I nuovi assestamenti imperialistici in Libia

Quello che al tempo dell'impero dei “Cesari”di Roma Caput mundi era considerato il “Mare nostrum”, oggi è diventato il centro focale dello scontro tra i moderni imperialismi che sul Mediterraneo si affacciano e di quelli che il “Mare nostrum” non lo vedono dalle finestre di casa loro, ma lo solcano in cerca di porti militari, del controllo delle vie di comunicazione e commercializzazione marittima, di presenza militare tra tre continenti (Europa, Africa e Asia) e, non ultimo, in cerca dello sfruttamento delle ricchezze petrolifere libiche nonché di quelle al largo dell'isola di Cipro.

Il fulcro di tutta la questione è, al momento, la Libia divisa tra il governo di Tripoli - guidato dal fantoccio Serraj, sostenuto un tempo dall'intero mondo occidentale (Usa e Francia in testa), oggi dalla Turchia e dal Qatar - e il fronte cirenaico, che vede il suo uomo forte nella figura del generale Haftar, sostenuto dalla coalizione degli Emirati, Egitto e Arabia saudita con l'appoggio “esterno” della Russia. In termini semplici i due grandi contendenti sono la Russia e la Turchia che, alleati nella gestione dello strategico Turkish Stream - che porta il gas russo nel sud dell'Europa sino a rifornire la Germania e vantaggi economico strategici alla Turchia - per il resto sono i due maggiori competitori nell'area del basso Mediterraneo.

Se si astrae dalla recente prova di forza di una coalizione navale nelle acque antistanti il golfo della Sirte (primi giorni di luglio) composta da Usa, Francia, poi ritiratasi, e Italia, c'è poco da segnalare sul fronte occidentale. Gli ultimi due (Francia e Italia), i paesi europei più interessati alle vicende del petrolio libico, manco a dirlo in accanita concorrenza tra di loro, hanno al momento ben poche voci in capitolo, ma solo rimpianti e ambizioni frustrate. Mentre gli Usa, pur partecipando alla coalizione, l'hanno strumentalmente concepita come azione di disturbo nei confronti della Russia e per ribadire il loro irrinunciabile ruolo nel Mediterraneo. Chi invece mostra le voraci fauci in segno di feroce determinazione militare nell'area mediterranea è la Turchia. Il suo intervento militare in Libia, dopo quello in Siria nella zone di Idlib, ha sortito l'effetto di garantirsi il controllo dalle zone siriane contigue al suo confine e di salvare il governo di Tripoli dall'avanzata delle truppe di Haftar, proponendosi quale primo e minaccioso interlocutore negli affari petroliferi della Libia, eliminando di fatto i vecchi interlocutori come la Francia e l'Italia. La “campagna” turca nel Mediterraneo non si limita però a queste manovre, ma si proietta sino ai giacimenti offshore dell'isola di Cipro.

In sintesi, all'asse turco-qatariota ( per quanto il Qatar possa militarmente contare) si contrappone quello formato da Egitto e Russia, con la compartecipazione di Iran, Iraq e degli Hezbollah libanesi, Arabia saudita ed Emirati, anche se con obiettivi opposti e contrastanti (secondo molti osservatori la frattura tra Arabia Saudita ed Emirati discenderebbe da un forte contenzioso basato sulla prospettiva dello sfruttamento di risorse energetiche ai confini con l'Oman di grande interesse economico e strategico). Operativamente l'Egitto, con Emirati e Arabia Saudita, sostiene con armi e milizie le truppe di Khalifa Haftar. La Russia e gli Hezbollah libanesi, alleati dell’Iran, hanno iniziato a reclutare “civili” siriani per sostenere il generale di Tobruk, e Mosca ha mandato i suoi contractor in terra di Libia sin dall'inizio della crisi, mentre in Siria sono stati allestiti da Assad e da Putin centri di reclutamento e addestramento di miliziani da inviare a sostegno del loro alleato libico contro i tentativi di penetrazione turca. D'altra parte, la Turchia aveva già inviato truppe mercenarie provenienti dal nord della Siria a sostegno di Tripoli e Misurata. Truppe mercenarie formate da milizie jihadiste filo-turche originarie della regione siriana di Idlib, da formazioni qaediste e dagli sbandati avanzi dell'ex Isis, tutti sotto la supervisione di consiglieri militari turchi.

Come già detto, al centro della questione c'è il controllo del petrolio libico, in seconda battuta quello cipriota a cui sono interessati, oltre alla Turchia, gli Emirati, la Russia e, non da ultimo, Israele, che da sempre è in cerca di quella autonomia energetica legata al petrolio ma che, sino ad ora, non ha mai trovato. A conferma dell'intensità della tensione c'è da ricordare una riunione in video conferenza convocata a metà maggio da Al Sisi con la partecipazione di Grecia, Cipro, Francia ed Emirati, (da notare l'assenza della Arabia saudita), che ha rappresentato la prima concreta struttura di una “santa alleanza” contro la determinata quanto pericolosa penetrazione turca che rischia di sconvolgere ulteriormente lo scenario libico. In un comunicato ufficiale la neonata “santa alleanza” condannava le esplorazioni turche nelle acque di Cipro come illegali e provocatorie. Aggiungendo che le molte violazioni dello spazio aereo greco si configuravano come un implicito atto di guerra nei confronti di un paese Nato, commesse volutamente e provocatoriamente da aerei da caccia turchi.

Il tutto ci fa riflettere su due circostanze le cui gravi conseguenze sono indissolubilmente legate. La prima è che, nella fase storica che stiamo drammaticamente vivendo, quella di una profondissima crisi da “Corona virus” dove tutto è sembrato fermarsi, gli imperialismi hanno continuato il loro funesto percorso. Anzi, la profondità della crisi non ha fatto altro che accelerare il loro operare in termini di scontri diplomatici, di guerre guerreggiate, anche se per procura, devastando aree geografiche strategiche per i soliti interessi legati, come si diceva poco prima, al controllo e allo sfruttamento del petrolio, ma non solo. In palio c'è anche il controllo delle vie di commercializzazione del greggio, la gestione dei porti militari nel Mediterraneo e non solo, da Gibilterra al Bosforo, da Suez sino ai porti di Cipro e Malta, poi quello di Aden per finire sul Corno d'Africa e lo stretto di Hormuz.

La seconda è che a subire le manovre imperialistiche sono le intere popolazioni dell'area, sotto forma di centinaia di migliaia di vittime civili, di milioni di profughi che sopravvivono in veri e propri campi di concentramento, di un umiliante abbrutimento umano, di una progressiva barbarie che solo il capitalismo in profonda crisi può elevare a tragica quotidianità. E' a questa quotidianità che i comunisti hanno il dovere di opporsi, organizzandosi ed organizzando l'alternativa ad una società che non ha più nulla da offrire, se non l'intensificarsi delle guerre, la progressiva pauperizzazione di intere popolazioni e lo sfruttamento sempre più intenso della classe lavoratrice, concepita dal sistema capitalistico come “carne da profitto” in tempi di pace e “carne da cannone” in tempi di guerra.

FD
Domenica, July 12, 2020