“Liberisti” e statalisti in soccorso del capitale

Si sa che l'ideologia dominante, oggi quella borghese, ha la funzione di falsificare la realtà, per impedire, o quanto meno ostacolare, la presa di coscienza, da parte della classe sfruttata, sulla necessità di un cambiamento radicale dell'ordine economico-sociale. Questo è vero sempre e a maggior ragione nelle epoche di crisi profonda come quella odierna, da cui il capitale non riesce a tirarsene fuori. Anzi, vede aggravarsi enormemente gli effetti negativi a causa della pandemia.

Negli ultimi decenni, una della operazioni di maggior successo nel massacro della verità, è senza dubbio quella relativa all'invenzione, per così dire, del “neoliberismo”, termine fatto proprio non solo dalla borghesia, il che è scontato, ma anche da tanta parte di coloro che si pongono soggettivamente in una prospettiva di superamento del modo di produzione capitalistico e della relativa formazione sociale. Il martellamento propagandistico-ideologico, infatti, è stato tale che spesso si assume quella parola in maniera acritica, spontaneamente, viene da dire, come se fosse un dato di fatto e non, appunto, una colossale mistificazione o bugia che dir si voglia. Se per “liberismo” si intende un'economia di mercato (cioè capitalista) in cui lo stato non mette becco e lascia agire indisturbata la legge della domanda e dell'offerta, beh, tutto ciò non ha niente a che vedere con quanto è successo nel mondo da quarant'anni circa a questa parte.

Non è mai esistito il liberismo puro di cui straparlano i manuali di economia, neanche nei decenni centrali dell'Ottocento, benché allora la borghesia avesse indubbiamente qualche titolo in più per potere usare quel termine, dato che lo stato ha sempre giocato un ruolo di primo piano nell'assecondare e favorire il processo di accumulazione. Ma con l'aprirsi della fase imperialista del capitale, con l'affermazione del monopolio, alla fine del diciannovesimo secolo, parlare di liberismo ha rapidamente perso anche quel poco di significato che si poteva accogliere, senza esagerare. Di più, quello che è accaduto dopo – e non è poco: due guerre mondiali, ricostruzioni e nel mezzo rivoluzione, controrivoluzione, crisi del 1929 - ha progressivamente accresciuto l'intervento dello stato nell'economia, tanto che oggi il capitalismo non può farne a meno. Se lo stato, per assurdo, si astenesse veramente dall'entrare nei meccanismi del mercato,, come prevede la teoria liberista (compresa la versione “neo”), il capitale sarebbe già gambe all'aria da un pezzo. Come chi è schiavo della tossicodipendenza necessita di dosi crescenti di stupefacente, allo stesso modo il capitale ha bisogno dell'intervento statale, anche se questo intervento nel tempo può cambiare modalità. Fino agli anni Settanta del secolo scorso, il capitalismo di stato “classico”, ossia quello in cui lo stato deteneva la proprietà e la gestione di interi settori economici, era molto diffuso, e non solo nell'ex URSS, poi, con la fine del ciclo di accumulazione post-bellico, lo statalismo venne accusato di essere tra i principali responsabili della crisi e si cominciò la liquidazione, spesso la svendita, di gran parte del patrimonio industriale che aveva dato un contributo notevole al boom economico. In realtà, a parte le inefficienze e la corruzione, senza dubbio presenti negli organismi di gestione del capitalismo di stato, la crisi che si è abbattuta sul sistema una cinquantina d'anni fa non è imputabile a una forma specifica di capitalismo (“pubblica” o privata), ma esclusivamente alle contraddizioni ineliminabili del capitale, in primo luogo alla caduta tendenziale del saggio di profitto. Ma la ritirata dello stato dall'amministrazione diretta di pezzi dell'economia non ha significato il venir meno al ruolo di puntello del capitale. E non si parla solo di una legislazione volta a favorire – per dirla con Marx - “il guadagno e non il guadagnare”, cioè la speculazione finanziaria, l'appropriazione parassitaria del plusvalore rispetto alla sua estorsione nel processo economico. Oltre a una serie di leggi molto compiacenti in tal senso, lo stato – in tutto il mondo – ha messo spesso le mani al portafoglio per salvare dal fallimento banche, istituti finanziari di vario genere, imprese industriali e non, a spese, naturalmente, del “cittadino, vale a dire di chi paga regolarmente le tasse, quindi, in primo luogo, della classe lavoratrice in attività o pensionata. Niente di nuovo sotto il sole: la vecchia bandiera della borghesia su cui sta scritto “privatizzazione dei profitti, socializzazione delle perdite”, non è mai stata ammainata e, forse, mai come in questi anni di feroce “neoliberismo” garrisce al vento. Si potrebbe ricordare il salvataggio miliardario delle Casse di Risparmio in USA, proprio negli anni della “reaganomics”, antistatalista, si dice, per eccellenza . Ma questo è solo un esempio, fra i tanti, che impallidisce di fronte al denaro sborsato o messo a disposizione in questi mesi dai governi e dalle banche centrali, per non far sprofondare il sistema economico-sociale in una crisi peggiore di quella del 1929. Le cifre si rincorrono, ma c'è chi parla di quasi ventimila miliardi di dollari, che finiranno per lo più nelle tasche della borghesia, a cominciare dal suo strato superiore, va da sé. E tuttavia, “tutti” sanno che non basteranno, che potranno dare sicuramente una boccata di ossigeno all'economia, magari anche robusta, ma quei miliardi non saranno risolutivi, sia perché l'impatto della pandemia è pesantissimo, sia perché il contagio si è abbattuto su di un'economia mondiale già in sofferenza – non da ieri – che solo la guerra senza quartiere alle condizioni di esistenza del proletariato, in atto da decenni, e le “magie” della speculazione finanziaria puntellano, con costi sociali, umani, ambientali altissimi. Da qui la richiesta pressante, persino isterica, del padronato perché lo stato faccia di più, crei un clima più “accogliente” per gli affari, metta il turbo ai finanziamenti all'impresa, sotto qualunque forma, non escludendo, anzi, un ulteriore abbassamento delle imposte su profitti e sulle plusvalenze finanziarie, recuperando soldi con altri tagli al cosiddetto stato sociale, con la “razionalizzazione” della Pubblica Amministrazione (riduzione dei costi, dei posti di lavoro), con la rimodulazione dei contratti, benedetta dallo stato (e magari dai sindacati), compresa, non da ultimo, quella relativa al settore del pubblico impiego. Rimodulazione diretta a oliare i meccanismi di estorsione del plusvalore (cioè dello sfruttamento), rimuovendo quelli che dal capitale sono visti come ostacoli non più tollerabili in tempi di vacche magre, per quanto riguarda i livelli dei saggi di profitto. La lettera del presidente della Confindustria Bonomi al capo del governo, pur presentando aspetti tutti italiani, diciamo così, è esemplificativa di un “comune sentire” del padronato, non solo italiano.

Se gli industriali vogliono tutto e subito, avendo l'occhio puntato sulla propria azienda, c'è chi, tra il personale politico borghese, cerca di valutare le cose in prospettiva, con uno sguardo d'insieme che comprenda tutto il mondo borghese, con le sue articolazioni e le sue contraddizioni sociali, che rischiano di diventare esplosive. Così, Romano Prodi, che di capitalismo di stato se ne intende, pur escludendo un ritorno ai tempi della “sua” IRI, auspica che lo stato ritorni a gestire direttamente l'economia con «una partecipazione pubblica di minoranza nelle imprese anche per difendere da mire straniere le aziende indispensabili al nostro futuro. Non è statalismo...» (intervista rilasciata al Corriere della Sera il 1 giugno). Non basta, insomma, iniettare soldi nelle vene dei padroni, sperando che li investano nelle loro attività specifiche (e non nella speculazione, come per lo più avviene), occorre che lo stato entri direttamente nell'impresa, anche se come socio di minoranza, per sostenerle finanziariamente, tracciarne la direzione, a tutela degli interessi generali della borghesia come classe. Se le delocalizzazioni, con relativo ridimensionamento di interi settori industriali (o addirittura la loro sparizione), hanno pompato aria nei polmoni esausti del capitale, dall'altra però possono indebolire il ruolo imperialistico della borghesia italiana (ed europea), la cui potenza di fuoco industriale rischia di non essere all'altezza delle sfide che i vari briganti imperialisti si lanciano e si rilanciano continuamente sotto il pungolo della crisi. Drammaticamente, la mancanza di “banali” dispositivi di protezione individuale (mascherine, camici) e di ventilatori per la respirazione assistita ha evidenziato che certe produzioni strategiche (tra cui le mascherine) devono essere tenute in casa, se non ci si vuole trovare alla mercé di concorrenti ostili, oggi sul terreno del mercato, domani su quello del campo di battaglia.

Come spesso accade, le “teste pensanti” della borghesia, proprio perché si pongono nell'ottica degli interessi collettivi della loro classe, vanno presi più sul serio del personale politico-intellettuale riformista, la cui visione del mondo è ugualmente inscritta nell'orizzonte della società borghese, ma si illude di poterne smussare le punte e le asperità. Questa gente crede che lo stato democratico sia un'entità neutra, al di sopra delle classi e dei loro interessi inconciliabili, che basti dunque conquistarne il governo per inaugurare una fase politica che riduca le disuguaglianze sociali, tuteli l'ambiente, la salute dei “cittadini”, dia slancio alla scuola e alla ricerca, proprio grazie all'intervento dello stato nell'economia e alla partecipazione democratica della “cittadinanza”. Come se oltre due secoli di capitalismo non avessero dimostrato abbondantemente che lo stato è strumento esclusivo della classe dominante, che non può essere usato in favore della classe lavoratrice, men che meno nelle epoche di crisi, quando svaniscono gli spazi per addolcire, per così dire, il suo ruolo di difensore degli interessi di chi sfrutta, opprime e domina: la borghesia.

Venerdì, July 24, 2020