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Home ›La “ripresa” delle disuguaglianze
È arrivata la ripresa. Così almeno dicono i dati sfornati da più parti e così sembrerebbe.
“Dappertutto”, nel 2021 il Pil è cresciuto con un andamento che non si vedeva da decenni: negli Stati Uniti del 5,7%, nell'Eurozona del 5,6%, in Italia del 6,5% e in Francia addirittura del 7%. Tutto bene, dunque? Non proprio, perché, com'è noto, il 2020 aveva visto un tonfo del Pil da economia di guerra - per es., in Francia dell'8%, in Italia, tra i peggiori, dell'8,9% - ma molti paesi, tra cui quelli nominati, non hanno ancora recuperato i livelli del 2019 sotto ogni punto di vista. Inoltre, le prospettive per il 2022 hanno cominciato a essere riviste al ribasso, nel momento stesso, si potrebbe dire, in cui venivano suonate le trombe annuncianti la resurrezione economica. Per limitarci all'Italia, la Confindustria segnalava già a dicembre un rallentamento/arretramento della produzione industriale rispetto ai mesi precedenti e a gennaio la marcia indietro era ancora più decisa, cioè dell'1,3%. Non può essere altrimenti, dato che la pandemia è stata – ed è ancora – una mazzata tremenda, ma, come abbiamo sempre sottolineato, si è abbattuta su di un sistema economico già pieno di guai per conto suo. Guai di carattere strutturale - con radici, cioè, che affondano nei decenni precedenti - e che non possono essere superati in ventiquattro mesi, nonostante le dosi massicce di denaro che i governi hanno messo a disposizione per le vene esauste dei capitalismi “nazionali”. Si parla di 16.000 miliardi di dollari, finiti in gran parte (70%), com'è ovvio che sia, nelle tasche della borghesia, soldi che hanno messo in terapia intensiva il sistema economico-produttivo, ma, appunto, non possono risolverne i problemi di fondo, perché le patologie sono troppe e troppo gravi, tutte riconducibili a un'unica causa: bassi saggi del profitto. Sono essi che frenano gli investimenti nell'economia “reale” e incentivano invece la speculazione finanziaria, quale sistema per eludere la legge del valore ossia per aggirare la scarsa redditività del capitale investito produttivamente, con la predazione del plusvalore estorto a livello mondiale e, va da sé, il saccheggio dell'ambiente, con tutto quello che ne segue. Anzi, per un apparente paradosso, lo stato, tenendo in vita capitali singoli che, lasciati e se stessi, morirebbero nella lotta per l'esistenza sul mercato mondiale, impedisce quella “distruzione creativa”, o eliminazione di capitali in eccesso, che potrebbe rilanciare una ripresa vera ossia un nuovo ciclo di accumulazione. Nonostante questo, centinaia di migliaia di piccole e medie imprese hanno chiuso con relativa perdita di posti di lavoro. Tale è lo sfondo su cui gli stati stanno affrontando la pandemia, al quale si aggiungono nuovi fattori dovuti proprio in gran parte all'attenuazione (sarà vero e fino a che punto?) della virulenza pandemica e alla riaperture pressoché simultanee a livello mondiale. La richiesta pressante di merci di ogni tipo ha prodotto le famose strozzature nella catena mondiale del valore, così che diversi comparti (vedi l'automobile) hanno dovuto rallentare bruscamente o addirittura fermarsi per mancanza di elementi indispensabili alla filiera produttiva. Ci sono poi i prezzi dell'energia, la cui impennata ha indotto qualcuno ad accostare quasi il rincaro a quello dello shock petrolifero del 1973, al tempo della guerra del Kippur. All'aumento rapido della domanda e alla speculazione, si deve aggiungere l'escalation dello scontro imperialista in Ucraina, che getta altre pesanti ombre sulla ripresa...
Lo scatto in avanti dei prezzi significa ritorno dell'inflazione – passeggera? Questo è il problema... - che da anni non era così alta: più 7% negli USA per i generi alimentari, più 5,1% nella UE, più 4,8% (12% per i generi alimentari e le tariffe per il consumo energetico domestico) in Italia. L'inflazione, però, rischia di innescare il rialzo dei tassi di interesse – oggi persino negativi - da parte delle banche centrali, il che potrebbe avere gravi conseguenze sui debiti pubblici (e privati), molto cresciuti in questi due anni, e sull'attività economica in generale.
Non sono però solo i meccanismi economici del capitale a girare più velocemente, anche le condizioni di esistenza del proletariato hanno subito un'accelerazione, ma in peggio e non solo in Italia. Per ripeterci, questo peggioramento è sì il prodotto di una tendenza pluridecennale, ma la pandemia ha calato un carico da undici.
Se la precarietà è ormai da molto la modalità prevalente di assunzione, nel 2021 l'aumento dell'occupazione dipendente è per il 73,5% dovuto a contratti di lavoro a termine, con le conseguenze che tutti conoscono sulla pensione, sulle “garanzie” (termine quanto mai improprio) legate al lavoro dipendente a tempo indeterminato, per non parlare, va da sé, sul salario. Non è un caso che l'area dei “working poor”, quei lavoratori che hanno un salario al limite o, non di rado, sotto la soglia della sopravvivenza, riguardi oltre cinque milioni di persone, circa un quarto della forza lavoro. Tra parentesi, l'aumento della “discontinuità lavorativa” (precarietà) annullerebbe gli eventuali effetti positivi del salario minimo – qualora venisse istituito – perché non sono solo le scarse retribuzioni orarie a produrre “poveri al lavoro”, ma anche l'intermittenza dell'occupazione e quindi del salario. Se in Italia un milione di persone in più è stato gettato nella povertà, a scala mondiale si parla di 163 (qualcuno 180) milioni di individui che si sono aggiunti alle già ampie schiere di poveri; ma il dato, forse, è ottimistico, visti i criteri di rilevazione statistica. Il tutto è avvenuto mentre i dieci uomini più ricchi del pianeta hanno abbondantemente raddoppiato i loro patrimoni – da 700 a 1500 miliardi di dollari – due sole persone (Bezos e Musk) posseggono quanto il 42% più povero della popolazione USA e, in Italia, nell'ultimo anno sono “nati” 13 nuovi miliardari, col risultato che 40 super-ricchi detengono un patrimonio equivalente a quello del 30% più povero della popolazione, cioè 18 milioni di adulti.
La povertà, e anche questo è conosciuto, ha colpito in particolare le donne che, nel 2021, hanno perso 800 miliardi di dollari di reddito, pari al Pil di 98 paesi, ma hanno pagato caro anche i giovani e i “gruppi razzializzati”, cioè le persone variamente “colorate” (per usare una sintesi terminologica oggi di moda) che il capitale sfrutta e opprime più degli altri settori proletari, usando così a proprio vantaggio pregiudizi e discriminazioni di genere e di “razza” preesistenti al capitalismo. La borghesia, infatti, non ha mai esitato a porre al proprio servizio metodi di oppressione tipici di altre formazioni sociali e di epoche passate, per rafforzare il proprio dominio. Anzi, l'oppressione rafforzata della forza lavoro femminile (salari più bassi a parità di lavoro ecc.) costituisce una controtendenza importante alla caduta del saggio di profitto, allo stesso modo che l'ipersfruttamento dei “gruppi razzializzati”, con il doppio vantaggio, per la borghesia, di dividere e contrapporre artificialmente il proletariato, che non di rado è vittima di un abbaglio autolesionista fomentato dalla classe dominante sulla base del colore della pelle e del sesso: il vecchio ma sempre efficace “dividi e domina”.
Si potrebbe continuare a citare dati che gridano vendetta sull'arricchimento sfrenato di pochissime persone a danno di miliardi di individui, ma la lista diventerebbe lunga. Uno, però, vale la pena sottolinearlo, per smentire una leggenda che ha avuto larga diffusione negli ultimi due anni, cioè che nei paesi “in via di sviluppo” si moriva (e si muore) di meno per covid rispetto ai paesi detti avanzati. Secondo il rapporto Oxfam, invece, i citati “gruppi razzializzati” sono stati i più colpiti e la proporzione delle persone infettate che muoiono in seguito al virus è circa due volte più importante nei paesi poveri che in quelli ricchi. Un virus è un virus, ma ha modo di imperversare là dove non ci sono vaccini, servizi sanitari almeno sufficienti, la povertà rende impossibile il distanziamento nelle abitazioni, dove mancano o scarseggiano i dispositivi di protezione individuale ecc. Persino il Financial Times qualche tempo fa ha detto che la cifra di cinque milioni di morti per il covid era ampiamente sottostimata e che quella vera era di almeno 17 milioni.
Per chiudere, un altro elemento emerge dal quadro qui tratteggiato, vale a dire l'assenza della classe operaia (intesa in senso lato) che, nonostante le aggressioni della borghesia, amplificate dalla pandemia, continua a tacere o a far sentire troppo debolmente la propria voce. Anzi, capita addirittura che si metta a rimorchio della piccola borghesia reazionaria, che urla e si agita perché vorrebbe dai governi ancora più libertà d'impresa, ancora più “ristori”, alla faccia della salute collettiva e delle stesse tasche proletarie, da cui i sostegni, in definitiva, sono presi. Finora il grosso della classe non si è espresso con una critica autonoma alla gestione borghese della pandemia, così come non si pone sul proprio terreno classista nel contrastare il peggioramento della propria vita dovuto ai problemi vecchi e nuovi del capitale. La cosa non ci stupisce: fino a quando non alimenterà con le sue lotte le ancora troppo deboli organizzazioni rivoluzionarie, le uniche che possono indicare la via d'uscita da questo sistema mortifero, sarà preda delle varie forme tossiche dell'ideologia dominante, della borghesia.
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