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Home ›Sulle elezioni in Cile
Quello che sembrava improbabile è accaduto. Il 19 dicembre scorso, Gabriel Boric, il candidato del centro-sinistra per le presidenziali cilene, ha battuto l'avversario, esponente della destra più reazionaria, Josè Antonio Kast. Probabilmente è stato anche il timore che quest'ultimo – nostalgico aperto dei “bei tempi andati” della dittatura pinochettista – diventasse presidente, a spingere una parte dell'elettorato ad andare a votare, abbassando la soglia dell'astensione al 44%, quando normalmente si aggira o supera abbondantemente il cinquanta per cento.
Boric, oltre ad avere vinto con un margine ampio (il 56%), è anche il più giovane presidente della storia del Cile e per lui si sono spesi i partiti e i “circoli” del centro-sinistra e della sinistra parlamentari, che hanno dato vita al cartello elettorale Apruebo Dignidad, comprendente il Frente Amplio e il Partito “comunista” cileno (le virgolette sono obbligatorie).
Altro fatto significativo è che la maggioranza dei consensi è venuta dalle grandi città e, in queste, dai quartieri popolari, segno evidente che una parte almeno della classe lavoratrice ripone in Boric la speranza in un miglioramento delle proprie grame condizioni di esistenza. Infatti, le cifre del “miracolo” economico che avrebbe toccato il paese dal golpe del 1973 in poi, riempiono di soddisfazione la borghesia cilena e le istituzioni della borghesia internazionale, quali il FMI o l'OCSE, molto meno chi è alla base del presunto miracolo, vale a dire il proletariato.
Secondo le statistiche ufficiali, dopo la mattanza messa in atto dalla “junta” di Pinochet, in concertazione e su istigazione della CIA, la povertà (ufficiale) si sarebbe ridotta dal 30% al 6,7%, il PIL pro-capite sarebbe triplicato, facendo così del Cile il paese più ricco di tutta l'America Latina. Si sa, però, che le statistiche, in sé, possono dire poco o addirittura stravolgere la realtà: la famosa media del pollo... Un PIL pro-capite triplicato non significa affatto che la ricchezza generata sia “sgocciolata” in maniera uniforme su tutti gli strati della popolazione, per usare il termine caro ai famigerati Chicago boys guidati dal non meno famigerato economista Milton Friedman, consigliere della giunta di assassini che ha tenuto in pugno il paese per quasi vent'anni e profeta delle politiche dette neoliberiste, adottate dalla borghesia mondiale negli ultimi decenni. Secondo la teoria dello “sgocciolamento”, infatti, se lo stato si ritira dalla gestione diretta dell'economia e di altri settori della società, la crescita economica sarà tale che inevitabilmente sgocciolerà verso il basso. Quindi, occorre eliminare le barriere che costituiscono un ostacolo all'espansione degli affari, tra cui la gestione “pubblica” dei servizi essenziali (sanità, scuola, trasporti), privatizzando tutto quello che è possibile privatizzare e anche di più, consegnando il controllo-amministrazione del salario differito (le pensioni) direttamente nelle mani delle imprese private; senza dimenticare, naturalmente, il drastico abbassamento delle imposte per i ricchi e il “business”. Perché l'esperimento “idraulico” riesca – sempre secondo i chicos di Chicago – è necessario che la forza-lavoro sia come cera nelle mani del capitale, cioè totalmente disponibile alle sue esigenze, per cui ogni forma di resistenza operaia, intesa in senso lato – si esprima nelle forme più docili del sindacalismo concertativo o di quello meno collaborazionista o anche, a maggior ragione, della lotta spontanea fuori e contro il sindacato – deve essere spazzata via e soffocata sul nascere. E' la solita drammatica storia di un capitale che, sotto la frusta di determinate condizioni, non può più permettersi di condividere la gestione della forza-lavoro col sindacato e i partiti della sinistra borghese, per cui non gli rimane altra alternativa che passare all'uso aperto della forza, mettendo da parte la finzione della democrazia borghese. In Cile, con Pinochet (e poi in quasi tutto il Sudamerica) successe questo, tant'è vero che il diritto di sciopero di fatto fu abolito, a dimostrazione ulteriore che i “diritti” non sono nient'altro che espressione di determinati rapporti di forza in determinate condizioni economico-sociali; e di solito, la forza sta dalla parte della borghesia.
L'inasprimento dell'oppressione e dello sfruttamento del proletariato è stato ed è, dunque, alla base dei “successi” dell'economia cilena, favoriti, fino a una decina di anni fa, dal rialzo dei prezzi delle materie prime, tra cui il rame e il litio, di cui il paese è uno dei principali esportatori. Ma il proletariato cileno, nonostante le statistiche trionfali, ha goduto ben poco, come si diceva. Il Cile è uno dei paesi più disuguali al mondo, in cui l'1% della popolazione detiene il 26,5% della ricchezza nazionale e il 50% più povero il 2%; davvero non si capisce come in un paese in cui la povertà sarebbe nettamente diminuita, il 70% della popolazione sia indebitata (12,6 milioni di persone, su 18 milioni di abitanti) e un terzo di questo non sia in grado di ripagare il proprio debito. A tutto ciò si aggiunga che il sistema sanitario “pubblico” è largamente insufficiente (per curarsi davvero, bisogna pagare, e non poco), così come quello scolastico e le pensioni, a capitalizzazione in mano ai privati, permettono solo una difficile sopravvivenza, essendo troppo basse per consentire una vita “dignitosa”, basse come i salari medi, anzi, in proporzione ancora di più. La discesa del prezzo delle materie prime dal 2010, con il conseguente rallentamento dell'economia, è “sgocciolata” inevitabilmente sulla classe lavoratrice, aggravandone il malessere sociale, il quale, dopo le avvisaglie studentesche del 2006 e del 2011, alla fine è esploso nelle grandi lotte sociali dell'autunno 2019. Com'è noto, la scintilla fu l'ennesimo aumento dei biglietti del trasporto pubblico, ma le radici erano appunto più profonde, sintetizzate dallo slogan “Non sono trenta pesos [il prezzo del biglietto], sono trent'anni”, con evidente allusione ai decenni di politiche “neoliberiste”. Scioperi generali, scontri di piazza in cui le forze dell'ordine borghese ricorsero con abbondanza a tutto il campionario della violenza borghese “a bassa intensità”, non esclusi gli stupri in caserma (ma anche nelle strade) delle donne fermate/arrestate, le uccisioni, le invalidità permanenti (persone rese cieche dalle armi antisommossa), costrinsero l'allora presidente Piňera a qualche blanda concessione e in ogni caso crearono o, meglio, inasprirono l'insofferenza verso una situazione sempre meno tollerabile per settori crescenti di popolazione. In questo scenario di crisi, pagata come al solito dal proletariato e dagli strati sociali ad esso contigui, si è sovrapposta la pandemia che, ancora una volta senza sorprese, ha “esaltato” gli effetti negativi della crisi sottostante sulla classe lavoratrice in generale e, in particolare, sui giovani e sulle donne. Piňera, fino all'estate scorsa, non ha fatto niente per attenuare le gravi difficoltà del proletariato, tanto che parecchie persone hanno dovuto prelevare somme considerevoli dal loro fondo pensione, per arrivare in qualche modo alla fine del mese (con conseguenze pesanti sulle pensioni), poi ha distribuito aiuti a pioggia anche alle classi medio-alte, col duplice obiettivo di preparare un terreno favorevole al futuro candidato presidenziale della destra e aumentare artificialmente i consumi, e quindi il PIL. Tutto questo, però, evidentemente non è bastato per impedire la vittoria di Boric, il quale si presenta con un programma riformista ambizioso. Riforma radicale del sistema pensionistico, sanitario e scolastico, progressività dell'imposizione fiscale, tutela ed estensione dei cosiddetti diritti civili (Lgbt, matrimoni omosessuali ecc.), sviluppo dell'economia “verde” e revisione di alcuni progetti di sfruttamento minerario che minacciano l'ambiente e rare specie di animali: questi, in sintesi, gli elementi più qualificanti del neo-presidente, ma che hanno davanti molti ostacoli. Il primo è che questa fase storica lascia poco spazio in generale e grandi progetti riformisti (la crisi è la crisi), anche se l'attuale aumento del prezzo delle materie prime può dare una mano, visto che il Cile è, come si diceva prima, tra i principali produttori-esportatori mondiali di rame e litio, metalli indispensabili in sé e, in particolare, per la cosiddetta transizione ecologica. Inoltre, una riduzione decisa del ruolo dei fondi pensione privati – così come delle aziende che operano nella sanità, nella scuola, l'aumento delle tasse per i ricchi ecc. - toccherebbe interessi enormi, per cui si può essere certi che la borghesia non trascurerà nessuno sforzo per sabotare o, al peggio, annacquare le riforme, anche perché un deficit pubblico al 13% concede margini molto stretti. Oltre a questo, Boric può contare, ora, su una maggioranza alle Camere molto incerta e alcuni dei suoi “sponsor” principali – tra cui l'area della Concertaciòn, cioè democristiani e socialdemocratici – non sono disposti a concedergli di fare ciò che non hanno fatto quando governavano (per es., Michelle Bachelet). Anche se le prossime elezioni gli daranno una maggioranza più stabile e la nuova costituzione un percorso istituzional-riformista meno accidentato, il giovane presidente cercherà di mediare tra i paletti economici che gli ha messo la borghesia “progressista” (termine molto ardito...) e le aspirazioni del suo elettorato popolare.
E' fin troppo facile prevedere che per quest'ultimo le delusioni fioccheranno, il che potrebbe costituire il primo passo in un processo di maturazione politica, se ci fosse un punto di riferimento in grado di trasformare delusione e amarezza in combustibile per la lotta di classe in senso rivoluzionario. Purtroppo, per quello che ne sappiamo, oggi così non è e ancora una volta la determinazione, la generosità, la combattività di strati significativi del proletariato (e anche di piccola borghesia in sofferenza sociale) espresse in questi anni, corrono il forte rischio di finire nel niente della competizione elettorale interborghese. E' la sorte che tocca alla nostra classe, finché l'organizzazione rivoluzionaria, il partito, alimentato dialetticamente dalle sue lotte, non rimetterà radici là dove è nato e deve vivere.
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