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Home ›Il capitale raschia il fondo
Questa crisi sistemica si aggrava nonostante i tentativi del capitale di invertire la caduta del saggio di profitto che lo affligge. Una irreversibilità aggravante anche le condizioni stesse della biosfera e della sopravvivenza di ogni specie, uomini e animali. Un centro di potere autonomo ci sovrasta: il capitale, tormentato fra colossali masse di denaro che anziché tenerlo in vita con una valorizzazione continua, lo stanno privando della sua stessa ragione di esistenza. Quella che si annuncia potrebbe essere non solo la sua catastrofe, ma anche quella di tutti noi.
Controllare l’agonia del capitale equivale condividerne gli effetti disastrosi; si mostra più che mai velenosa (ideologicamente e politicamente) l’illusione radical-riformista che pretende dal capitale la rinuncia a sfruttare quel lavoro salariato che si vorrebbe aumentasse. Queste “rivendicazioni praticabili” (da un sindacalismo democraticizzante?), sono persino presentate come “iniziative all’altezza della fase e del nemico di classe”, conformi alle “storiche parole d'ordine del movimento operaio” di un secolo fa…
Le varie tribù di questo sopravvissuto “sindacalismo” continuano ad avanzare patetiche rivendicazioni contrattualistiche senza il benché minimo accenno alla impossibilità, siano i gestori privati o pubblici del capitale, di metterle in pratica. Si perpetuano le frustrazioni, impotenze e rassegnazioni, in cui versa oggi il proletariato senza incidere minimamente sulla sostanza concreta dello sfruttamento e dell’oppressione capitalista. Senza rendere invece consapevole l’intera classe operaia, occupati e disoccupati, della impellente necessità di un superamento rivoluzionario del capitalismo. Un obiettivo oggi all’ordine del giorno; tutte le sue categorie e le sue leggi di movimento devono essere colpite dalla lotta contro quelli che sono i gangli vitali del capitale. Non devono essere abbelliti, resi sopportabili, più giusti e perciò accettabili.
Siamo prossimi alla resa finale dei conti: il capitale o la nostra vita (non certamente il “lavoro”, come ancora si invoca!). Ma fanno fare passi indietro ai proletari – di fronte al vero e proprio baratro che si sta spalancando davanti a noi – quelli che continuano ad inculcare nel proletariato che sia sufficiente ridurre profitti e rendite ai capitalisti per migliorare l’esistenza della masse proletarie. E così – sotto sotto, lo sperano senza dirlo – evitando la crisi del capitale!
Il compito delle sparute avanguardie di classe è quindi innanzitutto quello di far cadere la maschera di un antagonismo che in realtà mantiene una visione riformistica del futuro mantenendo in vita una produzione capitalistica. Basterebbe renderla più “giusta” e meno sfruttatrice – pur rispettando ed anzi rafforzando tutte le categorie fondamentali che sorreggono l’attuale modo di produrre e distribuire.
La “pubblica opinione” è immersa nelle astrazioni idealiste che alimentano le farneticazioni con le quali si cerca di puntellare la baracca. E di imbrigliare ancora una volta la eventuale ripresa della vera lotta di classe e ben guardandosi dallo stimolarla, classe contro classe, innanzitutto chiarendo (e non oscurando) il quadro reale entro il quale il proletariato è imprigionato. Restano in piedi le problematiche che ci si guarda bene dall’analizzare criticamente, indicando la sola via percorribile: superamento del presente e tragico “stato di cose” senza alcun suo “imbellettamento”.
Si parla quindi ancora di salari che, in quantità più giuste, dovrebbero remunerare il lavoro: costi e ricavi, entrate e uscite di denaro. Col sindacato, “riconosciuto e ammesso nelle fabbriche”, che si offre per “attuare nuove misure” che rimettano in ordine le aziende (!) proponendo programmi di “sviluppo” con tasse sulle grandi imprese per… finanziare quelle minori in crisi, con la nazionalizzazione delle Banche per meglio gestire le “risorse finanziare”. E ritorna persino il “controllo operaio”.
Qualche mese fa, anche il Financial Times proponeva lo studio di un piano, addirittura statale, pur di salvare il “contratto sociale” – diventato “fragile” – fra capitale e lavoro. Non importa – per il momento – se gli “investimenti” nei servizi pubblici rimangono “passività” sui sacri libri delle Entrate e Uscite. Sappiamo alla fine chi paga il conto!
Se prima della venuta del corona-virus il capitalismo cominciava a mostrarsi in… mutande, a tutt’oggi si stanno abbassando anche quelle. Si parlava – nei salotti degli esperti – di “migliorare” il sistema economico, magari “controllando (dal basso?) moneta e produzione”. Addirittura il sommo economista Bellofiore parlava di “garantire il lavoro” (quello salariato, s’intende) con le illusioni di “sostanziose redistribuzioni e tasse patrimoniali” per i capitalisti che si fossero dedicati a “ri-orientare per valori d’uso sociali la produzione”. Pur sempre di merci da pagare coi sussidi di disoccupazione! I cori dei servi sciocchi al servizio del capitale, anche se statale invece che privato, sono sempre più stonati, mentre gli “esperti” discettano sulla preferenza tra “spese in conto corrente o in conto capitale”….
Dunque, si vorrebbe rilanciare l’alternativa del valore-utilità accanto al valore-lavoro, già, ma ad una precisa condizione, cioè purché si tratti sempre di merce, con tanto di “giusto profitto”, cioè rispettando il solo vento che spinge le vele del capitale! Altrimenti gli “equilibri di mercato” si rompono, i movimenti di capitale si bloccano, aumentano spaventosamente debiti e disoccupazione.
E mentre i debiti per tutti lievitano a vista d’occhio, basterebbe un fallimento (come quello di Lehman Brothers – 2008) e, allora, si salvi chi può! Siamo in una situazione economica che – a livello globale – comincia a far tremare i polsi agli “scienziati” borghesi. La produzione, e la vendita di merci – “vitali” per la conservazione e riproduzione del capitale – si paralizza spezzando il metro di misura su cui si basa la sopravvivenza del sistema, vincolato ad uno sviluppo costante dei mercati. E i cosiddetti “servizi” – in primis la salute! – mostrano tutta la loro inadeguatezza di fronte alle necessità di “finanziamenti” (e non certo di… tagli a spese ritenute eccessive!) che però la borghesia non giustifica mancando una sufficiente produzione di merci da vendersi sul mercato a una clientela pagante, consentendo così al capitale la realizzazione del plusvalore.
Salgono le spinte per parziali “nazionalizzazioni”; vietato toccare i vigenti rapporti di produzione: basterebbe – dicono i più “progressisti” – da “finanziare con emissioni sul mercato dei capitali”. I quali si “muoveranno” – sempre dopo il loro “sviluppo” – menando legnate ad un proletariato (masse di miliardi di individui nel mondo) inevitabilmente immiserite e disperate. E non mancano altri servi sciocchi del capitale che propongono spese con tassazioni e finanziamenti in deficit, pur di “creare nuove attività produttive può far ripartire l’economia”.
Ed ecco, infine, il coronavirus: tremano i mercati e i fondamenti macroeconomici del capitalismo, compresi i suoi mercati finanziari. Franano le fumose “misure di risanamento economico”, in presenza di un malato cronico ormai in preda di spasmi agonici... Quella che si diffonde è una pandemia economica che difficilmente l’ordine capitalistico e il suo modo di produzione potrà sopportare, pur scaricando sulle masse proletarie quelle che saranno le più drammatiche conseguenze di una ipocrisia politica che si aggrappa al mito della “sacra unione” fra capitalisti e proletari. Una unione da spezzare al più presto!
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