarli con altri partner. Posto che se così fosse, sarebbe un punto a favore della NATO, rimane il fatto che una guerra combattuta in Europa fa sentire i suoi pesantissimi effetti anche su proletariato dell'Asia centrale, a ennesima conferma, se ce ne fosse mai bisogno, che davvero il mondo è tutto avvolto nelle spire del capitale. Mai come in questi tragici momenti appare evidente che il richiamarsi a specificità nazionali – che pure ci sono, ovvio – per giustificare la guerra è per lo meno fuori tempo massimo: si maneggia un rottame arrugginito col rischio di prendersi il tetano.
Se le cose vanno molto male per il proletariato che fornisce plusvalore alla borghesia russa (e uomini alla sua guerra), per quello ucraino vanno anche peggio e non solo per le ovvie ragioni belliche, ma perché la borghesia ucraina, con la scusa del conflitto, ha accelerato e approvato una legge che di fatto legalizza condizioni di lavoro persino peggiori di quelle cui devono sottomettersi gli emigranti asiatici, se non altro perché la normativa fresca di Rada (il parlamento) dà il sigillo della legalità alla tirannia padronale. La proposta di riscrivere la legge sul lavoro circolava già dalla fine del 2019 ed era portata avanti dal partito del “Beato” Zelensky – Servitore del Popolo – con l'assistenza spirituale, niente meno, del Foreign office britannico (ministero degli esteri), oltre che della legislazione statunitense, a cui si ispira. Insomma, una cooperazione imperialista a tutto campo, prima per spianare la strada agli investimenti futuri, attratti dallo sfruttamento incondizionato di una forza lavoro che ha il vantaggio aggiuntivo, per i capitali esteri, di essere in un'area geopolitica vicino a casa e affidabile (mica come la Cina), poi nell'invio massiccio di missili e strumenti di morte in genere.
La nuova legge è guidata dal criterio di base del “lavoro discrezionale”, vale a dire la pressoché completa libertà dei padroni di licenziare, di aggirare-annullare i contratti nazionali di lavoro, di aumentare l'orario settimanale fino a 60 ore, di impiegare “a discrezione”, appunto, il lavoro delle donne e dei bambini, anche in settori pericolosi e molto faticosi come le miniere e via dicendo. Insomma, un salto all'indietro di duecento anni, tanto che la stessa OIL (agenzia dell'ONU) aveva “redarguito” Zelensky, facendogli cortesemente presente che avrebbe calpestato un accordo mondiale del 1935 sul lavoro delle donne e dei fanciulli.
Ma se le informazioni sono corrette, il “Beato” di cui sopra non è da solo, nell'intensificazione della guerra contro la classe lavoratrice, perché anche il suo vicino di casa, Lukashenko, ha adottato grosso modo le stesse misure, ma poiché si trova nella barricata imperialista avversaria, la UE l'anno scorso ha escluso la Bielorussia «dal sistema di preferenze tariffarie dell'UE per violazione dei principi dell'OIL». Anche se, in quanto comunisti, dalla borghesia ci aspettiamo le peggiori nefandezze, non abitueremo mai il nostro stomaco a simili ripugnanti ipocrisie, così come non ci stancheremo di denunciare il ruolo del sindacalismo, che disarma la classe, la anestetizza e la consegna, oggettivamente, nelle mani dei suoi sfruttatori. Infatti, di fronte al massacro sociale preparato dalla nuova legge, un sindacalista lamenta (niente di nuovo sotto il sole) che il governo sia andato avanti senza consultare i sindacati, come facevano, invece, i governi precedenti: «Soltanto questo sedicente governo si è comportato come un imbroglione. Se c'è bisogno di cambiare la normativa sul lavoro devi sederti a un tavolo in modo civile e concordare come».
Purtroppo, per la borghesia la “civiltà” è un concetto molto elastico che, in ogni caso, non prescinde dal sudore, dalle lacrime e dal sangue.
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