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Home ›Scioperi generali, sindacati e prospettive del conflitto
L’autunno 2021, nel complesso non molto “caldo” a dire il vero, è stato caratterizzato da ben due scioperi generali, dei quali uno che ha visto la storica compartecipazione di tutto il sindacalismo di base, l’altro indetto dalla CGIL. Entrambi sono paradigmatici dei limiti nei quali si muove il sindacalismo oggi, per questo ci sembra utile ripercorrerne i significati per grandi capi, mettendoli a confronto con la nostra proposta dei Gruppi Internazionalista di luogo di lavoro e territorio.
Andando in ordine di tempo affrontiamo prima lo sciopero del sindacalismo di base .
Lunedì 11 ottobre si è tenuto il primo sciopero generale che ha coinvolto tutto il variegato mondo del sindacalismo di base, oltre 15 sigle dai “maggiori” USB, Cobas, SiCobas, ai “minori” attorno ad una piattaforma “politica-rivendicativa” orientata verso un percorso di “costruzione dell’opposizione sociale”. I motivi dello sciopero, leggendo il comunicato stampa erano tanti: l’ondata di licenziamenti che ha investito decine di aziende maggiori, dalla Whirpool alla GKN, per citare le più importanti, e migliaia di singoli lavoratori in tutto il paese, anche grazie allo sblocco dei licenziamenti sottoscritto da CGIL-CISL-UIL; l’aumento dei ritmi di lavoro, del controllo, della precarietà imposti dal padronato in questa “crisi pandemica”; l’ondata repressiva contro gli scioperi, culminata nell’omicidio del facchino Adil Belakhdim. A fronte di tante e tali problematiche le risposte avanzate da questo fronte sindacale sono: riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, forti aumenti economici, salario medio (?) garantito a tutti i disoccupati, riduzione di precarietà e sfruttamento, forti investimenti pubblici in scuola, sanità, trasporti…
L’aspetto “positivo” di questo sciopero, proclamato con circa 6 mesi di anticipo, è stato che finalmente le sigle del sindacalismo di base si sono unite e sono riuscite a fare qualcosa assieme, quella negativa è che questo “qualcosa” è stato sia in termini di mobilitazione che di contenuti politici molto al di sotto delle necessità del momento, rimandiamo a dopo una riflessione sui contenuti. Vediamo invece, a fronte della medesima situazione, cosa ha proposto il più importante sindacato italiano.
Giovedì 16 dicembre è stata la volta dello sciopero generale della CGIL (e della UIL) “per protestare contro una legge di bilancio che taglia le tasse più ai ricchi che a lavoratori e pensionati” in ballo in particolare i rinnovi delle pensioni e la destinazione del “bonus fiscale”. Erano passati 7 anni dall’ultimo sciopero generale, quello contro l’abolizione dell’articolo 18. Anni nei quali il sindacato si è fatto carico delle compatibilità dell’economia nazionale in crisi, soffocando gli aneliti di conflitto di settori di lavoratori, contrattando, tra l’altro, azienda per azienda, decine di situazioni di crisi e portando i lavoratori di pratica sterile in pratica sterile fino al licenziamento (ultima la Whirpool), ultima in ordine di tempo la firma sul definitivo sblocco dei licenziamenti il 31 ottobre scorso. Lontani sono gli anni della concertazione, in cui il sindacato era pienamente coinvolto nella cogestione della crisi – sempre con ruolo anti-operaio, si intende. Con poche eccezioni, ed in particolare con Draghi, i governi che si sono succeduti negli ultimi anni hanno via via ridotto il ruolo del sindacato passato sempre più da interlocutore a “ricevitore di comunicazioni”, senza possibilità di discuterle. In questa partita il sindacato aveva chiesto almeno un minimo di vantaggi fiscali per i lavoratori, e qualche aumento delle pensioni, Draghi prima ha annuito e poi, di fatto, ha girato quasi l’intera partita nelle casse del padronato, e così Landini dopo averlo strumentalmente minacciato per settimane, ha convocato improvvisamente uno sciopero generale simbolico, frammentato (molte categorie non erano coinvolte) mal preparato e quindi poco partecipato. Quanto bastava per dire a Draghi “ci siamo anche noi” e in parallelo martellare in testa ai lavoratori il chiodo per cui “non è aria di lotte e mobilitazioni serie e combattive”.
Alcune riflessioni.
Lo sciopero del sindacalismo di base provava, almeno in alcuni intenti, a toccare dei nervi scoperti dell’offensiva padronale alla forza lavoro e del generale peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro di milioni di proletari, ma lo faceva con il consueto metodo velleitario del sindacalismo di base, dove ad una giusta denuncia della deprecabile condizione proletaria è associato il nulla di una proposta politica e di mobilitazioni sterili e tutte interne al capitalismo e alle sue logiche. Il che è quanto i nostri compagni hanno denunciato con i loro interventi in piazza . Un capitalismo che, si badi bene, non viene mai messo in discussione, le soluzioni vanno, per quest’area, tutte trovate all’interno dell’ordine di cose esistenti e l’anticapitalismo, dove richiamato, è inconseguente e privo di sostanza, di facciata insomma. Facciamo infine notare che la velleità dell’unità del sindacalismo di base è crollata prima ancora dello sciopero, quando le differenti sigle hanno boicottato l’assemblea organizzativa unitaria, per poi riprendere, dal giorno dopo, la solita contrapposizione parrocchiale finalizzata al contendersi gli iscritti, ostacolando così, nei fatti, il già difficile percorso della ricostruzione di una conflittualità e di una unità di classe tanto acclamate a parole.
Lo sciopero della CGIL è stato invece dettato unicamente dalla necessità di quest’ultima di essere minimamente presa in considerazione dal governo in quanto interlocutrice, o almeno non apertamente raggirata, come accaduto in questo caso. I morti sul lavoro, il caro-vita, la precarità, i licenziamenti etc. non sono un problema che tocchi più che tanto i vertici CGIL, pertanto il dibattito che ha animato parte della sinistra exraparlamentare e del sindacalismo di base sul “se” bisognasse aderire o meno allo sciopero CGIL è stato piuttosto sterile. I nostri compagni hanno si scioperato, ma solamente per dimostrare ai colleghi che non si tirano indietro, non certo perché credessero che lo sciopero confederale avrebbe aperto degli spazi di mobilitazione reale, che invece, se anche ci fossero stati, si sarebbe semplicemente limitato a fagocitare.
Siamo fermamente convinti, e i fatti non fanno che confermarlo, che tanto la CGIL è un istituzione dello stato borghese, e in quanto tale nemica del proletariato, quanto il sindacalismo di base non perde occasione per rivelarsi uno strumento inefficace ai fini della ripresa della conflittualità di classe. Non è un caso che i primi cobas nascessero proprio dal declino del movimento spontaneo di classe, snaturandolo, istituzionalizzandolo, piegandolo agli interessi della contrattazione e della rappresentanza sindacale.
Naturalmente non osteggiamo le lotte rivendicative, che sono sempre il punto di partenza di qualsiasi movimento di classe, ma, coscienti che la ripresa della lotta proletaria sarà un processo lungo, articolato e complesso, indichiamo la necessità di costruire attorno ai militanti internazionalisti dei primi Gruppi Internazionalisti nei luoghi di lavoro e nei territori, ossia nuclei che sappiano collegare le istanze e le rivendicazioni immediate con in motivi di base dell’anticapitalismo, con la necessità di collocare i singoli conflitti nella prospettiva della necessità del superamento di questo sistema. Solamente ricucendo assieme, passaggio dopo passaggio, le problematiche concrete reali e immediate con i motivi politici della prospettiva anti-capitalista, quest’ultimao potrà tornare a circolare nella classe, non come sterile e vuota parola d’ordine da urlare nei cortei - mentre la si rinnega nelle assemblee sul luogo di lavoro -, ma come un programma concreto che inizia con la difesa degli interessi immediati materiali di classe, si oppone ai tatticismi e ai particolarismi sindacali, e sviluppa la necessità della conquista di un mondo nuovo, nel quale sfruttamento, oppressione e guerre, non trovino più posto. I Gruppi Internazionalisti sono l’articolazione sul luogo di lavoro e il territorio attraverso il quale il partito si costruisce e si radica nella classe, facendo in essa circolare il proprio metodo, programma, prospettiva, denunciando il ruolo negativo che nella lotta di classe svolgono tanto le forze della sinistra politica borghese, quanto quelle dei sindacato.
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